Marco Antonelli – Cesanese di Olevano Romano Superiore DOC “Il Fresco” 2018

Può uno scoglio arginare il mare? No.
Può un singolo vigneto generare due diversi vini? Dite di no? Sbagliate.
Siamo ad Olevano Romano, da Marco Antonelli, che la mia torcida ricorderà per la visita dello scorso anno e per il suo magnifico Cesanese di Olevano Romano Riserva “Kòsmos” 2015, degustato qualche tempo fa. Questo sempre che non abbiate ancora assaggiato i suoi vini; in tal caso non avete bisogno di presentazioni (e se non li avete ancora assaggiati, cenere sul capo e correre ad ordinarli).
Il vigneto in questione è su un fazzoletto di circa un ettaro e mezzo, adagiato sul Colle Amici a 300 metri s.l.m., proprio di fronte casa di Marco. Terreno compatto, argilloso ‘rosso’ con componente tufacea, un’estremità nord-orientale della zona legata all’antica attività eruttiva del Vulcano Laziale. Vigne di oltre 50 anni di Cesanese Comune, almeno fino a prova contraria. Dico così perché sono in corso alcuni studi su queste piante, per determinarne l’effettivo biotipo. Gli exit poll danno per favorito il biotipo Cesanese d’Affile, ma aspettiamo i risultati ufficiali. Comunque sia, è da questo vigneto che nascono due tra gli eccellenti vini di Marco Antonelli: Il Fresco e Tyto. Il Fresco è stato prodotto nelle annate 2014, 2016, 2018 e 2019 (imminente l’imbottigliamento di quest’ultimo), il Tyto invece nel 2015 e 2017.
Ora vi domanderete “perché mai Marco chiama il vino di questa vigna un anno in un modo e un anno in un altro?”. La motivazione risiede nell’andamento dell’annata. Se questa è molto calda ci si dirige verso il Tyto, che prevede una macerazione più lunga ed un affinamento in rovere (ma ne parleremo meglio tra qualche giorno). Se invece l’annata ha un altro andamento, Marco opta per il Fresco: pigiatura, fermentazione totalmente spontanea, 4-7 giorni di macerazione e successivo affinamento in acciaio per 6-12 mesi, con quantità di solforosa sempre ridotte all’osso. 
Gli scettici potranno opporre il pensiero, legittimo, che da uno stesso vigneto non sia possibile produrre due vini diversi e ugualmente validi. Bene, io rispondo con un soprannome e un cognome: Bo Jackson.
Bo Jackson è stato un fantastico running back di football americano, Heisman Trophy (miglior giocatore a livello universitario) nel 1985, professionista nella NFL fino a un infortunio al bacino, 4 anni ai Los Angeles Raiders con una convocazione al Pro Bowl, l’All Star Game della NFL. Non ci vedete ancora un parallelo con il Fresco e il Tyto? Bene, allora rileggete la carriera di Bo Jackson sapendo che, durante quegli anni, il buon Bo era anche giocatore professionista nella MLB. Dal 1986 al 1994 Bo Jackson ha giocato come outfielder e battitore designato per Kansas City Royals, Chicago White Sox e California Angels. Ah, anche qui con un’apparizione all’All Star Game di baseball. 
Dunque, Bo Jackson d’inverno arava i campi di football con l’ovale sotto braccio e d’estate malmenava palle da baseball, in entrambi i casi al massimo livello possibile per questi due sport. Ditemi ancora che non è possibile produrre due vini diversi, ed entrambi ottimi, da una singola vigna. 


Veniamo alla parte più divertente, perlomeno per me: l’assaggio.

Parliamoci chiaro, andiamo incontro all’estate: affronteremo una stagione calda e, secondo il classico copione, molti di voi riporranno i vini rossi in un cantuccio ad attendere l’autunno. Errore madornale! Ci sono vini rossi che d’estate sono un ottimo compagno di merende, molto più di alcuni bianchi barricati ad esempio. Vini dal corpo esile ma di solida struttura, con un’ampia dotazione olfattiva, che rinunciano a un po’ di tannino (per macerazione breve o perché naturalmente sprovvisti) privilegiando una discreta acidità. Il Fresco di Marco Antonelli è uno di questi vini.
La 2018 scende nel calice colorandolo di un rosso rubino piuttosto scarico e tendente al granato, luminoso e trasparente, indice del breve tempo a contatto con le bucce in fase di fermentazione.
Il naso è molto fine, di un’intensità olfattiva non aggressiva ma costante e con una bella complessità. L’esordio è a cura delle spezie, che con cardamomo, ginepro, pepe e chiodo di garofano aprono la strada a una più che discreta dotazione di fiori e frutta. Il sentore di glicine è netto e affascinante, corredato da note importanti di marasca croccante ed arancia rossa. Si fanno presenti anche leggeri cenni di tabacco dolce, di ruggine, una balsamicità di canfora e anche un lievissimo goudron. Con il passare dei minuti e anche dei giorni il naso del Fresco resta attraente nella sua elegante complessità.
In bocca, nomen omen, il vino è soprattutto fresco. Il sapore ha giusta intensità e persistenza, con chiusura lievemente amaricante; non è un vino che occupa la bocca e ci resta per ore, né che svanisce prima ancora di deglutire. È un vino che, dati i profumi eleganti e l’irrisoria presenza di tannino, dà il meglio di sé bevuto, per l’appunto, fresco di frigo. 
Un rapporto qualità/prezzo impressionante e una dimostrazione che nel Lazio ci sono viticoltori che producono vini sinceri e comunque eleganti e complessi. Io il consiglio ve l’ho dato, per i ringraziamenti sapete dove trovarmi.

Korsič – Collio DOC Friulano 2018

Ci sono parole che si legano a doppio filo a un concetto, un nome, un oggetto. Inconsciamente ed immediatamente. Esempi? Stanlio… bam, Ollio! Cacio… bam, Pepe.
Collio… bam, ponca.
Provate a nominare il Collio e, persino dagli anfratti più reconditi, potrá uscire fuori un enofilo a tessere commosso le lodi di quel meraviglioso terreno: una stratificazione fitta ed irregolare di marne alternate a dura arenaria ricca di calcio, un suolo divino per lo sviluppo della vite. E, laddove il terreno è così caratterizzante, regnano sovrane le uve bianche, uve in grado di restituire nel calice le peculiarità del terroir. 
Il Friulano è una di queste, una meravigliosa uva bianca diffusa in Friuli e in Veneto. Friulano è il nome che per legge è obbligata a portare dal 2007; fino ad allora era nota con il nome di Tocai. 
Successe che un bel giorno gli ungheresi si lamentarono con l’Unione Europea per il nome di questo vitigno, troppo simile al loro vino di punta (oltre che l’unico degno; cruelty mode: ON), il Tokaji. Ok, il nome è foneticamente identico, ma uno è un vitigno italiano, vinificato solitamente in secco. L’altro invece è un celebre vino dolce ungherese, ottenuto da tre diversi vitigni (Furmint, Hárslevelü e Sárgamuskotály; se le ripetete tre volte allo specchio appare Alessandro Manzoni in infradito, bermuda e una maglietta del Banco del Mutuo Soccorso). Le differenze dunque ci sono, ma l’UE decise che la nostra uva avrebbe dovuto cambiar nome, punto e basta. E noi non ci siamo mai ribellati abbastanza, più che per difenderne il nome proprio per principio. Anche perché di argomenti ne avremmo avuti.
Cito giusto il più importante: nel 1632 la friulana Aurora Formentini sposa l’ungherese Adam Batthyany e porta in dote in Ungheria dal Friuli “300 vitti di Toccai”. 
Volevamo essere cattivi? Il nome Tocai in Friuli si usa comunemente da più di 4 secoli, per cui divieto respinto al mittente e anche scusarsi per l’incomodo.
Volevamo essere veramente malvagi? Ma non è che, niente niente, avremmo noi dovuto far cambiare nome al Tokaji? Come si chiama l’uva principale del Tokaji? Furmint. E come si chiama la nobildonna friulana? Formentini. Non potrebbero gli ungheresi aver ribattezzato Furmint l’uva Tocai, in onore della donna che lo introdusse in Ungheria, e Tokaji il vino, a ricordare il nome originale dell’uva? Vorrei vederli, gli ungheresi, a cercare tra i termini magiari un altro nome per il Tokaji che sia globalmente appetibile (o anche solo scrivibile). 
Tuttavia la storia è andata diversamente e, oltretutto, la mia teoria, ancorché affascinante in sede di dibattimento processuale (me la immagino declamata in aula da Perry Mason), non avrebbe portato al risultato sperato, in quanto le analisi di DNA sul Furmint non mostrano parentele con alcuna uva italiana. Pazienza, a noi resta comunque un’uva eccellente, che poteva anche chiamarsi “Cicciopallottolo striato”; con le radici immerse nella ponca avrebbe sempre dato vini magnifici, come il Friulano 2018 di Korsič.



Il Friulano di Korsič dimora a San Floriano del Collio, a 500 m dal confine Sloveno. Raccolta a fine settembre, l’uva viene pressata in modo soffice e il mosto risultante viene chiarificato per decantazione. La fermentazione avviene in acciaio, poi riposo sur lie fino a febbraio, imbottigliamento a marzo e fuga dalla casa paterna a maggio. 
Nel calice il vino rispetta le aspettative, irradiando un bel giallo paglierino pieno. 
Il naso è quello che ti aspetti da un Friulano: fiori, principalmente fiori, fiori a perdita d’occhio. Mughetto, gelsomino, sambuco, tiglio. La mineralità sullo sfondo è sostanziale e ‘bianca’, calcarea. Si apprezzano ulteriori note di mela, di susina gialla, cenni vegetali di fieno, mandorla e una leggera fragranza di lievito. Un naso certamente fine, intenso e ben equilibrato. 
Il vino è intenso anche al gusto e la caratteristica principale è una: la sapidità. C’è freschezza, c’è una certa morbidezza, una bella persistenza e anche il tipico finale ammandorlato; tutte queste componenti sono però presentate al pubblico da una costante componente sapida, il prezioso regalo della ponca del Collio. 

Pianogrillo – Cerasuolo di Vittoria DOCG “Curva Minore” 2018

Ricordo che qualche anno fa, agli albori della mia ‘conversione’ enologica, il Nero d’Avola veniva distribuito a secchi, esponente di quella generazione di vini tutto frutto che ha dominato il gusto degli anni ‘90/2000. Anni in cui l’Etna era ancora solo il vulcano attivo più alto d’Europa.
Oggi è cambiato tutto: l’Etna, con la sua DOC (ancora senza la G, ma è questione di tempo) è il simbolo della Sicilia del vino, anche troppo. E quando una denominazione ha successo tutti ne vogliono una fetta, con esiti rischiosi per la qualità del vino. Viceversa il Nero d’Avola ormai non viene più considerato nemmeno per farci la ‘sangria’ (leggasi ‘pesche e altra frutta buttate a pezzetti in una brocca di vino’).
Con tutti questi complessi pensieri orbitanti nel teschio, montava la voglia di assaggiare un Nero d’Avola attuale e di qualità. La scelta è ricaduta sul Cerasuolo di Vittoria DOCG “Curva Minore” dei Baroni di Pianogrillo. Il Cerasuolo di Vittoria è l’unica DOCG siciliana (per adesso; l’Etna scalpita) e prevede un uvaggio di Nero d’Avola coadiuvato dal Frappato. Nel caso di questa 2018 le percentuali sono 70% Nero d’Avola e 30% Frappato. 
Il nome del vino dichiara di essere un “hommage a Salvatore Quasimodo”, “Curva Minore” è infatti una delle sue poesie. Sfortunatamente non sarei in grado di scriverne oltre le nozioni scolastiche, né della poesia, tantomeno del poeta. Un peccato, sarebbe stata una trovata assai funzionante accostare vino e poesia. Ahimè, io non parlo di cose che non conosco (cit.).


Nel calice si manifesta una sorpresa rispetto alle mie aspettative. Vi ricordate quando scrissi del Primitivo di Marco Ludovico, dall’inaspettato colore rosso rubino e, soprattutto, praticamente trasparente? Ecco, qui la situazione si replica. I vini a base Nero d’Avola che ho bevuto avevano sempre colorazione più purpurea che carminio e una solida compattezza. Il “Curva Minore” è di un rosso rubino nitido e decisamente trasparente, senza per questo andare ad intaccare la consistenza del liquido.
Il naso ha una dominante assoluta: frutta. È qui che Nero d’Avola e Frappato (uva il cui nome già fa intuire di quali sfumature odorose si caratterizzi) scoprono le carte. La frutta è matura, a polpa rossa e viola: melograno, fragole, ciliegie, prugne, bacche di sambuco, di mirto e di ginepro. Come sfondo a questa macedonia c’è un contorno di intensa balsamicità di macchia mediterranea, di terra, di cenere e ruggine, cacao amaro e liquirizia dolce. Un naso assai interessante, che ci guadagna con il calare della temperatura. Questo fattore influisce positivamente anche al gusto, poiché la bocca è fresca e sapida con tannino nullo e moderata morbidezza, con intensità e persistenza assai rispettabili. La sensazione fruttata è coerente con le sfumature odorose percepite, accompagnata da un finale di bocca che oscilla tra lieve amarore e considerevole sapidità. Avendolo provato a diverse temperature, il mio futile consiglio è di servirlo a 12 °C. Vino da tenere presente per questa estate, che trovare un rosso godibile sotto la canicola è sempre un’impresa.

Casa Belfi – Vino Rosso Biologico Naturalmente Frizzante Rifermentato in Bottiglia.

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo l’etichetta di questo vino? Che l’ispirazione l’abbia fornita Lina Wertmüller. Insomma, un nome così è quanto di più lontano ci sia dalle atmosfere evocative che si manifestano non appena si nomina un qualche vino il cui nome finisca in “-aia”. Ma se una delle canzoni più belle dei Pearl Jam si intitola “Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town”, possiamo dedurre che la lunghezza di titoli o nomi non ha alcuna relazione con la qualità del prodotto.


Maurizio Donadi, il demiurgo di Casa Belfi, è un enologo, naturalista convinto, biodinamico nel cuore. Tuttavia non definirei il Rosso Frizzante che ho bevuto (e anche di gusto) un vino naturale al 100%. Vado a spiegarmi: la vigna è sì biodinamicizzata, la prima fermentazione è assolutamente spontanea e la seconda fermentazione, in bottiglia, è catalogabile come metodo ancestrale, in quanto i lieviti vengono aggiunti e mai più tolti, finendo al limite nel bicchiere dell’assetato di turno. Dunque, tutti questi indizi forniscono la prova che il vino si possa definire naturale. Ma? Ma tra la raccolta manuale delle uve e la prima fermentazione i grappoli passano anche per un contenitore saturo di CO2, dove restano suppergiù un mesetto a privarsi di buona parte dell’acido malico, arricchendosi al contempo di glicerolo e aromi secondari come ad esempio benzaldeide o cinnamato di etile. Sissignore, l’uva di questo vino subisce una macerazione carbonica. E ora tutto mi potete dire, ma non che questo processo sia naturale; ammesso sempre che tutte le trasformazioni cui l’uva è sottoposta dall’azione dell’uomo siano definibili ‘naturali’, ma qui entriamo in un campo minato, per cui chiudiamo il cancelletto e proseguiamo. 
L’azione della CO2 a sbriciolare un po’ di malico è comunque centratissima, poiché l’uva protagonista del vino è una di quelle che, se sguinzagliate senza dovuta catechesi, cattura palato e gengive del bevitore, restituendo alla bocca il solo osso. Altrimenti perché mai avrebbero dovuto i veneti chiamarla da sempre Raboso? Già solo il nome fa strizzare gli occhi. Un’uva dura, acida e tannica. Il soggiorno in atmosfera carbonica la restituisce un po’ più addomesticata e ricca di profumi, pronta per la seconda ancestrale fermentazione.



Parliamoci chiaro: il tappo a corona mi esalta e il colore del vino è spettacolare. È di un rosso vivissimo, un rosso ‘sangue arterioso’. Ovviamente prima di versarlo ho adeguatamente capovolto un paio di volte la bottiglia, così che un po’ dei lieviti vagassero per il liquido. Sono nella bottiglia, ergo li voglio nel bicchiere. E nel bicchiere il vino forma una poco fugace spuma rosa, prima di lasciare spazio alla vermiglia vivacità (sono pronto per la Settimana INCOM).
Un naso che svela la macerazione carbonica avvenuta, con potenti sentori fruttati di fragole, di lampone, di crosta di pane e anche un gran sentore vinoso. Alla frutta si aggiungono cannella e chiodo di garofano e, più che un sentore, una sensazione vera e propria di cantina. Un profumo che ho istintivamente definito genuino, contadino. 
Bocca fresca, pungente e cremosa, con un tannino che si apprezza maggiormente nel finale. Intensità e persistenza giuste per questo vino, né eccessive né evanescenti. I 10,5% di alcol fanno ipotizzare una vita piuttosto breve della bottiglia. Posso testimoniare in tal senso. 
Altra considerazione: nel calice è ottimo, ma nel vecchio bicchiere Duralex è addirittura perfetto. Come lo vedo perfetto in un pic-nic o una braciata all’aperto, messo in ammollo nel ruscello o, più rusticamente,  ‘a sponzo’ nella bagnarola con il cocomero. 
Non è certo un vino da meditazione. E vivaddio che non sia così. È un vino che non dà da pensare ma, nella sua pur presente complessità gustolfattiva, dà soprattutto allegria. 

Pulp Fiction: Porthos Edition.

Ho una fervida fantasia. Se l’apparenza viene mantenuta, per quanto possibile, socialmente accettabile, la testa ogni tanto elabora pensieri senza troppo senso, da trip acido sotto il palco dei Grateful Dead. Tratto il vino con estrema serietà e ne scrivo sempre con competenza, ma sono anche dipendente dalla risata (“aho io so’ fatto così e ‘a battuta me piace”, cit. Angelo Bernabucci). Inoltre subisco fortemente il fascino del nonsense e delle commistioni tra argomenti che nulla centrano l’uno con l’altro. Metteteci anche la quarantena bimestrale e il fatto che esco di casa solo per andare al lavoro o per stare in fila al supermercato, ed ecco che i peggiori incubi di una persona seria prendono vita. 
Vado al dunque: ho immaginato una scena cult di Pulp Fiction, con due vinnaturalisti che fanno irruzione nel covo di alcuni bevitori di etichette. Bevitori che hanno seguito il corso di Porthos, ma poi hanno deviato dalla retta via.

Ora, questo è il punto in cui una persona seria smetterebbe di leggere. 
Per tutti gli altri, “grazie, ma non dovevate. Ma che pensiero carino”.

Fotomontaggio ignobilmente artigianale, 100% homemade.


JULES: Salve, ragazzi. Come ve la passate? No, comodo, comodo, comodo, comodo. Stai comodo. Sapete chi siamo? Siamo colleghi del vostro maestro Sandro Sangiorgi. Certo vi ricordate del vostro maestro, vero? No, no, non ditemi niente, voglio indovinare. Tu sei Brett, giusto?
 BRETT: Sì.
 JULES: Visto? Ho indovinato. Ti ricordi bene del tuo maestro Sandro Sangiorgi, non è vero, Brett?
 BRETT: Sì, sì, me lo ricordo bene.
 JULES: Bravo. Oh, a quanto pare io e Vincent abbiamo interrotto la vostra degustazione. Ci dispiace veramente. Che bevevate?
 BRETT: Chardonnay.
 JULES: Chardonnay, dici? La colonna portante di ogni degustazione maroniana! E che tipo di Chardonnay?
 BRETT: È uno... uno affinato in barrique.
 JULES: No, no, no, no. Da quale cantina? Da Planeta, Ca’ del Bosco, Frescobaldi, dove?
 BRETT: Ehm... Castello della Sala.
 JULES: Castello della Sala! Dove gli Antinori fanno il Cervaro! Dicono che sono saporiti i loro Chardonnay, io non li ho mai assaggiati, personalmente. Come sono?
 BRETT: Buoni. Buoni. Sono buoni.
 JULES: Vi dispiace se ne degusto uno? È tuo questo, eh?
 BRETT: Sì.
 JULES: Hm! Sì che è saporito questo Chardonnay. Vincent! Hai mai assaggiato un Cervaro della Sala?
 VINCENT: Hm.
 JULES: Ne vuoi un sorso? È armonico.
 VINCENT: Non ho sete.
 JULES: Beh, se ti piacciono gli Chardonnay una volta li devi provare. Io di solito non posso berli perché la mia ragazza è vinnaturista. E questo praticamente fa di me un vinnaturista, ma vado pazzo per il sapore di uno Chardonnay barricato. Hmmm! Sai come è denominato un Bordeaux dei Rotschild in Francia?
 BRETT: No.
 JULES: Diglielo, Vincent.
 VINCENT: Premier Grand Cru Classé.
 JULES: Premier Grand Cru Classé. E sai perché è denominato così?
 BRETT: Per la classificazione del 1855 di Napoleone III?
 JULES: Ma guarda che bel cervellone ha il nostro Brett! Uh, sei in gamba, figlio di puttana, lo sai? La classificazione del 1855. Lì dentro che c'è?
 BRETT: Grissini.
 JULES: Ah, grissini. Bene. Ti dispiace se... se assaggio un po’ dei tuoi prodotti da forno saporiti per resettare il palato?
 BRETT: Fa' pure.
 JULES: Ah! Ci voleva proprio! Tu, col frangettone, sai perché siamo qui? Perché non dici al mio amico Vince, là, dove hai nascosto i vini di Casale del Giglio? Perché non glielo dici?
 MARVIN: Sono lì dentro.
 JULES: Non ricordo di averti fatto nessuna domanda del cazzo, se non sbaglio! Cosa dicevi?
 ROGER: Nell'armadietto. No. No, quello all'altezza delle ginocchia.
 JULES: Siamo contenti? Vincent? Siamo contenti?
 VINCENT: Sì, siamo contenti.
 BRETT: Ehm... ascolta... Mi dispiace, io... io... io non ho capito il tuo nome. Ho... ho capito il tuo, ehm, Vincent, giusto? Ma non ho capito il tuo.
 JULES: Mi chiamo Gerda e non è con i solfiti che uscirai da questa merda.
 BRETT: No, no. No. No. Voglio solo che sappiate quanto... Voglio solo che sappiate quanto ci dispiace che le cose siano andate a puttane tra noi e il maestro Sangiorgi. E... Noi abbiamo seguito le sue lezioni con le migliori intenzioni, davvero, no, no, no...
 JULES: Oh, scusami, ho spezzato la tua concentrazione. Oh, non volevo farlo. Per favore, continua. Dicevi qualcosa a proposito delle migliori intenzioni, sì. Ma che ti prende? Ah, avevi finito? Interessante, ma non mi hai convinto, sai? Dì un po', Sandro Sangiorgi che aspetto ha?
 BRETT: Cosa?
 JULES: Da che DOC vieni?
 BRETT: Cosa? Cosa?
 JULES: "Cosa" è una DOC che non ho mai sentito nominare! Lì vinificano con i raspi?
 BRETT: Cosa?
 JULES: I raspi, figlio di puttana! Tu sai cosa sono?
 BRETT: Sì!
 JULES: Allora capisci quello che dico!
 BRETT: Sì! Sì! Sì!
 JULES: Descrivimi perciò Sandro Sangiorgi! Che aspetto ha!
 BRETT: Cosa?
 JULES: Di' "cosa" un'altra volta! Di' "cosa" un'altra volta! Ti sfido, due volte, ti sfido, figlio di puttana, di' "cosa" un'altra maledettissima volta!
 BRETT: È... è... è bianco.
 JULES: Vai avanti!
 BRETT: È senza capelli.
 JULES: Secondo te sembra un sommelier?
 BRETT: Cosa?
[colpo di pistola]
 JULES: Secondo te, lui ha l'aspetto di un sommelier?
 BRETT: No!
 JULES: Perché allora hai cercato di fotterlo come un sommelier?
 BRETT: Non l'ho fatto!
 JULES: Sì che l'hai fatto! Sì, tu l'hai fatto! Brett, hai cercato di fotterlo!
 BRETT: No!
 JULES: Ma a Sandro Sangiorgi non piace farsi mescere vino da anima viva tranne che da Valentini. Leggi Intravino, Brett?
 BRETT: S... s... sì.
 JULES: E allora ascolta questo passo che conosco a memoria, è perfetto per l'occasione. Morichetti, 25:17. "Il cammino dell'uva Timorasso è minacciato da ogni parte dalle iniquità dei diserbanti chimici e dalla tirannia dei lieviti selezionati. Benedetto sia colui che nel nome della sanità e della buona maturazione conduce le uve attraverso la valle del rovere, perché egli è in verità il gestore del corredo terpenico e il ricercatore dell’armonia gustolfattiva; e la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si troveranno a vinificare e infine ad aggiungere i lieviti industriali, e tu saprai che il mio nome è quello di Rudolf Steiner quando farò calare la grandine sopra di te".


Chiedo scusa a tutti.