Casal Pilozzo – Lazio Rosato IGP “Poesia” 2014.

Il Pinot Nero è un’uva che non si concede. Ha scelto un territorio che adora e altri 5 o 6 nel mondo che sopporta. Le restanti zone le guarda con regale distacco, come a dire “io qui posso anche crescerci, ma non vi aspettate fuochi d’artificio”.

Nel Castelli Romani Il Pinot Nero è piantato a titolo quasi sperimentale. Non si è così certi che a queste latitudini esso si esprima in tutta la sua finezza borgognona, dato il clima che ne accelera la maturazione tecnologica con ampio distacco rispetto alla maturazione fenolica. Considerando che è anche un’uva piuttosto delicata, un viticoltore deve pensarci 100 volte prima di rischiare il proprio guadagno scommettendoci su. 

Ecco, questo nei casi normali. Poi ci sono persone come Antonio Pulcini, il proprietario della cantina Casal Pilozzo a Monte Porzio Catone, che ha deciso di andare ‘a sentimento’. Sui Colli di Catone, a 350 metri circa s.l.m., l’aria non è afosa e Antonio ritenne non fosse del tutto fuori luogo piantare qualche marza di Pinot Nero. In questo angolo di Vulcano Laziale affacciato su Roma, quest’uva viene vinificata in tre modi: in rosato, in purezza e, nel caso del vino San Cristiano, in blend 50:50 con il Cabernet Sauvignon (?!). Scelte inconsuete? È perché non conoscete Antonio Pulcini. Antonio il suo soprannome “il pazzo” se lo era meritato per l’usanza di fare vendemmia verde in anni insospettabili, con i contadini che consideravano una vera pazzia quello spreco d’uva. In seguito alcune sue scelte di cantina hanno dato ulteriore consistenza a quel soprannome; ma avremo altre occasioni per parlarne (ricordate queste parole: Malvasia del Lazio invecchiate più di venti anni…).


 


Pinot Nero rosato dei Castelli Romani, dunque (anzi, ordunque). Vendemmiato tra settembre ed ottobre, il Pinot Nero viene lasciato a macerare per 24 ore prima della svinatura. Poi, nel nostro caso, dopo il breve affinamento in acciaio, il vino finisce in bottiglia a riposare. E ci riposa per dei lunghi anni: dal 2014 fino ad oggi. Questo dà un senso al colore del vino, di un arancione pieno che tende al rosso del corallo, tuttora di grande brillantezza. Un colore estremamente vivo, un’argomentazione da opporre a chi sostiene che i rosati vadano bevuti entro uno o due anni: signori, dipende dai rosati.

Al naso il primo banco di prova, dove capiamo se questo vino è una mummia ben agghindata oppure un giovanotto ancora prestante. Spoiler: è prestante. I profumi non giocano ovviamente sulla freschezza immediata. Il tempo li ha resi più maturi, forse meno ‘scontati’ per la tipologia di vino, nondimeno sono pienamente vivi (e ho detto ‘nondimeno’). Frutta ce ne è e in quantità, soprattutto lamponi e fragoline di bosco; magari non sono freschi come appena raccolti, diciamo che il profumo ricorda più una glassa di fragoline e lamponi, non già una marmellata, di degna intensità e finezza olfattiva. La componente vulcanica c’è, una bella fumata di fucile. C’è una nota di arancia sanguinella, c’è anche un sentore terroso e molta liquirizia, molto probabilmente risultanti dalla terziarizzazione degli aromi. Ci sono profumi di erbe aromatiche fino ad arrivare ad una nota di olive nere al forno, altro  ragionevole esito dell’affinamento in bottiglia. A mio giudizio un profumo complesso e godibile.

In bocca il vino è solido, è materico per così dire. La caratteristica principale è un’elevata sapidità, che delinea i contorni del sorso. In questa cornice minerale (ma perché non ‘splendida cornice minerale’?) si inserisce una freschezza comunque notevole e una morbidezza apprezzabile verso il finale di bocca. Le sensazioni aromatiche sono più riconducibili alle spezie rispetto alla frutta, e in generale il sorso è incentrato su una percepibile concretezza.

È un vino che richiede al suo fianco una portata dal sapore altrettanto deciso, pena l’annientamento del piatto. Per cui niente oratina al forno, meglio un bel piatto della tradizione romana, tipo un pollo con peperoni. Poi come digestivo serve una latta di grappa alla genziana, ma questo è altro materiale da romanzo.

La leggenda del Gallo Nero, il simbolo del Chianti Classico.

Come promesso, lasciamo per una volta da parte le bottiglie per raccontare una storia. Avrete notato che il simbolo del Chianti Classico è da sempre un gallo nero. “E come mai proprio un gallo? E perché proprio nero? È perché il gallo è in controluce? O è per via dell’inquinamento?”. Piccini, non fate gli sciocchi, suvvia.


Fonte: wikipedia


Tutto ha origine in epoca medievale. Immagino abbiate presente che i toscani, quando si tratta di darsele, anche fosse solo dialetticamente, si impegnano sul serio. A partire dalle baruffe contradaiole fino ad arrivare alle dispute fra province, se c’è da questionare i toscani non ci vanno per il sottile.

Bene, nel medioevo il loro carattere era come adesso, ma con le armi a disposizione. Proprio in quel periodo Firenze e Siena si arrovellavano per trovare un accordo sul loro confine nel territorio del Chianti. Non riuscendovi, seguitavano a picchiarsi come incudini. Finché, un illuminato giorno, decidono di posare le armi e, per risolvere la disputa, ricorrono ad una mossa aleatoria: due cavalieri sarebbero partiti un giorno prestabilito al canto del gallo dalle rispettive città; laddove si fossero incontrati sarebbe stato fissato l’agognato confine. 

Tra le variabili in gioco, la più decisiva per le sorti delle due città è la scelta del gallo: quanto prima avesse cantato, tanto prima sarebbe partito il cavaliere. Siena sceglie un bel gallo bianco, fiero e possente. I senesi lo coccolano, lo viziano, lo portano alle giostre, gli dicono “bello di mamma, lo vuoi un altro ricciarello che ti stai sciupando?”. Firenze invece sceglie un gallo nero, piccolo e secco secco. I fiorentini lo trattano amorevolmente: lo affamano, gli urlano “i tuoi genitori hanno anche figli normali?” (cit.), lo tengono al buio, gli danno dello juventino, gli fanno ascoltare Baby K ed Elettra Lamborghini. 


Fonte: Italia.it


Se Dio vuole, arriva l’alba del fatidico giorno. Il gallo bianco dei senesi si sveglia con tutta calma, si stiracchia le ali, controlla i punti neri sul becco, fa la sua giusta colazione con due uova alla Benedict e pane bianco tostato, un paio di gargarismi e poi, in grazia del Signore, omaggia il levar del sole con un chicchirichì perfettamente intonato. Il cavaliere senese allora salta in groppa al cavallo e si precipita fuori dalle mura di Siena. Galoppa trafelato, sprona il suo ronzino affinché macini più km possibili. Ha la sensazione di andare come un fulmine, mai corso così bene quel cavallo. Fino a quando, dietro una curva, ecco il cavaliere fiorentino. “E quanto ha corso codesto cavallo” pensa il cavaliere senese “oh che si è già a Greve?”. No, e si è a Fonterutoli, caro mio. Totale percorso: 12 km, su una distanza complessiva di circa 70-80 km. Male Siena, maluccio.

Il cavaliere fiorentino consola il povero cavaliere senese con un sorriso malcelato. Neanche il fiatone gli è venuto al cavallo di Siena, mentre l’altro si è lasciato alle spalle praticamente l’intera zona del Chianti, finita così sotto l’egida di Firenze. 

Sì ma come ha fatto il cavaliere fiorentino a fare tutti quei km, non potendo imbrogliare partendo in anticipo? Signori, tutto il merito è stato del fido gallo nero. Quel gallo che, maltrattato, affamato, vituperato e scornacchiato, ancora prima del sorgere del sole si è affacciato alla finestra, incazzato nero (per l’appunto), ha gonfiato il petto ed ha urlato tutto il suo biasimo nei confronti del mondo, come Cocciante in “Era già tutto previsto”, dando modo al cavaliere fiorentino di partire in largo anticipo rispetto alla sua controparte senese. Praticamente una ‘partenza intelligente’, ma senza l’autostrada.

Non si sa la fine dei due galli dopo quel giorno. Del gallo bianco di Siena un’idea me la sarei anche fatta, ho solo un’incertezza sulle erbe aromatiche usate. Riguardo al gallo nero fiorentino, penso che alla fine gli abbiano reso grazie facendolo finalmente mangiare, dandogli una gabbia più confortevole e con vista sull’Arno, magari lo avranno anche portato anche all’Antico Vinaio, chissà. Fatto sta che decenni più tardi, nel 1384, quando si trattò di scegliere un simbolo per la neonata Lega del Chianti, i fiorentini si ricordarono di quel gallo nero che consentì loro di realizzare un discreto affare immobiliare. Così come, tornando al nostro argomento preferito, lo stesso simbolo venne adottato nel 1924 dal Consorzio per la difesa del vino Chianti e della sua marca d’origine (evoluto nell’attuale Consorzio Vino Chianti Classico). Ed ancora oggi, dopo vari restyling, il corvino pennuto adorna fiero le bottiglie di Chianti Classico, ritratto nella sua posa maestosa mentre tuttora urla “juventino no. Tutto, ma juventino no!”. 


Fonte: montefioralle.wine



Badia a Coltibuono – Chianti Classico DOCG 2017

Cioè, è un anno che siamo sull’internet e ancora non avevamo estratto del sughero da un Chianti? Vergognoso, ma la lacuna è stata colmata. 

Il Chianti soffre purtroppo di scarso appeal nei confini nazionali. Mentre all’estero la denominazione è assai considerata (controllare la percentuale di bottiglie dedicate ai mercati esteri o anche consultare il libro di testo WSET per averne un’idea), da noi il Chianti, che sia Classico o che provenga da una delle 7 sottozone facenti parte della denominazione, è sempre e comunque associato al caro e vecchio fiasco. Vi potete anche sbattere per terra e declinare le diverse sfumature del Sangiovese a seconda del fazzoletto di terra dove cresca, il Chianti verrà comunque visto come il vinello nel fiasco, senza pretese e buono giusto per le braciolate. 

Ammetto di subire anche io il fascino di molte altre denominazioni anteposte al Chianti, ma a questo vino va resa giustizia. Per rispetto verso la sua storia plurisecolare, verso il vitigno più coltivato in Italia e che in Toscana eccelle realmente, e verso il fatto che esso ci rappresenta all’estero, per quanto ci sforziamo di snobbarlo a casa nostra. Con tale senso di giustizia, munito di spirito di rivalsa, mano sul cuore e ‘C’ aspirata, ho comprato il Chianti Classico 2017 di Badia a Coltibuono, una delle aziende simbolo del Chianti Classico, localizzata a Gaiole in Chianti.

Prima però vi tocca la lezioncina del Catcher, ma sarò sintetico e divertente, come il protossido di azoto: bambini, Chianti e Chianti Classico sono la stessa cosa? Esattame… no. Chianti DOCG e Chianti Classico DOCG sono due denominazioni distinte e separate. La prima ha un’estensione notevole, è frazionata in sette sottozone (Colli Senesi, Colli Aretini, Colli Fiorentini, Colline Pisane, Montalbano, Montespertoli e Rufina), da disciplinare deve essere prodotto con minimo il 70% di Sangiovese e permane ancora un 10% opzionale di uve a bacca bianca, retaggio della vecchia ricetta del Chianti del Barone Ricasoli. La seconda denominazione invece è limitata a pochi comuni nei territori fra Firenze e Siena, ha rese più basse, la percentuale minima di Sangiovese sale all’80% e non sono previste uve bianche nell’assemblaggio. Questo per rimanere il più possibile stringati. 


 

Il Chianti Classico di Badia a Coltibuono è didattico. Prodotto con il 90% di Sangiovese e il restante 10% da Canaiolo, Ciliegiolo e Colorino, la macerazione delle uve raggiunge le tre settimane, con follature e délestage. L’affinamento avviene in botte grande (da 15 a 25 hl) per 12 mesi. Il colore di questo vino è di uno spettacolare rosso rubino, trasparente come è giusto che il Sangiovese sia.

Anche il naso è didattico: i sentori principali sono spezie (chiodi di garofano, pepe nero e cannella), terroso di humus e bacche rosse croccanti. Si sentono anche note di macchia mediterranea e molte note vegetali, di artemisia. C’è un accenno di tostatura, di tabacco e un sentore abbastanza intenso di citronella.

In bocca si apprezzano principalmente tannino e grande freschezza, segno che il vino è ancora piuttosto  giovane, con un tenue cenno di morbidezza al palato verso il finale. L’aroma di bocca è incentrato su frutta rossa e sensazioni terrose. Al corso sommelier viene spiegato che, per le particolarità del territorio e del vitigno stesso, il Chianti Classico è tipicamente austero. Io, dietro il banco, immaginavo un’allegoria della signorina Rottermeier, con simpatia. E invece, bevendolo, la definizione è calzante. L’austerità è data da questa quantità di tannini ed acidi, che costringono il bevitore ad avere pazienza, ad attendere del tempo per godere appieno del Chianti Classico, pena l’avere a che fare con un signore distinto ed elegante ma dai modi distaccati e dallo scarso sorriso.

Ce ne sarebbero di storie da raccontare sul Chianti: la ricetta del Barone Ricasoli, il 1716 impresso nel logo, la possibilità di produrlo anche esclusivamente con il solo Sangiovese, possibilità introdotta dopo una sanguinosa diaspora di produttori che preferirono imbottigliare i loro Chianti come Toscana IGT pur di realizzarli di qualità superiore. 

Al prossimo post vi racconto una bella storiella, và: la leggenda del gallo nero, simbolo del Chianti Classico.

Mi restino cortesemente lor signori sintonizzati.

 

Olivier Chanzy – Vin de France Pinot Noir “Collection” 2018

Doveva pur arrivare questo momento. Il momento in cui avrei, senza alcuna pietà per cose e persone, giudicato negativamente un vino. La prima stroncatura ufficiale del Catcher.

Spoiler: questo vino non mi è piaciuto. 

Meglio: questo vino, dati provenienza e uvaggio, si è dimostrato, a mio irrilevante giudizio, ben al di sotto delle aspettative. 

In pratica, la storia è che in un copioso ordine fatto ad un’enoteca romana in tempi di lockdown, faccio capitare anche qualche vino dalla Francia, tra cui questo Vin de France (manco de Bourgogne… già lì avrei dovuto sospettare qualcosa), al prezzo di 20 € circa. Col senno di poi è chiaro che sarei andato incontro alla malora a passo di danza: in Borgogna, se si parla di vini di livello anche solo medio, per 20 € ti vendono sì e no la bottiglia vuota. Ad ogni modo, ero contento di aver posto le mani su un ‘Borgogna’, dato che il mio unico assaggio di Pinot Nero d’oltralpe mi aveva parecchio emozionato (Domaine Stephane Magnien, Morey-Saint-Denis, Grand Vin de Bourgogne “Grains Fins” 2016. Cote d’Or. Tra i 60 e i 70€ a bottiglia). 

Olivier Chanzy ha la sua Maison a Meursault, in Côte de Beaune, e produce vari Premier Cru borgognoni (Meursault, Vosne Romanée, Montagny). Nella sua produzione trova spazio anche questo Vin de France a base Pinot Noir, presumo per chi voglia avvicinarsi alla Borgogna senza dover rinunciare ad uno dei tre pasti giornalieri per un mese (se bastano). Il mio consiglio è di arrivarci da altre strade (una può essere partendo dalla Toscana e passando da Valle d’Aosta, Alto Adige, Baden e Rheingau) e continuando a godere regolarmente di colazione, pranzo e cena.

 

 

Insomma, arriva la sera che decido di aprire questo Pinot Noir. Tolgo la capsula e… che roba è? Tappo in silicone nero, con circolo concentrico rosso sulla sommità. Avete presente quando fischiate a un cucciolo di cane? Ecco, io ho flettevo la testa in quel modo. Timoroso come un ladro in questura mi avvicino con il cavatappi, chiedendomi se il tappo fosse talmente avveniristico da espellersi automaticamente alla rimozione della capsula, magari con annesso conto alla rovescia, e quindi se avessi forato quella meraviglia dell’ingegneria transalpina avrei generato una falla nel continuum spazio-temporale che mi avrebbe trasportato a Roma al tempo dei Lanzichenecchi. Io, in bermuda e maglietta. Con un cavatappi in mano.

Fortunatamente il tappo era solo un tappo e il cavatappi era lo strumento adatto allo scopo. Così, dopo averlo estratto, guardandolo ancora con sospetto, verso il vino nel calice, dove va ad esibire un colore rubino pieno che vorrebbe provare ad essere granato, di degna trasparenza e distintamente compatto.

Il naso è e non è. Intendo dire che è abbastanza inconfondibilmente un Pinot Noir, ma allo stesso tempo mi manca l’eleganza che sanno esprimere i Borgogna (sempre uno solo ne ho assaggiato in passato, ok, ma è comunque una caratteristica conclamata l’eleganza dei Pinot Noir di quelle latitudini. Questo vino non mi è parso elegante). Appena versato le prime note sono di legno umido, di polvere, di pepe nero e di marasca croccante. Poi, mano a mano, vengono fuori altri sentori: su tutti svetta l’arancia sanguinella, e di tanto; poi chiodi di garofano e macis, grafite, insistenti sbuffi di erba di sfalcio, una lieve ematicità, cacao. Sul finale si nota anche una nota che ricorda le palline di naftalina e un lieve petalo di rosa. Il descrittore finale, completo ed esaustivo, l’ha coniato mia moglie, con cui concordo pienamente: un’arancia rossa sparsa dentro il cassetto dei vestiti di nonna. Applausi, inchino e sipario.

Alla fine comunque il naso, pur non risultando emozionante (argomento comunque piuttosto soggettivo), mostra una bella complessità. È in bocca che ho provato la delusione: un ingresso che ho definito burbero, scontroso: una sensazione amaricante predominante, che resta dall’inizio alla fine del sorso, accompagnata da una freschezza sugli scudi, che in solitaria darebbe brio al sorso, ma che affiancata a questa sensazione d’amaro dà vita a una coppia non molto gradevole. Il tannino è docile anche se forse un po’ verde (e potrebbe questo contribuire all’amaricante), il sorso è di buona intensità e medio-lunga persistenza, che chiude sull’amaro della radice di liquirizia e su un ricordo di carne cruda.

È più che sicuro che non ricomprerei questo vino. Per la Borgogna meglio mettere da parte i soldi per comprare bottiglie da almeno 50 €, anche magari le altre dello stesso Olivier Chanzy, perché no. Ma se mai vi venisse in mente di spendere 20€ per un Borgogna, date retta a me, lasciate stare l’oltralpe e comprate in casa nostra: tanto per fare un esempio, un Cesanese di pari costo (del Piglio, di Affile o di Olevano Romano). Non avrà l’allure del Vin de Francema, a parità di prezzo, a livello qualitativo e di soddisfazione delle papille gustative per me non c’è partita (ora immagino i commenti: “questo sedicente e saccente wineblogger afferma che il Cesanese è il Pinot Noir del Lazio”. Calma, santo cielo).

Infine, un’ammissione: pensavo fosse più divertente ‘stroncare’ un vino. Chiariamoci, sono di origine romana: la parte migliore del mio umorismo sta nella critica feroce ed esagerata, anche delle piccole cose. E invece l’istinto qui mi porta ad andarci cauto. È prima di tutto questione di rispetto, soprattutto per la fatica di chi quel vino, sgradevole quanto ti pare, l’ha fatto. Bere e scrivere fiacca certamente meno che stare un anno intero in vigna (più i lavori in cantina e le attese degli affinamenti e la vendita…), per cui sempre massimo rispetto verso la fatica dell’uomo. E poi una critica posta con le giuste parole potrebbe anche essere, nel migliore dei casi, costruttiva. 

No, non credo che monsieur Chanzy verrà mai a dirmi “Mas voilà monsieur Lucianò, la ringraziò per la criticà educatà, adessò saprò far megliò il mio mestierè”. Più probabile che possa dirmi “mas tu, che non hai la minimà ideà del gustò del Pinot Noir, come ti permettì di giudicar malè qualcosà che non conoscì profondamànte?”. E ho capito Olivier, ma abbi pazienza, se non posso dire la mia nemmeno qui allora come funziona? 

Eh? 

E dai. 

E ‘nnamo. 

E su. 

E allora. 

Ecco.

La Tunella – Friuli Colli Orientali Refosco dal Peduncolo Rosso DOC 2018

Lo so, lo so cosa state pensando. In effetti chiunque, sentendo per la prima volta il nome particolare di quest’uva, si sofferma su quella caratteristica peculiare: ‘peduncolo rosso’. Si può immaginare quest’uva come un coleottero travestito; si può essere portati a considerare che abbia tanta materia colorante da tingere il peduncolo e, se lasciato fare, anche il raspo, la pianta e tutta la provincia di Udine; c’è chi addirittura arriva a pensare che il nome glie lo abbiano affibbiato dei nostalgici leninisti, sognando il giorno in cui, spalleggiati da quest’uva, si rivolteranno contro i padroni al grido “trionfi l’enologia proletaria!”. Purtroppo la realtà è assai più banale della fantasia e questa tipologia di vitigno è chiamata così soltanto per la colorazione del peduncolo, effettivamente rossa quando l’uva è giunta a piena maturazione. Tutto qui.

Siete delusi? Non dovreste. Il Refosco è un vitigno bello arzillo, per nulla parco di qualità: possiede una seria quantità di profumi, una degna acidità e tannino in giusta dose. Il suo problema è che è ancora poco bevuto al di fuori del Friuli. Ok, abbiamo più vitigni autoctoni in Italia che il resto del mondo raggruppato. Però, se mai vi venisse in mente di fare una gita in enoteca, alla ricerca della rarità con cui fare i fighi a cena con gli amici, potreste agilmente indirizzarvi verso un Refosco. Oppure potete comprarvi il Sironi di Tony Brando. Ma è meglio il Refosco, fidatevi.

 

Il Refosco della cantina La Tunella mostra una gran compattezza di colore nel calice, un rosso rubino screziato di riflessi violacei. 

Il naso di questo vino è bello complesso e della giusta intensità. Non arriva come un uppercut e porta con sé uno zainetto di sentori. Si parte con tanta frutta nera, bella matura: mora e ribes nero. Balsamico ad alti livelli, si apprezzano i sentori lasciati dai 4 mesi di affinamento in barrique (vaniglia e cocco), perfettamente integrati questi nell’articolata trama olfattiva (chiedo perdono, ho ingoiato la Treccani). Emergono con il tempo un intenso profumo di glicine, sentori di sottobosco, tabacco dolce e un potente incenso, con un sorprendente sentore di panforte (agrumi canditi, pepe nero e spezie dolci). Anche i giorni successivi alla stappatura il profumo di questo vino non ha perso di complessità. Veramente piacevole.

In bocca il vino sa come far miagolare un leone. L’ingresso è pseudo-abboccato, ma dà spazio dopo pochissimo a una media freschezza, una considerevole sapidità e un’apprezzabile morbidezza finale, con un tannino molto ridimensionato. L’intensità di gusto di questo Refosco è eccezionale e la persistenza è di tutto rispetto, con un lungo finale di bocca che ondeggia tra ricordi di cocco e di liquirizia. 

Sono rimasto molto colpito da questo vino e da quest’uva, ma ormai sono quasi abituato alla qualità che accompagna le bottiglie provenienti dal Friuli, dalla Venezia e anche dalla Giulia.  

Arunda – Metodo Classico Extra Brut Riserva 2013

Anno di grazia 2013. Jorge Mario Bergoglio viene eletto papa; erano ancora tra di noi Angelo Bernabucci, Pino Daniele, David Bowie, Robin Williams e Prince; Gazzelle e Fulminacci non figuravano nel mondo musicale; la bacheca di Lewis Hamilton ospitava un solo titolo di campione di F1; Temptation Island non esisteva (bei tempi andati). I ragazzi di Arunda, in una cantina a 1200 metri presso Mölten/Meltina, in Südtirol/Alto Adige, lavorano le uve (60% Chardonnay, 40% Pinot Nero) da destinare alla produzione dello spumante che, quasi 7 anni dopo, varca la soglia di casa del vostro narratore enoico preferito.

Gli sforzi dei nostri valorosi, con a capo Josef Reiterer, il demiurgo di Arunda, sono tutti diretti verso un unico obiettivo: spumanti metodo classico. La tradizione altoatesina del vino è fondata soprattutto su cantine cooperative, che racchiudono un grande numero di soci; il concetto principale è: più l’uva è di alta qualità, meglio viene pagata. Josef Reiterer, seguendo un po’ lo stesso concetto,  va ad acquistare i vini base da piccoli produttori fidati, occupandosi dell’assemblaggio e dell’affinamento nella propria cantina in altura. Che poi, a pensarci, i vini base bisogna anche portarceli lì su, a 1200 metri. Ok che non si va più a dorso di mulo, ma converrete con me che una leggera fatica la si fa comunque. 

Ma poi perché una cantina proprio lì su, fra le aquile, a parte la splendida visuale (che poi può funzionare se sei un agente immobiliare, non uno che progetta di passare la vita a rigirare champagnotte sulle pupitre un ottavo di giro ogni tanto)? Reiterer sostiene che l’altitudine incida soprattutto sulla temperatura, convinto che gli elevati sbalzi termici agiscano positivamente sull’affinamento degli spumanti. Non ho strumenti per confutare o accettare questa tesi, di sicuro un così copioso dispendio di kj (kilojoule per i meno avvezzi) ha senso solo se il prodotto finale è di alto livello. A mio insulso parere, l’Extra Brut Riserva 2013 lo è.




Sboccatura a gennaio 2020, 60 mesi sui lieviti, con ampi margini di invecchiamento ulteriore in bottiglia che, mi perdonerete, ho bellamente ignorato per pura avidità.

Nel calice la tonalità cromatica è più sul dorato che non sul paglierino, con un perlage perfetto ed una spuma persistente ma non eccessiva.

Al naso questa riserva 2013 è incantevole: partono i sentori di mela, di pompelmo e la classica nota di forno, di croissant. Poi si affaccia la nocciola tostata, la nespola, cenni di ghiaia, quasi di pietra bagnata, e sul finale si avverte un sentore di fichi secchi. Sì, di fichi secchi. Un naso complesso e di grande fascino.

In bocca è di grande effetto, con l’iniziale freschezza e pungenza della carbonica che cedono il passo ad una morbidezza per nulla scontata e molto gradita come sensazione. La sapidità è evidente e il sapore di questo metodo classico è di enorme finezza, intenso e allo stesso tempo molto delicato. Grande persistenza gustolfattiva, con finale di bocca lievemente ammandorlato. Un ottimo metodo classico, che conferma quanto sappiano lavorare bene i sudtirolesi.

 

P.S.: è stato volontariamente escluso qualsiasi paragone con Trento DOC, Alta Langa, Franciacorta fino ad arrivare allo Champagne, sarebbe stato ‘troppo italiano’.