Visita in cantina: Poggio Bbaranèllo , 15/12/2020

 

E mo la pandemia, e mo le ferie al lavoro posticipate, e mo il rinvio del corso WSET Level 3 che avrei dovuto seguire la settimana dal 14 al 18 dicembre (e che è stato spostato a fine gennaio; ma tanto lo rinviano, oooh se lo rinviano nuovamente. Grazie Covid, avessi anche rotto tre quarti di..), e mo tutto questo, le alternative erano due: mettermi a pulire casa con mia moglie o andare in visita ad una cantina. “Allora ciao amore mio, io vado eh”.

Già, ma quale cantina? Quale criterio utilizzare per scegliere il destinatario delle mie attenzioni? Il blasone, il numero di etichette, le diverse tipologie di vini. Ero piuttosto indeciso, quando in un flash mi sono ricordato di questa azienda appena nata, sorretta solo da due ragazze (hanno più o meno la mia età: sono delle bimbe), in zona Montefiascone: Poggio Bbaranèllo. Ok, pieno alla macchina e si va.

All'arrivo mi accolgono Silvia, Argo, Lola e Michele. La bipede è solo la prima, gli altri tre sono due simpatici cagnolini ed un gattino dotato di un appetito implacabile. Il casale si trova al termine di una ripida discesa ed affaccia sui vigneti aziendali, posti su dolci pendii. Sono circa 4 ettari a 400 metri slm piantati a trebbiano toscano, qui chiamato procanico, trebbiano giallo, altresì detto roscetto, e malvasia lunga, quest'ultima priva di soprannomi a me noti.



Il progetto è recente poiché sia Silvia che sua moglie Lisa non hanno alle spalle decenni di vendemmie e tradizione contadina. Ad un certo punto prende la botta di matto e ci si ritrova a potare, scacchiare, defoliare, vendemmiare e marcare i vini in affinamento disposti a zona 3-2 (è basket, apprenderete anche qualcosa su questo sport meraviglioso seguendomi). Silvia viene da una laurea in matematica, lei e Lisa vivono e lavorano a Roma, saremmo parecchio lontani dal vino. Eppure eccole qui, da sole a gestire vigneto, casale e cantina facendo la spola tra Montefiascone e Roma ogni settimana. Alla fine Forrest Gump si sentiva un po' stanchino per molto meno.



La visita è proseguita in cantina: un locale piuttosto piccolo con quattro serbatoi inox, due barriques esauste e un'anfora nata sotto una cattiva stella. Ed è bellissimo, è questa la vera artigianalità del vino: non la cantina mastodontica con impalcature di barriques progettate da Santiago Calatrava, non la neo-cantina finto-new age in armonia con i ritmi del cosmo e delle banche, ma una stanza riadattata a cantina, con la giusta inerzia climatica e gli attrezzi del mestiere; un posto che il visitatore potrebbe riconoscere come familiare, quasi come se quella cantina l'avessimo già vista, magari proprio sotto casa.

Ma ritorniamo alla cronaca; anche perché sarà bella l'artigianalità, ma se poi i vini sono indecenti abbiamo fatto l'arte per rimetterci. Spoiler: i vini sono più che decenti. Ovviamente la filosofia globale è interventismo ridotto all'osso e fermentazioni su piede di lieviti indigeni. Silvia ha spillato per me ogni vino dell'annata 2020 attualmente in affinamento, e le prospettive sono molto interessanti.

Si parte con il T1, ossia il trebbiano toscano vinificato in bianco, inox. È la prima uva ad essere vinificata, da qui il nome che manda baci alle scienze matematiche tanto care a Silvia: T1 si può leggere “T-con-1” e tradurre con “trebbiano al tempo 1”. Il vino è intensamente profumato, di fiori bianchi, mela golden, agrumi e frutta tropicale, una bella dotazione per un 'semplice' trebbiano toscano, con una bocca fresca e molto fine.

Si prosegue con il RM, leggibile con “roscetto macerato”, il cui protocollo di vinificazione ha subìto un drastico ridimensionamento rispetto all'annata 2019, giovandone clamorosamente: invece di macerare il 100% della massa di uve, nel 2020 si è scelto di lasciare solo il 30% delle vinacce in macerazione per 15 giorni, inox anche qui. Il risultato è un vino che profuma di albicocca, miele e mandorla fresca e che in bocca ha una discreta freschezza, ancora un po' di residuo zuccherino e un clamoroso allungo in bocca, fruttato ed elegante.

Il successivo a finire nel calice è stato l'AT, acronimo di “anfora trebbiano”, lo stesso trebbiano toscano del T1, vendemmiato lo stesso giorno. Anche per l'anforato il protocollo ha visto lo stesso ridimensionamento riservato al RM, con il 30% della massa delle uve in macerazione, salvo che nel coccio le vinacce ci sono ancora. Il profilo olfattivo del vino spillato è più severo rispetto al fratellino T1, così come lo è la bocca. Un vino decisamente gastronomico, molto sapido, con il trebbiano a restituire il terreno tufaceo regalo del lago di Bolsena fu vulcano.



Avevamo parlato di due barrique, no? Bene, lì dentro c'è ad affinare un ciliegiolo vendemmiato da Silvia e Lisa nel vigneto di un loro conoscente, un vino ancora senza nome. Succo color porpora brillante, tante ciliegie croccanti e lamponi al naso, bocca ancora molto fresca con un tannino gentile, lunga persistenza fruttata e corpo leggero.

L'ultimo assaggio è il più emozionante: il 507, un metodo ancestrale da trebbiano toscano. Cosa è un metodo ancestrale? Il termine sembra ostico ma in realtà la spiegazione è molto semplice: si vendemmia l'uva si comincia a far fermentare; poi a un certo punto “ok stoppate la fermentazione”, “ma ci sono ancora degli zuccheri”, “obbedite”; a quel punto si imbottiglia il fermentando vino con lieviti, enzimi e tutto quanto, facendogli poi riprendere la fermentazione a guisa di metodo classico. Silvia ha effettuato il dégorgement appositamente per me su una bella 2020 fresca fresca. Emozionante il processo e bevibilissimo il vino: gelsomino, pompelmo e un lievito moderato a profumare un sorso assai goloso. Ah, come mai il nome è 507? Beh, perché della prima edizione del vino ne erano uscite fuori 507 bottiglie, per cui… C'è una logica in tutto a Poggio Bbaranèllo.



La visita finisce con l'acquisto di alcuni loro vini e con la convinzione che queste due ragazze abbiano appena cominciato un percorso molto interessante. L'aggettivo interessante è spesso usato a caso, quando serve un aggettivo per tutte le stagioni si usa 'interessante', ma qui è assai calzante: il loro lavoro è appena cominciato eppure già mostra grande validità; inoltre, per questo modesto blogger, i vini annata 2020 saranno ancora meglio dei 2019. Aggiungiamoci che il loro intento dichiarato è imparare, sperimentare e migliorare, ed ecco che la sensazione più stimolata nell'appassionato non può che essere l'interesse.


P.S.: vi chiedete perché Poggio Bbaranèllo, con due B? Perchè è il nome in dialetto locale del vento di tramontana che spesso accarezza i filari di vite, facendoli sentire tra l'altro come Ernest Shackleton.


Rocca delle Macìe, o la ricerca del terroir in tre espressioni di Chianti Classico annata 2016

 

Sergio Zingarelli e la sua famiglia mi perdoneranno, ma non sono in grado di cominciare a parlare di Rocca delle Macìe senza partire dal fondatore. E non posso parlare del fondatore, Italo Zingarelli, il padre di Sergio, senza partire da una maglietta lacerata color avorio, una treggia legata ad un cavallo che procede pigramente ed una padella di fagioli. Se ancora non ci siete arrivati vi guarderò male per tutto il resto del post. Era il 1970 e, fra le altre cose, usciva al cinema “Lo chiamavano Trinità...”, iconico film con Bud Spencer e Terence Hill. Il produttore di quel capolavoro era Italo Zingarelli: anche solo per questo, un imperituro ringraziamento .

Tornando alla materia enoica: la tenuta Le Macìe, a Castellina in Chianti, venne acquistata da Italo nel 1973, molto prima che la zona diventasse 'Chiantishire', con due ettari vitati sui 93 totali (oggi il conteggio degli ettari, tra Chianti e Maremma, si attesta a 500, con 200 ettari vitati). Nel 1985 Italo viene affiancato dal figlio Sergio, l'attuale presidente dell'azienda, e dalla figlia Sandra. L'azienda negli anni cresce sempre più fino a raggiungere le dimensioni attuali, in termini sia di ettari vitati e di etichette prodotte, che di reputazione e prestigio nel panorama vinicolo italiano.



Fin qui quello che molti conoscono o che possono ritrovare tramite una mirata ricerca internettiana. È questo il momento in cui mi vado a stagliare dalla massa [sguardo alla Sig. Burns]: grazie a Rocca delle Macìe e Rosanna Ferraro ho potuto assaggiare tre diversi Chianti Classico annata 2016: una Riserva e due Gran Selezione. L'occasione è quanto mai ghiotta per tirare il collo a tre bottiglie contemporaneamente: confrontare tre diversi vini 100% (o quasi) sangiovese, provenienti da tre diversi vigneti e con piccole variazioni dal punto di vista produttivo. Vado ad elencare i vini:

  • Chianti Classico Riserva DOCG “Sergioveto” 2016
  • Chianti Classico Gran Selezione DOCG “Riserva di Fizzano” 2016
  • Chianti Classico Gran Selezione DOCG “Sergio Zingarelli” 2016


fonte: Rocca delle Macìe

E solo per le prime venti telefonate elencherò anche i rispettivi terreni di provenienza:

  • Vigneto Pian della Casina, località Le Macie: altitudine media 365-340 slm, terreno franco, molto calcareo e ricco di scheletro (una gragnola di alberese); sabbia 38%, limo 39%, argilla 23%.
  • Vigna del Crocino, località Fizzano: altitudine media 280-300 slm, terreno franco-sabbioso; sabbia 64%, limo 15%, argilla 21%.
  • Vigneto le Terrazze, località Le Macie: altitudine media 330-340 slm, terreno franco-argilloso, molto calcareo e ricco di scheletro; argilla 35%, limo 37%, sabbia 28%.


Dunque abbiamo due vigneti che distano l'uno dall'altro qualche centinaio di metri ed uno (vigna del Crocino) distante una decina di km dagli altri due. Vigna del Crocino, lo abbiamo visto, ha terreno prevalentemente sabbioso. Degli altri due vigneti, piuttosto vicini, ci si aspetterebbe una sostanziale coerenza ma, come si vede dalle percentuali, le quote di sabbia ed argilla sono praticamente invertite tra il vigneto Pian della Casina e il vigneto le Terrazze. D'altra parte siamo nel Chianti e al di sopra di quelle dolci colline un tempo c'era il mare, Pliocenico mi dicono dalla regia. E, che io sappia, il mare non se ne sta fermo e buono ma ondeggia, oscilla e, quando si ritira, lascia sedimenti sparsi a casaccio e non secondo una logica precostituita. Con una risposta del genere sulla grande variabilità dei terreni del Chianti, ad un'interrogazione la sufficienza la strappate, garantito.

Un paio di parole l'annata la meriterebbe: il 2016 è cominciato sotto il segno di un inverno piuttosto mite, cosa che ha anticipato il risveglio delle viti con i primi germogli che hanno fatto capolino ad inizio aprile. L'anno è proseguito sui binari del tepore e della scarsità di piogge, se non verso la fine di agosto e a metà settembre (come dicono gli uomini-meteo: “piogge qua e là”). Le uve destinate ai tre vini esaminati sono state vendemmiate in un arco di tempo che va da fine settembre a metà ottobre.



E finalmente arriviamo ai succhi della questione. Direi di cominciare subito con il Chianti Classico Riserva DOCG “Sergioveto” 2016, un 100% sangiovese proveniente dal vigneto Pian della Casina. La fermentazione alcolica è durata 8-10 gg + 15 gg di macerazione post-fermentativa; malolattica in cemento e affinamento 24 mesi in botti di rovere francese da 25-35 hl, più almeno 12 mesi di bottiglia prima del rilascio.

Nel calice si presenta di un bel rosso rubino sulla strada per il granato. Al naso la primissima nota è di boero (cioccolatino Mon Cherì per i meno sofisticati) ed una bella balsamicità, seguite da lampone e da un delicato sottobosco, con cenni di violetta appassita. La speziatura rivela note di vaniglia, di leggera noce di cocco, di chiodo di garofano e una bella manciata di pepe nero. Chiude una bella sfumatura di tabacco dolce e caffè.

Il sorso ha sapore intenso, fresco, giustamente tannico e di sapidità apprezzabile, austero, morbidezza ancora defilata, un sensibile amarore conduce al finale di bocca, molto lungo e con ritorni fruttati, speziati e tostati.



Passiamo al secondo vino, il Chianti Classico Gran Selezione DOCG “Riserva di Fizzano” 2016, dove al sangiovese (90%) si aggiunge un saldo di colorino (10%). Le uve sono state raccolte nella vigna del Crocino, dove il terreno è il più sabbioso dei tre, per intenderci. Anche in questo caso la fermentazione alcolica si è protratta per 8-10 gg + 15 gg di macerazione post-fermentativa; malolattica in cemento e affinamento 24 mesi parte in botti di rovere francese da 25-35 hl e parte in barriques, più almeno 12 mesi di bottiglia prima del rilascio.

Il colore del Riserva di Fizzano è uno splendido rosso rubino, con un accenno leggero di granatura (o di granatina? Di grananza, via). Le note olfattive sono appena più dolci del Sergioveto, la frutta è più matura e a bacca nera (more, mirtilli ed amarene), il pepe nero è presente così come più percettibile è la nota vanigliata. Il profilo olfattivo è completato da cacao amaro, pelle conciata e gomma.

In bocca la freschezza è meno percepita mentre accentuato è il sentore amaricante, che chiede a maggior voce un accostamento mangereccio. C'è grande intensità, grande sapidità e un tannino più attenuato, sempre paragonandolo al Sergioveto. Tutto sommato il vino risulta più severo e meritevole di un altro po' di tempo spaparanzato in cantina a smussare qualche residua asperità. Finale di bocca molto lungo, che richiama la frutta e la radice di liquirizia.



Concludiamo in bellezza (come se fino ad ora avessimo bevuto vino e gassosa) con il Chianti Classico Gran Selezione DOCG “Sergio Zingarelli” 2016. Sangiovese in purezza raccolto nel vigneto le Terrazze, il dirimpettaio più argilloso del vigneto Pian della Casina. La fermentazione si è protratta per 10 gg + 18 gg di macerazione post-fermentativa; malolattica in cemento ed affinamento per 20 mesi in botti da 25 hl di rovere francese, metà delle quali nuove, concludendo con ulteriori 20 mesi di riposo in bottiglia.

Nel calice il vino è anch'esso rosso rubino con un bel riflesso granato sul bordo. Il naso cattura l'attenzione: la frutta ritorna ad essere a bacca rossa (tanti lamponi e ciliegie) e matura, quasi in confettura; speziatura di vaniglia, noce moscata, pepe rosa e semi di coriandolo; splendide note di rosa e di geranio; humus, sentore ematico, scatola di sigari, cuoio e cioccolato fondente; grandissima balsamicità di eucalipto. Un bouquet elegantissimo.

Il sorso è il più gentile e meno austero dei tre, stante la grande freschezza e la nota amaricante; buona sapidità, tannino più percettibile ma di ottima fattura, intensità magnifica e lunghissima persistenza gusto-olfattiva con ritorni di fruttati e di cacao amaro.



Ordunque, le conclusioni: potendo assaggiare i tre vini in rapida sequenza, andando in ordine e poi al contrario e poi a casaccio, il primo grande traguardo è il mantenimento del rapporto di amicizia con la forza di gravità (sono pur sempre tre vini da 14,5% di alcol). In secondo luogo, e magari soprattutto, ho potuto riflettere su come davvero un terreno possa incidere sul vino.

Dal punto di vista produttivo i tre vini hanno subìto una lavorazione tutto sommato simile, e il 10% di colorino nel Riserva di Fizzano non credo possa avere un peso enorme sensorialmente parlando. La teoria della degustazione dice, in linea di massima, che terreni prevalentemente sabbiosi daranno vini dai profumi più fini e più poveri di estratto e che i vini da terreni a prevalenza argillosa saranno più potenti ed aromatici.

La pratica di questa degustazione ha esibito un Riserva di Fizzano dal sorso più snello e riservato dei tre, nonostante il passaggio in barriques. Il suolo a prevalenza sabbiosa ha forse contribuito ad una maggior 'sottigliezza' sia del corredo olfattivo che del corpo del vino, sempre in paragone con gli altri due esemplari.

I due condomini invece, il Sergioveto ed il Sergio Zingarelli, hanno molti punti in stretta comunanza (la frutta rossa, le note floreali, la balsamicità accentuata), eppure ci sono alcune piccole differenze in cui certamente il terreno ci ha messo lo zampino americano. Uno su tutti il corpo del Sergio Zingarelli, più forzuto del Sergioveto, e qui risponde “presente” la quota di argilla in più. Quota che ritengo entri in gioco anche nella sua minore austerità gustativa, caratteristica questa poi affatto impensierita dal tannino più percepibile dei tre vini (ipotizzo che il maggior tannino sia dovuto più ai giorni di macerazione e all'uso di botti nuove che ad un effetto del suolo).

Questo è ciò che adoro del vino: la capacità che una stessa uva ha di reagire diversamente a seconda di dove le fanno affondare le radici, restituendo nel bicchiere il territorio da cui proviene. Se si confrontano vini 'fratelli' e si limitano le variabili il più possibile, la differenza la va a fare il terroir, concetto sintetizzabile brutalmente con il terreno, il clima, l'esposizione e la mano dell'omino che si spacca la schiena appresso a quelle viti. Non c'è altra bevanda che sia così potente e nobile, neanche a starla a cercare, è tempo perso.


fonte: Rocca delle Macìe

Bichat Fréres – Beaujolais AOC Nouveau 2020

Sì, ho comprato un vino novello. Sì, ho fiondato fuori dal portafoglio 6 ricchi € per diventare proprietario di un Beaujolais Nouveau. E sì, l'ho comprato al supermercato. Credo di avervi fatto inorridire a sufficienza, ci tenevo molto.

Il novello viene accolto da tutti con fischi di biasimo, ma in fondo è solo un vino diverso. Certo, un'azienda non si sognerebbe mai di spedire le migliori uve a fare bagni di CO2 per produrre un vino che dovrà essere consumato prima che tornino le rondini;  però resta sempre una tipologia di vino che esiste e che prima di denigrare bisogna perlomeno conoscere. Per farlo non conviene mai affidarsi al nostro Paese, vi spiego il perché: la legge stabilisce che il vino novello italiano può essere prodotto con almeno il 40% delle uve sottoposte a macerazione carbonica. Questo significa che per un restante 60% si può utilizzare vino prodotto in maniera tradizionale, o anche vino di annate precedenti. Molto sinceramente: non mi va di spendere del denaro per dare una mano a svuotare la cantina di qualche azienda. Il Beaujolais nouveau invece può essere prodotto solo con uve gamay e totalmente sottoposte a macerazione carbonica. In questo modo ci si può fare un'idea di come questa diversa tecnica enologica agisca sull'uva e, quindi, sul vino risultante.

https://enofylzwineblog.com/2014/07/25/wwd-carbonic-maceration/

A questo punto i bimbi si chiederanno “ma che cos'è la macerazione carbonica”? Lezioncina del Catcher? Lezioncina del Catcher: la macerazione carbonica consiste nel porre l'uva intera in un contenitore a tenuta stagna, chiuderlo a modino e saturarlo di anidride carbonica. La CO2 allarga le maglie delle cellule della buccia ed aumenta la sua permeabilità, facendo diffondere all'interno dell'acino pigmenti colorati, enzimi e i lieviti sparsi sulla superficie esterna. Questa breccia di Porta Pia fa sì che i lieviti/bersaglieri comincino a gozzovigliare, convertendo un po' di zuccheri in alcol. Ma siamo in assenza di ossigeno ed il metabolismo intracellulare diventa di tipo anaerobico. E chi la fornisce l'energia richiesta per andare avanti? Beh, c'è tanto di quell'acido malico in un acino d'uva che sarebbe un peccato non approfittarne. Ed ecco che la quota acida diminuisce man mano che la macerazione carbonica si protrae nel tempo. Altro particolare è che in tali condizioni si sviluppa molta glicerina, oltre ad aromi particolari tipici di questo processo: uno su tutti è il cinnamato di etile, una molecola dal profumo di fragole e lamponi. La macerazione carbonica può durare fino a 20 giorni, dopo di che l'uva viene pigiata e fatta fermentare alla maniera usuale. 

In conclusione ci ritroviamo fra le mani un vino che ha bassa acidità, grande morbidezza, tannino praticamente nullo e un'incredibile bouquet fruttato. Andiamo nel calice.

 


Il Beaujolais Nouveau di Bichat Fréres è un panneggio vescovile (non ve l'aspettavate questa, eh?): un bel porpora/violaceo trasparente, prevedibile per un vino di appena 2/3 mesi. 

Il naso è una macedonia in chiave bambinesca: fragole a rotta di collo, banana, aroma di Big Babol (sic) una punta di cannella e note di maraschino. Ok, i bambini non dovrebbero bere superalcolici, ma diciamo che il nostro è un monello ed ha approfittato di un momento di distrazione del parentame per dare brio alla sua razione di frutta giornaliera seguendo l'esempio dei nonni (se non avete mai provato l'ananas al maraschino non potete dire di aver vissuto veramente). Tutto ciò è circondato da un alone di sentore vinoso, dote di gioventù del vino.

La bocca… gne. Gne. Freschezza minima, morbida, un minimo di sapidità, tannino assente, però intensità moderata e di scarsa durata. Lo so, non è un Monfortino ed è da pazzi fare paragoni tra diversi sport, ma in sintesi estrema mi è mancato l'appagamento alla fine del sorso. Per carità, è un vino ben eseguito, semplice (che non è un difetto) e anche piacevole da bere, ma dopo la deglutizione mi svanisce troppo rapidamente e quel che resta non mi dà piena soddisfazione. Sono consapevole che questo mio duro giudizio toglierà il sonno ai fratelli Bichat.

 

Chi volesse operare un paragone tra il Beaujolais Nouveau e un Beaujolais tradizionale può cliccare qui.

 

 

Charly Nicolle – AOC Chablis “Per Aspera” 2018

 

Per aspera ad astra” è una locuzione latina che sicuramente conoscete. Di base vuol dire che attraversando le difficoltà si può raggiungere il successo, la vittoria. L'avrete letta senz'altro nelle bacheche Facebook di persone che gestiscono il latino come Sgarbi il senso della misura e del ridicolo. 

Il vino che questo bell'omino ha stappato è stato per l’appunto chiamato “Per Aspera”, e ne ha ben donde. È uno Chablis, zona che fa parte della Borgogna, localizzata più a nord della Côte d'Or, e le asperità non si riferiscono tanto (o solo) al terreno ma comprendono tutte le caratteristiche del terroir chablisienne, una in particolare: in Chablis fa un freddo porco. È per questo motivo che la zona è equamente ripartita tra riva destra e sinistra del fiume Serein, ripetiamo tutti insieme: i corsi e gli specchi d'acqua fungono da volano termico, mitigando le temperature e riducendo l'escursione termica giorno-notte. Sì ma siamo comunque sul 48° parallelo, il rischio di incappare in gelate primaverili ed autunnali è frequente come trovare un fake-centurione sotto il Colosseo. 

Nello Chablis l'uva è una ed una soltanto: lo chardonnay. E qui potete maltrattarlo, coccolarlo, fargli fare acciaio, fargli fare legno grande o piccolo, lui uscirà fuori in un unico modo: citrino ed affilato come un rasoio. Con un clima del genere lo chardonnay non esprimerà mai i toni burrosi e tropicali di altre latitudini, viceversa conserverà gelosamente una quantità di acidi fissi tale da far contrarre ogni singolo muscolo facciale ad ogni sorso. Ah, potete anche fargli fare la malolattica, e in zona la agevolano in tanti, ci sarà sempre parecchio acido malico con cui avere a che fare.

Altra caratteristica dello Chablis è il celeberrimo suolo kimmeridgiano: si tratta di un terreno sedimentario di origine giurassica (150 milioni di anni fa circa), costituito da marne grigie, calcare e gesso, la cui peculiarità è la presenza di minuscoli fossili di ostriche denominate exogyra virgula

Freddo e terreno di origine sedimentaria marina, abbiamo individuato i due marcatori fondamentali dei vini dello Chablis. Verifichiamo che ciò sia vero.

 


Nel calice lo Chablis “Per Aspera” 2018 è di un prevedibile giallo paglierino assai tenue. Anche il naso trasmette un'idea di freddo: lime, pesca bianca, biancospino, mandorla fresca e crema di latte (sospetto sia opera della malolattica). Il leit motiv olfattivo però è uno soltanto: mineralità. Un sentore costante nel tempo, a metà tra la ghiaia bagnata e  le conchiglie (sì, magari è suggestione, magari io so che nel terreno ci sono le conchiglie allora ci associo le conchiglie, tutto può essere. Però il profumo dello Chablis ricorda davvero quello delle conchiglie. La controprova potrebbe solo essere una degustazione alla cieca, ma finché non mi invitate non potrò venire dileggiato!).

Bocca freschissima, ma la quota acida non dà la rasoiata che mi sarei aspettato. C'è spazio per una discreta morbidezza e una tenue sapidità. Il vino ha sapore molto intenso e persistente, con chiare sensazioni fruttate che restano dopo la deglutizione. Un vino elegantissimo ed un ennesima faccia dello chardonnay, che sarà pure un vitigno piantato nel mondo anche lungo le autostrade, ma nei suoi territori vocati perde qualsiasi accenno di banalità e si esprime a livelli eccelsi.

 

Dr. Loosen – QbA Mosel-Saar-Ruwer Riesling “Blue Slate” 2018

 

“E da quando i tedeschi sarebbero capaci di fare il vino? Quelli bevono solo birra”. Ecco, una frase del genere può avere una frequenza alta come il canto dei pipistrelli fra i non iniziati al succo d’uva fermentato. Brutta bestia l’ignoranza, mi ci metto anche io in mezzo: prima di essere vinosamente educato credevo che i tedeschi fossero eccellenti in ogni campo, ma sul vino no, dai, ma che ne possono sapere loro. Invece, siccome alle divinità questo popolo deve piacere particolarmente, nonostante una latitudine a dir poco sfavorevole alla viticoltura, si sono ritrovati con una delle uve più straordinarie che madre natura abbia concesso in dono ai bipedi: il riesling renano.

Quest’uva ha un corredo aromatico unico e non replicabile, totalmente differente anche dai suoi parenti più prossimi (Müller Thurgau, Incrocio Manzoni o Manzoni Bianco 6.0.13, riesling italico o welschriesling), possiede un’acidità eccezionale, una finezza regale e una longevità da vecchietto giapponese. E, già che ci siamo, dopo qualche anno in bottiglia sviluppa TDN, o in parole IUPAC 1,1,6-trimetil-1-2-diidronaftalene, che non è un insetticida bensì una delle note olfattive più apprezzate e particolari dai degustatori seriali: la nota di idrocarburo (o “di cherosene”). Non poteva essere di casa sui Castelli Romani quest’uva, no eh? Doveva per forza trovarsi a proprio agio tra i calzinosandalati eh… E vabbè.

In Germania il riesling è piantato un po’ ovunque, ma se c’è un luogo dove quest’uva eccelle è ai bordi della Mosella; un paesaggio incantevole: i ripidi pendii ai lati di questo fiume piuttosto tortuoso sono completamente piantati a riesling, con le piante non disposte in filari ma steccate individualmente. Altra particolarità della zona è il suolo composto da ardesia blu, che nei siti migliori dona ai vini una importante nota fumé. Cos’altro dire del riesling? Ah sì, che forse il suo meglio lo dà nei vini dolci, meglio ancora se botrytizzati (i famosi Trockenbeerenauslese che, maledizione, mica si riescono a trovare nelle enoteche!), riuscendo a mantenere una generosa quota acida che equilibra perfettamente la quantità di zucchero presente. Nient'atro? Vogliamo anche renderlo ideale nel trattamento dell'obesità? I tedeschi aho…

 


Ad ogni modo il Riesling esaminato dal qui presente vostro wineblogger preferito è un cosiddetto 'entry level' (cosiddetto da me), un coacervo di uve raccolte dai possedimenti di Dr. Loosen sparsi lungo il corso della Mosella (cos'è un coacervo?). Le uve vengono vinificate e affinate brevemente solo in acciaio, per poi lasciare Bernkastel entro 12 mesi dalla vendemmia. 

Nel calice il giallo paglierino è appena accennato, quasi bianco carta, segno che di materia colorante ce ne è ben poca e che è un vino che proviene da latitudini fredde. 

Al naso è un Riesling esemplare, didattico, tipico (e altri termini che piacciono tanto ai sommelier). Dominante olfattiva? Mineralità, a sventagliate: si oscilla tra selce e l'odore della pioggia, con minime note fumé. Un profumo impossibile da ritrovare in qualsiasi altro vino, una caratteristica unica che o si odia o si ama. Amo, amo.

Il profumo si completa con alcune note di frutta verde, lime e mela, di cedro candito e un lievissimo sentore di gomma.

Il sorso è tagliente, affilato, verticale (anche se non amo il termine). L'ingresso in bocca è “pizzicosino”, la bocca è tanto fresca, agrumata, con una leggera sapidità e discrete sapidità e persistenza, con chiusura che riprende la mineralità provata all'olfatto. Un vino ideale per chi volesse introdursi al Riesling.

Agnanum – Falanghina Campi Flegrei DOC 2019

 

Io penso di essere chissà cosa. La confessione da lettino dello psicologo è necessaria e nemmeno troppo cervellotica. Mi sono diplomato sommelier da poco tempo, dunque credo di conoscere il vino, dunque cerco vini profumati e dalla personalità riconoscibile per poter dire “ecco, vedi, questo profuma di guttaperca slovacca, di centrini de pora nonna e di gladiolo spampanato a chiazze”. Dunque snobbo i vini semplici. I vini dove si vede chi sa davvero il vino e chi no. Perché a trovare il peperone nel cabernet sono bravi tutti, mentre per descrivere con competenza i profumi di un trebbiano toscano o di un grignolino bisogna essere bravi per davvero. Io bravo non lo sono e questi vini li snobbo accuratamente.

Poi arriva un’occasione, un ordine importante di vini e una lista di etichette stilata dal sottoscritto. La lista è stata sottoposta alla cortese attenzione di alcune persone che stimo, per avere il conforto che stessi investendo bene le sudate cart(amonet)e. Ed una di queste persone ha buttato lì qualche suggerimento ulteriore. 

La persona in questione è Alessio Pietrobattista, degustatore dall’esperienza pluriennale e coordinatore di Slow Wine per il Lazio. Io non so per quale motivo seguiti a darmi immeritata attenzione ogni volta che gli scrivo, ma spero continui a farlo perché ogni volta che ci ho parlato ho imparato qualcosa. È stato il Pietrobattista a suggerirmi questo vino che, pavido come sono, non compariva tra le mie prime scelte al draft. Ma siccome sono sì pavido, ma anche uno scolaro diligente, ho accettato il consiglio ed eccomi qui ad affrontare un vino che mi impensierisce. 

Sono serio, la falanghina è un’uva che dona acidità, che dà mineralità, ma che a livello olfattivo mostra poca esuberanza. È un vino concreto, quotidiano, pochi orpelli, pochi fronzoli. Carpire l’essenza di un vino del genere richiede esperienza e sensibilità. Io non ne sono provvisto ma mi darò da fare.

 



La Falanghina di Agnanum nasce su un terreno che definire impervio è riduttivo tanto quanto dire che Henri Cartier-Bresson scattava delle belle foto. Si è nella riserva naturale degli Astroni, in pieni Campi Flegrei, e le foto dei vigneti sono eloquenti. Solo qualcuno veramente innamorato di questo mestiere come Raffaele Moccia potrebbe sostenere la fatica di inerpicarsi su quei terrazzamenti per curare le proprie viti. Ah, ovviamente la conduzione del vigneto è esclusivamente manuale e così resterà, almeno fin quando il jet-pack non diventerà un mezzo di locomozione di serie e a buon mercato. 

Nel calice il vino è di un giallo paglierino con qualche riflesso verde. Al naso i profumi sono falanghineschi: le fondamenta sono costituite dalla mineralità, che oscilla continuamente tra cenere e salsedine. Altre note ricordano il tiglio e la camomilla, intensi sentori di agrumi (pompelmo e limone) e una fragranza di crosta di pane.

Il sorso è secchissimo: è molto fresco ed ancora di più sapido, d’altro canto siamo in alto sui Campi Flegrei. Il sapore è intenso e in bocca resta a lungo questa lunga scia sapida. Il metodo Mercadini di abbinamento cibo-vino, su cui si basa tutto il terzo livello del corso sommelier, lo sconsiglierebbe fortemente, ma l’accostamento di questa Falanghina con degli spaghetti con le vongole può rivelarsi un azzardo vincente. 

Casale della Ioria – Cesanese del Piglio Superiore Riserva “Torre del Piano” 2016

 

Cominciare un pezzo riguardante il Cesanese del Piglio senza dire “l’unica DOCG rossa del Lazio” sarebbe da folli. Molti di voi avranno pensato “sì, me la ricordo al corso sommelier questa DOCG” e poi stop. Il pensiero finisce lì, e si passa a fantasticare del pasto serale. 

Il mio lamento è semplice: in Italia non si beve Cesanese del Piglio. Non è un vino che si punta entrando in enoteca, a meno che non si voglia provare il brivido dell’ignoto. E dunque la prima ‘G’ laziale conquistata da un vino, nel 2008, non ha avuto il ritorno sperato almeno sul mercato nazionale. A ciò ha contribuito anche la mancanza di un fronte comune tra le aziende. Ognuno ha percorso la propria strada e il proprio stile, con il risultato di non aver diffuso un’idea chiara di cosa sia un Cesanese del Piglio, al netto delle singole differenze di ogni vigna (perché l’uva cesanese legge il terroir in maniera meravigliosa). Ci sono Cesanesi concentrati e leggeri, che fanno botte grande o barrique, convenzionali o biodinamici, dalle rese scarse o spinte al massimo consentito dal disciplinare. Una caponata in salsa ciociara.

In questo turbinio di stili, Casale della Ioria rappresenta un’azienda-faro di questo angolo del Lazio, con una gamma di Cesanese di tutto rispetto, a partire dai base fino ad arrivare al Torre del Piano, il quarterback della squadra. Un Cesanese del Piglio da tramandare ai posteri, un vino di assoluto livello. Posso spingermi così oltre con le parole perché ho avuto la fortuna di partecipare circa un anno e mezzo fa ad una verticale di 10 annate di Torre del Piano, dalla 2016 alla 1999. E, sebbene il Cesanese dia il meglio di sé tra i 5 e i 10 anni, anche dopo 20 anni il Torre del Piano non cede all'uso del bastone.

 


Le uve del Torre del Piano sono tutte cesanese d’Affile, il biotipo dall’acino più piccolo e quindi più carico di aromi. Le uve, provenienti da un terreno ai piedi dei Monti Ernici a 400 metri di altitudine, vengono raccolte manualmente ad inizio ottobre. Il mosto, a contatto 10 giorni con le bucce, fermenta in acciaio, stesso locale dove avviene la malolattica, per poi passare ai barili di rovere e quindi in bottiglia.

Veniamo ai giorni nostri e alla 2016 sacrificata per scopi ludico-didattici. 

Il colore è un bel rosso rubino piuttosto compatto con bordura granata. Il naso è piacevolissimo, molto elegante. Tra le numerose componenti, tutte molto coese fra loro, svetta la speziatura, marcatore tipico dei Cesanese, con note di pepe, di leggera vaniglia e soprattutto, attenzione attenzione di cardamomo! Certamente, il cardamomo non solo esiste, non solo è una spezia magnifica, ma è anche un tipico descrittore dei vini a base Cesanese fatti a mestiere. Ma non di sole spezie si ammanta questo vino, giacché emergono molti altri profumi: violetta e glicine, marasca e mora sotto spirito, china, rabarbaro, tanto mirto, sottobosco e humus ed una nota tostata di cacao.

La bocca è duale, è al contempo nervosa e gentile, la freschezza è ancora vivace ma le componenti morbide sono ben presenti. L’ingresso in bocca è pseudo-dolce, sensazione probabilmente dovuta sia al periodo di raccolta delle uve che ai 15% di alcol, ma questa pseudo-dolcezza iniziale dà subito strada ad un gusto ben definito, sapido e con un lieve amarore. Il tannino è giusto ed è educatissimo e il sapore molto intenso di questo vino resta nel cavo orale per lungo tempo, una tenace chiusura speziata. Ah, un particolare: i gradi di alcol saranno anche 15%, ma sono impercettibili. L’equilibri di questo vino è impressionante.


 

 

Domaine du Cayron – Gigondas AOC 2014

Ce ne torniamo in Francia. Sì, Gigondas non è l’ala grande del Panathinaikos, bensì una AOC localizzata nel Rodano del sud. Offuscata a livello internazionale dal più celebre vicino, lo Châteauneuf-du-Pape, condivide con questi molti tratti in comune, come ad esempio i vitigni principali (qui domina la Grenache, con un apporto non trascurabile di Syrah, Cinsault e Mourvédre), o il suoloargilloso-calcareo ricco di scheletro, le famose galets (da noi si sarebbero chiamate “breccole”. Gli innumerevoli vantaggi delle lingue estere). Da quelle parti il clima è di tipo mediterraneo, piuttosto caldo, tuttavia il mistral fa spesso capolino a raffreddare gli animi e, già che ci si trova, a dare anche un’annaffiata. 

Come detto, in quella parte del Rodano è la Grenache a dettar legge e, complice il caldo, i vini vengono su belli possenti che “guarda quant’è bello a mamma sua, mangia tutto esso”. Per questo motivo Syrah, Cinsault e Mourvédre partecipano alla festa: donano l’acidità e il tannino necessari a far stare dritto sulla schiena questo ragazzone.

 


E il Gigondas 2014 del Domaine du Cayron lo è davvero un ragazzone, ma non di quelli pompati a steroidi. È un bel tipetto, robustino e paciocco. Potrebbe fare il centro in una squadra di media serie D italiana di basket. 

È costituito per il 78% da Grenache, il 14% da Syrah, il 6% da Cinsault e il 2% da Mourvédre, vendemmiate a mano, fermentate separatamente e assemblate in inverno. In seguito il vino matura per 12 mesi in vecchie foudres di quercia. Lo step finale è l’imbottigliamento, senza alcun filtraggio: via in bottiglia e au revoir.

Nel calice il vino è di un bel granato pieno e compatto. Il profumo è notevole: appena stappata la bottiglia le note sono tutte selvaggina e sottobosco, ma si intuisce che sotto ci sia altro materiale. Ed infatti, giusto il tempo di qualche respiro ed arrivano intense note di prugna e di frutti di bosco maturi, di pepe e noce moscata, sentori molto chiaro di miele di castagno e di paté d’olive. Chiudono leggere sfumatureu di alloro, timo, legna bruciata, tabacco dolce e cuoio. 

In bocca si nota fin dall’ingresso il corpicione di questo vino. Un vino morbido e decisamente strutturato, ma guai a ritenerlo pesante, tutt’altro. Il vino è ancora sostenuto da una cospicua dote di acidità, che fa squadra con un tannino vellutato e una giusta sapidità a equilibrare il sorso. Un leggero amarore connota la bevuta, dal sapore parecchio intenso e comunque di grande finezza. Sapore che resta in bocca a lungo, con richiami fruttati e speziati ad alternarsi girando sottobraccio “trallallero trallallà”.

Un vino notevole, potente ma con una quota di eleganza che lo ingentilisce. E bravi i francesi pure stavolta (anche se hanno la fissa di produrre bottiglie da 10 kg l’una. Ma perché non cominciate a fare delle bottiglie normali e non ‘ste mazzette da muratore?).

  

Santa Sofia – Valpolicella Ripasso Superiore DOC 2017

Il Ripasso è una bestiola particolare. Trova estimatori e detrattori parimente divisi. Sinceramente, mi è sempre parsa più un’operazione di marketing che una tecnica tradizionale e radicata nei secoli (accolgo con gioia una documentata smentita che colmi questa mia lacuna). Mi immagino la scena, studiata dai tre sceneggiatori di Boris: “che ci facciamo con tutte queste vinacce appassite?”. “Fermi tutti, c’ho un’idea: ripassiamoci il vino base. Così, de botto, senza senso”. “Genio”.

Comunque sia nata questa bestiola, un Valpolicella Ripasso fatto bene dà grande soddisfazione al palato, avendo più complessità rispetto al Valpolicella base e meno ‘impegno’ dell’Amarone. Ecco, dovessi inquadrarlo in una categoria, piazzerei il Ripasso nella categoria “vini indispensabili per gli universitari”. Innanzitutto il nome Ripasso è quanto mai adatto (e la vaccata l’abbiamo sparata). Poi ha dalla sua il fatto di essere un vino saporito, profumato, unisex e a buon mercato, ché gli universitari sono poveri. Infine ha sempre quel grado in più che fa tanto piacere dopo aver dato un esame, ad esempio, di chimica fisica (che poi, dopo chimica fisica, la maggioranza dei sopravvissuti vada giù pesante di gin & lemon è un’altra storia). 

Veniamo brevemente alla cantina Santa Sofia, la quale ha sede a Pedemonte (VR). Ecco, la sede è qualcosa che da sola varrebbe una visita e l’invidia di molti produttori: trattasi di Villa Serego. Se non vi dice nulla è tutto nella norma, finché non venite a conoscenza dell’architetto: Andrea Palladio. Sì, la cantina Santa Sofia ha il quartier generale in una villa Patrimonio dell’umanità UNESCO dal 1996. E i Rothschild muti.

 


Il vino è il classico blend di Corvina, Corvinone e Rondinella, che fermenta in acciaio, fa un bel tuffo nelle vinacce di Amarone e Recioto, nuotandoci per tre giorni, infine matura 9 mesi in botte di rovere di Slavonia da 50 hl.

Nel calice il vino è di un bel rosso rubino mediamente trasparente (o ‘trasparente ma neanche tanto’). Naso tipico del Valpolicella: l’apertura è tutta speziata, l’accoglienza è a carico del pepe nero, tanto pepe nero, spalleggiato da vaniglia e chiodi di garofano. Immediatamente dopo si sentono frutti di bosco sotto spirito, una punta di sottobosco, una gran balsamicità, violetta appassita, mirto, legno di cedro e cioccolato fondente. Una più che discreta complessità.

In bocca il vino è succoso, fresco, poco tannico, con una bella sapidità e una grande intensità. Di medio corpo ed apparentemente leggero nonostante i 14 gradi alcolici, chiude la lunga persistenza su note di frutti di bosco e pepe. Vino molto, molto piacevole. Magari avessi bevuto sempre così ai tempi dell’università.

 

Colle Picchioni – Lazio Bianco IGT “Donna Paola” 2019


Un déjà-vu, proprio così. Il Donna Paola di Colle Picchioni lo avevamo già bevuto, e anche con grande soddisfazione. All’epoca ero un imberbe studentello al corso sommelier, ancora piuttosto ignorante e da sgrezzare, con esperienza di degustazione pari a zero. Oggi invece ho un diploma da sommelier, resto ancora piuttosto ignorante e da sgrezzare, con esperienza di degustazione pari a zero-virgola-uno. Il confronto è praticabile.

Ricordiamo: questo vino è un blend di 60% Malvasia del Lazio e 40% Semillon, prodotto sulle pendici del Vulcano Laziale nel comune di Marino. La cantina è storica e, giova ripeterlo, frutto della tenacia di una donna, Donna Paola Di Mauro. Bravi, perspicaci: questo vino è per lei. Suo nipote, Valerio Di Mauro, ha fatto appena in tempo a dedicarglielo, qualche anno prima che Donna Paola passasse ad altra dimensione. Oggi vigna e cantina sono gestite da Valerio assieme a sua moglie Laia Storbeck, sempre puntando alla qualità che Donna Paola esigeva per i suoi vini. 

 


La 2017 di questo vino, bevuta lo scorso anno, superava l’iniziale freschezza connotando il sorso con la sapidità. Inoltre i profumi erano più ‘scuri’, ricordo ancora oggi la decisa sensazione di amarena che emergeva dal calice. Strano per un bianco, ma ciò era.

Questa 2019 è guizzante, giovanissima, eppure già con un suo mirabile equilibrio. Il colore resta un brillante giallo dorato. Il naso è fragrantissimo (che non si dice ma passatemelo lo stesso), una primavera per quante note floreali si colgono: ginestra, gelsomino, fiore d’arancio. I fiori sono dunque la dominante olfattiva e fanno da sfondo alle altre eleganti note: susina gialla, passion fruit, arancia candita, miele e una delicata sensazione fumè. Confrontandolo con la 2017 dello scorso anno si intuisce come la giovinezza dia più risalto alla componente floreale.

In bocca il percorso è lo stesso: il vino è principalmente fresco, con sapidità presente e cenni di morbidezza al palato. Sorso di spessore, d’impatto, intenso e di una persistenza che si muove sull’esuberanza aromatica della Malvasia. Soprattutto un sorso comunque equilibrato, che un ulteriore periodo di affinamento in bottiglia potrà rendere praticamente perfetto. Per l’esiguo prezzo che ancora oggi questo vino batte, la prescrizione è di averne sempre varie bottiglie di scorta.


Paolo e Noemia D'Amico – Lazio Chardonnay IGP “Falesia” 2018

 


Ancora uno chardonnay?”

Certo. 

“Del Lazio?”

Assolutamente sì.

“E perché?”

Prima di tutto perché quello ho stappato. E in secondo luogo perché ne vale la pena. Perché se un vignaiolo riesce a far dialogare chardonnay e territorio, ha fatto qualcosa di interessante. E ti dirò di più.

“A chi?”

A te. 

“Ah, scusa.”

Questo chardonnay del Lazio possiede una terza dannazione: 10 mesi di sosta in barrique.

“E vabbè, anche la barrique? La sagra dello stereotipo.”

Sì, ti darei ragione se fosse un vino banale, un infuso di pop corn con una bella colata di burro e una spolverata di vaniglia. 

“E non lo è?”

Chi, il ‘Falesia’ 2018 di Paolo e Noemia D’Amico? Ma nemmeno per sogno. È un vino eccellente, che fonde caratteristiche di uva, barrique e territorio. Perché quel territorio lì, l’alta valle del Tevere, è roba seria. Solo perché è nel Lazio è ancora poco considerato, ma tu prova a immaginare un terreno che unisca argilla, sabbia e tufo vulcanico localizzato in altre parti d’Italia. Poi certo, se hai le Jordan ma lisci il ferro da sotto il tabellone è tutto un altro discorso.

“Che?”

Niente, lascia perdere. E comunque non è questo il caso, perché Paolo e Noemia D’Amico hanno calibrato la mano e riescono a produrre vini molto interessanti, legati al territorio da cui provengono anche partendo da uve transalpine. Il ‘Falesia’, per l’appunto: un classico chardonnay per quanto riguarda la parte fruttata, con mango, pesca, cenni di bergamotto, così come per la nota di burro fresco e crema di latte, per il profumo di ginestra, la nocciola tostata e la moderata vaniglia. Tutti questi profumi hanno come sottofondo costante, ma non ingombrante, una chiara nota fumè, un ritorno incisivo del territorio.

E se non bastasse il naso ci pensa la bocca a completare l’opera istruttiva: caratteristica principale è la sapidità, che connota il sorso nella sua interezza. La freschezza è presente e dà il suo contributo, soprattutto con la sensazione agrumata che si va ad aggiungere al leggero sentore affumicato in chiusura del sorso. Una bella intensità gustativa ed una altrettanto degna persistenza. Un gran bel vino davvero, te lo consiglio.

“Vedrò, è che con i vini io non ci faccio tanto”.

Eh?

“A me piace la birra”.

Fuori.

“Ma che…”

Fuori!

 

 

François Chidaine – Vin de France “Le Chenin d’Ailleurs” 2017

Ogni vitigno ha il proprio tratto distintivo. Quello dello Chenin Blanc è la freschezza. La quota di acidi fissi presente nello Chenin Blanc lo rende paragonabile ad un'altra uva piuttosto pungente, il Riesling. Uva cui, c'è da dire, lo Chenin paga qualcosina in termini di aromaticità e di complessità globale. Ma non tutti possono essere dei fuoriclasse, e neanche c’è nulla di male ad essere un role player. Nell'ottica di una bevuta all'insegna della freschezza, infatti, lo Chenin Blanc è non solo indicato, ma fortemente consigliato.

Zona di elezione dello Chenin Blanc è la valle della Loira, dove i viticoltori lo fanno cantare e gli fanno portare la croce; voglio dire che, date le sue caratteristiche, in Loira viene vinificato in ogni modo possibile: dallo spumante al vino secco, passando per l'amabile e concludendo con il passito dolce, meglio ancora se la botrytis fosse andata a dargli una carezza. C'è un altro posto del mondo dove lo Chenin Blanc ormai fa gli onori di casa, anche se non agli stessi livelli della Loira: il Sudafrica, dove viene chiamato Steen e dove fu portato dagli ugonotti francesi quando si videro esibire dal Re Sole il rosso diretto.

Ma torniamo in Francia, patria della bottiglia che ho aperto. La bottiglia in questione, insieme ad altre, credo, migliaia di sue consorelle, è opera di François Chidaine. Chidaine è uno zen master dello Chenin Blanc. Dal 1989, anno del suo esordio tra i filari di vite, ha cominciato ad acquisire terreni presso la Loira e a lavorare in tutte le maniere quest’uva. Oggi viticoglie (neologismo mio. Ho il copyright) e vinifica seguendo i precetti della biodinamica le sue decine di ettari vitati a Chenin Blanc, più altri ettari di diverse cultivar di cui non ci occuperemo quest’oggi, e direi neanche entro la prossima settimana.

 


Lo “Chenin d’Ailleurs” 2017 è etichettato come Vin de France, quindi diciamo che ci fidiamo sia della Loira. La scheda tecnica del vino poi non mi rincuora: essa afferma che le uve provengono da tre diversi terroir: oceanico, mediterraneo e montagnoso (de la Haute Vallée). Ora, sull’oceanico e sull’alta valle della Loira ci sto tranquillamente; sul mediterraneo, diciamo che non mi faccio persuaso. Più lontano dal clima mediterraneo della valle della Loira credo ci sia solo il Vallo di Adriano. Ma dato che lo Chidaine mi conosce la zona e mi ci lavora, mentre io avrei solo aperto una sua bottiglia, ho il tacito obbligo di dare ragione a lui.

Le uve, raccolte in questi tre diversi terroir, sono state pressate sul posto; quindi i mosti sono stati refrigerati e spediti entro 24 ore alla cantina di Chidaine a Montlouis-sur-Loire per l’assemblaggio e la fermentazione, ovviamente spontanea, avvenuta in botti dette demi-muids da 600 litri. Il vino è successivamente andato in contro ad un affinamento sulle fecce fini per 11 mesi prima della messa in commercio e del seguente arrivo, via Perugia, a casa Fiordiponti.

Stappato e versato nel calice, lo “Chenin d’Ailleurs” si mostra di un giallo paglierino carico, con una sorta di riflesso rosa quando viene versato. Lo ho versato spesso e sotto diverse luci, naturali ed artificiali: confermo la presenza del riflesso rosa.

Naso intenso, che alterna note minerali, floreali e fruttate: si va dalle pietre bagnate a fiori bianchi e delicati, come acacia o biancospino, a frutta a pasta bianca croccante, pera e pesca bianca principalmente, accompagnate da un deciso sentore di limone. Importante è la nota di crosta di pane, segno che il riposo sur lie ha lasciato piacevoli strascichi.

La bocca è prevedibilmente molto fresca, intensa e con una buona sapidità. Ovviamente la bilancia è spostata sulle componenti dure del sorso, ma non si può definire affatto fuori equilibrio. È uno Chenin Blanc, dobbiamo settarci sul suo sistema gravitazionale. Il fatto che abbia grande bevibilità, unita a intensità gustativa e notevole persistenza, indica che il vino un equilibrio lo possiede e tutto fa supporre che saprà anche mantenerlo nel corso del tempo.