Le Piane – Vino bianco “βιαηκΩ” 2018

L’Italia ha un patrimonio viticolo che conta più di 300 vitigni autoctoni differenti. È fondamentale per un sommelier, o chiunque si spacci per divulgatore di vino, assaggiarne il più possibile. Magari anche registrandone le caratteristiche principali nei dendriti, in modo da poterne parlare con cognizione di causa e senza ricorrere ai trucchetti del mestiere. Ed io, avendo voglia di conoscere il vino, di scrivere di vino e, voless’Iddio, di parlare un giorno di vino sotto lauto compenso davanti ad una platea commossa ed osannante (ok, anche meno), giocoforza dovrò assaggiarne il più possibile di questi vitigni. Ed era troppo ghiotta l’occasione delle feste natalizie per non sfruttarla a tale scopo.
Dato che ci troviamo in pieno nel periodo “il vino lo porti tu, che sei sommelier” (tecnicamente non ancora, ma spiegaglielo), la gita in enoteca era più scontata di una schiacciata di Kobe Bryant in campo aperto. Da lì sono uscito, oltre che con il vino necessario al pasteggio, con altre prede. Tra queste figurava il “βιαηκΩ” di Le Piane. Completa diarchia tra bene e male, tra pulsione e repulsione, tra sfortuna e fortuna. Sfortuna, perché non è il classico Erbaluce di Caluso che stavo cercando, quello didattico, paradigmatico, da far conoscere ai novellini come me per avere idea di come un vino da uve Erbaluce possa essere. Fortuna, perché senza saperlo ho avuto accesso ad un gran vino. 


Riporto le caratteristiche di vinificazione: “Le uve del Le Piane Bianco vengono vendemmiate attraverso una raccolta manuale. A seguito di una morbida pigio-diraspatura avviene la fermentazione in vasi diversi (cemento, amphora rivista, botte di acacia) e una prova di macerazione lunga sei mesi. Il vino subisce un affinamento in acciaio” (fonte: vinodalproduttore.it).
Questa vinificazione così particolare potrebbe dare un’impronta molto marcata al vino, con il rischio di renderlo più complicato che complesso. Invece il vino è ben agile, nonostante non manchi di carattere. Nel bicchiere risulta di un bel paglierino intenso tendente al dorato. Appena stappato e versato si percepisce subito una forte componente minerale, a ricordare la pietra calcarea e il granito. Leggendo della pedologia del territorio di Boca, apprendo che il suolo è di natura alluvionale, detriti provenienti dai ghiacciai del Monte Rosa e trasportati dal Toce e dal Sesia. Questi suoli alluvionali, caratterizzati da un pH decisamente acido, sono adagiati sulle sabbie, ghiaie ed argille lasciate a Boca dal mare un tempo lì presente. Per cui è più che normale che il vino sia caratterizzato da questa imponente mineralità calcarea. Rimettendo poi il naso nel calice si apprezzano le profonde note fruttate e floreali, con fiori d’acacia e di tarassaco, con un’importante albicocca matura, pera e cenni di lime. Intenso è il profumo di miele, unito a crosta di pane ed orzo tostato. In bocca ha grande sapore ed è molto fresco, con l’equilibrio assicurato da una apprezzabile morbidezza, e con una notevole persistenza gusto-olfattiva, che chiude su note di pera e mandorla. Un vino notevole, che si fa bere molto volentieri. 

Dato che questo sarà l’ultimo post del 2019, permettetemi di augurare a tutti voi un felice 2020. Ci rivediamo a gennaio, bevete poco ma bevete bene!

Antonelli San Marco – Spoleto DOC “Trebium Trebbiano Spoletino” 2018

Il Trebbiano Spoletino è una bestiolina strana. È multiforme, non ha ancora uno stile ben definito. I vignaioli umbri lo vinificano in bianco, in rosso (prossimamente su questi teleschermi), in anfora macerato sulle bucce, con affinamento in acciaio o in legno. Il vitigno è di recente riscoperta, e meno male. A mio parere i vini da Trebbiano Spoletino sono di grande bevibilità, con una spalla acida decisa, grande capacità di proporre nel calice la mineralità del terreno ed infine ampie prospettive di invecchiamento in bottiglia. 
Come detto però, chi acquista un vino da Trebbiano Spoletino deve conoscere lo stile del produttore, nel caso voglia abbinarlo correttamente a tavola. A tal proposito io voglio farmi carico di questo disagio degli avventori: vedrò di bere più Trebbiani Spoletini possibili, in modo da mettere sulla mappa le caratteristiche di ognuno e farvi fare un figurone alla prossima apericena (termine questo orribile, quasi quanto la pleonastica locuzione “sincera verità”). Benintesi, qui è tutto autofinanziato: o contribuite anche voi o vi armate di pazienza e continuate a leggermi! Che tanto so che mi leggete con vivo trasporto anche se non me lo dite [faccina che ammicca].


Di Antonelli San Marco non c’è molto che io possa aggiungere per arricchire il patrimonio informativo al riguardo: 170 ettari totali in Località San Marco, Montefalco (PG), di cui 50 circa vitati; azienda a conduzione biologica, un nome storico nel mondo del vino umbro: il titolare Filippo Antonelli è l’attuale presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco. Antonelli mi vinifica il Trebbiano Spoletino in due modi: macerazione pellicolare, pressatura soffice, chiarifica statica a freddo, fermentazione in botti di rovere da 25 hl, affinamento sulle fecce per 6 mesi e imbottigliamento per il “Trebium” (come da scheda tecnica); 8 mesi di macerazione sulle bucce e al chiuso di un’anfora invece per il vino “Anteprima Tonda”. Stavolta nel mio calice c’è finito il primo, il Trebium. 
Di un giallo oro brillante, il Trebium appena versato ha profumo di cenere e sale, con un leggerissimo sentore di idrocarburo. Pur non essendo un Riesling o un Timorasso, lo Spoletino con gli anni sviluppa questo sentore; la 2018 adesso è ancora un pulcino ma farebbe ben sperare per il futuro, se si avesse la pazienza di attenderlo (cosa che, evidentemente, non posso insegnarvi io). Dopo la mineralità sono i profumi fruttati e floreali che passano al comando: tanta frutta esotica, agrumi ed una intensa mimosa. Seguono quindi note di erbe aromatiche, mentuccia, salvia e maggiorana, un cenno vegetale di fieno tagliato ed una delicata vaniglia.
In bocca si apprezza immediatamente la freschezza di questo vino. L’anno appena di età fa prevalere ancora la parte acida, che comunque non tiranneggia, dando modo di apprezzare una tenue morbidezza, percepibile a fine sorso. La lunga persistenza sfuma su un ricordo di agrume amarognolo. Per coloro i quali si trovassero smarriti di fronte a quest’ultima affermazione, leggete: “pare che hai appena morso un chinotto” (un “aho” finale consoliderebbe il concetto).

La Casa dei Cini – Umbria Rosso IGT “Borgonovo” 2013

Io sono curioso di tutto. Sono anche scettico, tuttavia non chiudo la porta allo stupore. Questo preambolo perché? Per introdurre il mio personaggio nello scenario del “VAN Vignaioli Artigiani Naturali”, lo scorso 9 novembre a Roma. È in quel contesto che faccio la conoscenza di Clelia Cini, titolare assieme al fratello Riccardo dell’azienda di famiglia “La Casa dei Cini”. Casa loro è a Pietrafitta, 10 km a sud del Lago Trasimeno, sui terreni a connotazione argilloso-arenacea della Valle del Nestore. Clelia e Riccardo, laureati rispettivamente in Scienze Agrarie ed Ambientali e in Viticoltura ed Enologia all’Università degli Studi di Perugia, nel 2005 rilevano l’azienda di famiglia. Forti già delle conoscenze tramandate, i due fratelli si concentrano sulla modernizzazione degli impianti, aumentandone l’efficienza, ed impostando la loro attività su criteri di sostenibilità ambientale, forgiandosi alfine della certificazione biologica sia per l’oliveto che per il vigneto. Tutto questo giusto per dare una brevissima infarinatura sulla Casa dei Cini. 
Torniamo a Roma, torniamo al VAN: intercetto e punto il banchetto della Casa dei Cini. Non li conosco, ma a casa ho studiato: so che sono umbri (caratteristica già di per sé attraente) e che il loro bianco “Filara” è un blend di Grechetto e Manzoni bianco, vitigno quest’ultimo che mi interessa conoscere. Il loro banchetto è posto in posizione angolata; non una bella posizione in una sala piena di gente che si muove al rallentatore, tutta assorta a cercare il pepe di Sichuan in ogni singolo liquido versato nel calice, fosse anche l’acqua per il risciacquo. Sgomitando nella tonnara, mi avvicino, faccio la conoscenza di Clelia e chiedo finalmente di poter assaggiare il Manzoni Bianco. Semaforo rosso: in degustazione ci sono solo i tre rossi. Provo mestizia ma, consapevole che una sconfitta è un’opportunità di crescita, accetto l’invito di Clelia ad assaggiare la truppa esposta, chiedendole di parlarmi di loro. Clelia è vulcanica, è energica, è magnetica. Mi parla delle vigne, dell’oliveto, del nonno Bonaventura, di babbo Aristide e di mamma Adriana, che prima di lei e Riccardo se ne presero cura. Ha occhi determinati e parla con chiunque si presenti al suo banco, il che non è affatto scontato. Nello stesso giorno in cui ho visto servire vino con gli occhi fissi sul cellulare ed ho dovuto estorcere informazioni top secret a qualche vignaiolo, come “che uvaggio è questo vino?” o “da dove venite?”, incontrare vignaioli come Clelia dà un senso alle spallate date e prese (si nota molto la mia velata critica alla spaziatura dell’evento?). Ammiro molto persone come Clelia e Riccardo. Sarà perché avranno suppergiù la mia età, gestiscono un’azienda vinicola, lavorano nella natura ed hanno tanto entusiasmo; io invece ho appena fatto il test per sapere quale uva sono. 
Senza divagare ulteriormente (ma tanto voi pochi sventurati che leggete sapete che qui ”si sta come / d’autunno / sulle montagne russe / i barattoli di ceci”), dei tre vini rossi della Casa dei Cini assaggiati, tutti uvaggi inconsueti, interessanti e di una bevibilità impressionante, ho deciso di portare a casa con me il “Borgonovo” 2013. Giusto un mese di tempo per fargli conoscere casa ed eccolo sacrificato in nome della conoscenza. Ed è stato un bel conoscersi.


Il “Borgonovo” 2013 è 85% Cabernet Sauvignon, 7,5% Ciliegiolo e 7,5% Sangiovese. Sì ma non è il Cabernet che ti aspetti da una manifestazione di vini naturali. Il colore sì, ci sta, rubino con unghia granata bello carico e compatto, stante anche l’assenza di filtrazione del vino. Ma il profumo no, quello non rimanda subito ad un Cabernet Sauvignon. È intenso, è equilibrato ed è fine, sa di humus e di spezie, quali pepe nero, cannella e liquirizia. Uno poi si aspetterebbe il classico peperone verde, e invece il vino è fatto assai bene: la quota vegetale è molto contenuta e preceduta da un’intensa ciliegia matura (danke dir, Ciliegiolo), prugna, mora, una violetta appassita ed una grande balsamicità. Chiudono la sfilata odorosa note terziarie di cuoio, legno e cacao. Bocca equilibrata, giustamente tannica e fresca, agile, persistente e con chiusura di cioccolato fondente. Un gran bel vino, sorprendente e invitante. Menzione d’onore per le bellissime etichette disegnate da Sualzo e per la targhetta di presentazione che accompagna la bottiglia. Clelia e Riccardo Cini, bravi ancora una volta.



Scacciadiavoli – Metodo Classico Brut Rosè

Il problema è il retaggio culturale che ancora oggi resiste: gli spumanti si bevono negli aperitivi, con gli antipasti o con i dolci; quasi nessuno ha l’ardire di metterli a tavola durante un pasto qualsiasi. L’impressione che ancora viaggia spedita è che siano vini solo per momenti preziosi, soprattutto i metodo classico (o metodo champenoise, per chi ha un cestino di escargots al posto del cuore). Probabilmente ciò è dovuto ai nobili natali che questa tipologia di vino può vantare: 1670, il cellario dell’abbazia di Hautvillers corre fuori dal suo ‘posto di lavoro’ esclamando: “presto, venite fratelli! Sto bevendo le stelle!”. Quel frate era Dom Pierre Perignon, il vino lo Champagne e la frase un lasciapassare verso la leggenda. Vedendo la luce in questa maniera, chi avrebbe l’ardire di bere un metodo classico insieme alla pizza? Io. Senza paura. Per tre motivi. Motivi del tutto arbitrari, che sto elaborando or ora:
  1. Il vino va bevuto ed onorato. E il maggior onore per il vino è amministrare la tavola durante tutti i pasti.
  2. La scoperta di Dom Perignon, più che un’intuizione, fu uno spettacolare caso di serendipity: il buon frate cercava di eliminarle quelle bollicine dallo Champagne, perché il vino frizzante non era così in voga all’epoca; oltretutto quelle disgraziate gli facevano esplodere le bottiglie in cantina per l’eccessiva pressione (e i francesi non ringrazieranno mai abbastanza gli inglesi, in particolare re Giacomo I, per le bottiglie champagnotte dal vetro più spesso). Poi lo assaggiò e successe tutto quello che sappiamo, ma fu quasi più un caso fortuito che un’operazione ragionata.
  3. Nel 1570 il medico bresciano Girolamo Conforti pubblica il “Libellus de vino mordaci”. Lì viene elogiato il vino di Franciacorta: in questa microregione sotto il lago d’Iseo trovarono dimora secoli prima abati cluniacensi e cistercensi, affrancati dal pagamento delle tasse (appunto ‘francae curtes’) e dediti, fra le altre attività, alla produzione appunto di vino. Questo vino che, per dirla con le parole di Conforti, era “brioso, spumeggiante, mordacissimo”. Ora rileggete la data: era un secolo prima della scoperta di Dom Perignon. Ci sarà un motivo se ‘marketing’ non è un termine italiano…
Ad ogni modo, eccomi a stappare, gaudente e senza vergogna, il Metodo Classico Brut Rosè di Scacciadiavoli per accompagnare supplì e pizza. E devo dire che si è comportato magnificamente, ma era una facile previsione.



Lo spumante oggetto del nostro disquisire è prodotto in quell’angolo di paradiso che è Montefalco, in località Scacciadiavoli, che è anche il nome della cantina. Località così chiamata in quanto fu la dimora di un vero ‘scacciadiavoli’, un esorcista. Leggenda narra che riuscì ad estirpare il maligno da una donna per mezzo di un bicchiere di vino. Trovatemi voi una storia simile che abbia come protagonista del latte di soia, perché io non ne sono capace. 
L’uvaggio di questa bolla fantastica è 100% Sagrantino. Date le 10 ore appena di macerazione, l’uva cede al vino solo i suoi splendidi profumi e qualche antociano fuggitivo, trattenendo nella buccia la componente tannica. Segue fermentazione, imbottigliamento con liqueur de tirage e sosta sui lieviti per almeno 24 mesi. Infine sboccatura, aggiunta di liqueur d'expédition e lo spumante è pronto. Ecco, a voler fare i pignoli, scostumati e maledetti, il mio unico e minuscolo rammarico è di non vedere riportate in etichetta le date di imbottigliamento e sboccatura. Ma fidatevi che ciò non mi ha causato alcun tipo di problema nello stappare la bottiglia e nel goderne appieno.
Il vino nel calice è di un bellissimo rosa ramato, con perlage fino e persistente. Il naso è di un’eleganza e di una complessità stupende, un corredo olfattivo assai vasto, che si presenta subito con la componente fruttata, lamponi, more e fragoline di bosco, ad accompagnare la classica crosta di pane dei metodo classico, nota quest’ultima molto fine e non sovrastante gli altri profumi. La carrellata continua con note di rosa e glicine, un sentore ferroso ed appena terroso, cenni lievi di nocciola tostata, di cannella e di noce moscata: un profumo veramente magnetico.
In bocca lo spumante è una crema, con ingresso molto morbido nonostante la quota di carbonica, fresco e sapido, con un’elegante e profonda persistenza gusto-olfattiva, persistenza perfettamente corrispondente con i profumi percepiti al naso. Un vino terribilmente invitante. Bisogna sapersi dominare, ché a finirsi la bottiglia è un attimo.

Alberto Giacobbe – Cesanese del Piglio Superiore Riserva DOCG “Lepanto” 2016

Regola aurea dell’enogastronomia: con gli abbinamenti regionali difficilmente si sbaglia.
Regola argentea della ristorazione: privilegiare il consumo di vino locale, o quantomeno regionale. Soprattutto in una regione come il Lazio, dove è ancora molto in pasteggiare con etichette griffate, e quindi quasi mai di zona. Facendo miei questi preziosi dettami, affronto la difficile, meravigliosa, terribile sfida della scelta del vino al ristorante, nello specifico da “Sora Maria e Arcangelo” ad Olevano Romano, luogo scelto per il festeggiamento del mio primo anniversario di matrimonio. Non ho titoli sufficienti per tessere le lodi del ristorante, è stato già fatto da tanti altri, molto più bravi di me (ad esempio da Andrea Petrini sul suo blog Percorsi di Vino). Posso solo dire che è stato un pranzo memorabile, che sono rimasto sorpreso dalla bontà dei singoli ingredienti oltre che dal loro assemblaggio a formare i piatti veri e propri. E che, in definitiva, vale certamente la pena prendere la macchina ed andare a mangiare ad Olevano Romano. Già che ci siete andate anche a trovare i viticoltori di zona, poi con comodo mi ringrazierete.



In materia di vino, avendo scelto dal menu i cannelloni e le pappardelle al ragù bianco, cavalli di battaglia del ristorante, voglio ingaggiare per il ruolo di fido scudiero il Cesanese del Piglio Superiore Riserva “Lepanto” 2016 di Alberto Giacobbe. La scelta è ricaduta sul “Lepanto” perché ancora non conoscevo vino né azienda. La curiosità è stata acuita anche dal premio “Vino Slow” assegnatogli dalla guida Slow Wine 2020.



Dalla scheda del vino leggo che il “Lepanto”, dopo fermentazione in acciaio, mi va a sostare per un annetto in barrique e per un ulteriore anno e mezzo in bottiglia. La pazienza è la virtù dei forti e questo bel Cesanese forte lo è. Nel bicchiere è rubino compatto. La catechizzazione ad opera della barrique leviga notevolmente il classico attacco speziato del Cesanese, virando più su profumi di frutta a maturazione, more soprattutto. Poi però tranquilli che le spezie arrivano (e che facevamo un concerto degli U2 senza Bono?): il pepe nero fa da capofila, seguito radice di liquirizia, mirto, ginepro e un lieve sentore vanigliato; percettibili sentori di terragno ed ematico. La bocca risulta corposa ma al contempo agile, moderatamente tannica, elegante e piuttosto persistente. L’uso della barrique non è stato per nulla invasivo, ingentilisce ma non snatura completamente questo straordinario vitigno. Infine notevole è anche il rapporto qualità/prezzo. Insomma, si capisce che ho abbastanza apprezzato questo vino?

Azienda Agricola Vinica – Terre degli Osci IGT Riesling “Lame del Sorbo” 2017

Se si leggesse solo superficialmente il titolo di un libro, grande sarebbe il rischio di finire fuori strada. “Dieci piccoli indiani” potrebbe sembrare una fiaba per bambini, “Uno studio in rosa” un libro sull’emancipazione femminile, il vino in questione un classico Riesling italiano del nord… un momento, osserviamo per bene: il ‘sorbo’ è un albero che vegeta soprattutto nel mezzogiorno d’Italia. E già questo è un indizio. La denominazione poi parla di ‘Terre degli Osci’. E chi mai saranno questi Osci? Gli Osci furono un’antica popolazione indoeuropea che abitava il meridione d’Italia. Vennero poi inglobati dai Sanniti i quali, prima di subire la colonizzazione ad opera dei Romani, si tolsero la soddisfazione di comminare a questi ultimi una epocale bastonata alle Forche Caudine. Ebbene sì, questo Riesling Renano viene coltivato al sud, in quella regione che ancora oggi scatena cervellotici dibattiti sulla sua reale esistenza: il Molise. 
Vinica è un’azienda agricola molisana a conduzione biologica, 22 ettari vitati disposti al centro della regione, tra i 650 e i 750 m d’altitudine. L’azienda è poliedrica, con una moltitudine di vitigni messi a dimora: Tintilia, Sangiovese, Merlot, Aglianico, Pinot Nero, Riesling Renano, Sauvignon Blanc, Trebbiano e Moscato. Notevole il lavoro sulla Tintilia, che viene proposta in più versioni, tutte connotate da grande facilità di beva e pregevole longevità. Tuttavia oggi qui non si parla di Tintilia (non ancora, quantomeno), ma dell’uva a bacca bianca che sta alla longevità come la salamella sta ai fumetti di Jacovitti.


Banale ma necessaria premessa: non siamo sulle rive della Mosella, con quel meraviglioso suolo di ardesia; siamo 1500 km più a sud, terreno marnoso e calcareo, clima mediterraneo, al netto dell’altitudine. È quanto mai ovvio che cercare qui la finezza e la leggiadria dei Riesling tedeschi vuol dire perdere tempo. Quindi sto dicendo che questo vino non è buono? Tutt’altro, il Riesling “Lame del Sorbo” è molto buono. Dobbiamo solo relativizzare la posizione delle vigne, in modo da capire ed apprezzare le diverse sfumature di questo Riesling rispetto ai cugini teutonici. Perché il vino, realizzato solo tramite fermentazione rigorosamente spontanea e affinamento in acciaio, a mio modesto parere è fatto molto bene. 


Di un bel giallo dorato nel calice, il naso rimanda chiaramente ad un Riesling: si apprezza il classico ‘odore di canotto’. Certo, un paio di anni sono assai pochi per un Riesling, ma già danno modo a questo vino di esprimere un qualche cenno evolutivo. Si nota inoltre una mineralità pirica, cenere di camino, su cui insistono note di ananas, frutto della passione e una bella cesta di agrumi. Notevoli anche i profumi di ginestra, di fieno, di timo e di salvia. Anche solo leggendolo, il pattern olfattivo rimanda già ad un clima mediterraneo, introvabile in Germania. In bocca il vino è bello fresco e con una persistenza gusto-olfattiva deliziosa e lunghissima. Lo so, a volte uso degli orribili tecnicismi: ‘bello fresco’ vuol dire che si gode in modo distinto del contributo dato dall’acidità fissa ancora presente nel liquido, acidità già di per sé elevata stante la tipologia di uva. Attenzione, la bocca è sì bella fresca, ma non è tagliente, non porta alla contrazione dei muscoli masticatori. Data la tipologia di vitigno, si è già vicini ad un buon equilibrio gustativo, fermo restando che altri anni di affinamento avrebbero completato mirabilmente l’opera. Ahimè, questa volta più che la pazienza poté la sete.