Colle Picchioni – Lazio Rosso IGT “Il Vassallo” 2015

 

Una maledizione. L'impossibilità di mettere due parole in croce per questo pezzo è durata una settimana. Sette giorni di “e mo' che scrivo”, “e come faccio”, “e questo è un vino importante”, “e non posso fa' figuracce”. Poi al settimo giorno la svolta. In fondo anche Dio il settimo giorno si riposò, giusto? Bene, io ho deciso che basta. Anzi, ho deciso che mo' basta!

Il vino in questione è uno dei più importanti del Lazio, ha una grande storia alle spalle, legata alla storia di una grande Donna (D maiuscola) del vino laziale. Io invece sono uno che pigia tasti su una tastiera nei ritagli di tempo che ha, mosso da sincera passione e da una cospicua dose di sfrontatezza, che mi permette di pensare che ci sia pure qualcuno interessato alle mie parole. Ma restiamo onesti: se vi aspettate un Veronelli, un Soldati o un Sangiorgi ad ogni pezzo, tesori miei grandissimi, siete finiti in una scarpata. Non basta, come vedete ogni tanto soffro anche io di ansia da prestazione, e senza che nemmeno ci sia un dannato motivo! Come quelli che al campetto si vergognano di aver fatto 4/25 da soli da sotto canestro: ma a chi diamine vuoi che glie ne importi?!

Per cui, con le nuove lenti della saggezza (le davano in abbinata con la Settimana Enigmistica stamattina), scriverò quel che so del Vassallo, senza improvvisare lezioni di storiografia enologica dei Castelli Romani. Scriverò di quello che posso padroneggiare, come sempre. Magari un giorno evolverò in un Armando Castagno, ma quel giorno non è oggi.


Il Vassallo è il vino di punta della cantina Colle Picchioni, che qui già conosciamo per il loro Donna Paola, annate 2017 e 2019. È un taglio bordolese composto da 60% merlot, 30% cabernet sauvignon e 10% cabernet franc. Detta così sembra semplice, in realtà è il primo grande taglio bordolese laziale. E di questo bisogna ringraziare Paola Di Mauro, la fondatrice di Colle Picchioni.

Era il 1976 quando i Di Mauro, romani de Roma, acquistarono un casale alle pendici del Vulcano Laziale che guardano al Tirreno, nel territorio di Marino, in una zona anticamente appartenuta a un vassallo dei principi Colonna. Il casale già aveva a dimora una vigna con le varietà bordolesi di cui sopra. Ecco, il vino che se ne traeva però non doveva essere un granché se perfino Donna Paola, astemia convinta, abiurò per affrontare il problema: colpa dell'uva o della sua lavorazione? Spostàti gli occhi sulla seconda opzione, si mise a quasi 50 anni a leggere con grande slancio testi di agronomia ed enologia per arrivare al vino che lei voleva, immagino con marito e figli che la guardavano come un tibetano guarderebbe il Dalai Lama prendere lezioni di cricket.

Alla fine ha avuto ragione lei e il Vigna del Vassallo (il suo nome originario) vide la luce negli anni '80, acquisendo subito una buona notorietà, paradossalmente più nel resto d'Italia che nel Lazio, regione a prevalenza bianchista e dove il vino si è sempre venduto sfuso. Ribadisco, perché magari la cosa è passata sotto traccia: una donna nei primi anni '80 ha deciso da sola di produrre vino di qualità, di imbottigliare un taglio bordolese laziale, di farlo conoscere fuori dal cortile di casa. E diavolo se ci è riuscita.

Oggi Colle Picchioni è gestita da Valerio, il nipote di Paola Di Mauro, e dalla moglie Laia, dopo la dipartita di Donna Paola del 2015. E proprio del 2015 è il Vassallo aperto e gioiosamente bevuto.

Nel calice è ancora di un rosso rubino vivo, scuro e compatto, con una lieve concessione al rosso mattone ma giusto al bordo del liquido.

Il naso è intenso, ricco e molto affascinante. Dominano la frutta, con frutti di bosco maturi ed amarene sotto spirito, e una carrettata di spezie che sembra il mercato dell'Esquilino (pepe nero, noce moscata, cannella, coriandolo, liquirizia, vaniglia). Come complessità sulla carta avremmo già raggiunto la sufficienza, ma il Vassallo cala anche il carico con glicine e geranio ancora freschi, con foglie secche, mentuccia e rabarbaro, polvere pirica (grazie, vulcano) e note finali di caffè, tabacco dolce e cuoio. Male male?

In bocca il vino è ampio, è corposo, ha buona freschezza e tannino presente e garbato. Notevole la sapidità (grazie, vulcano) e l'intensità del gusto, con un finale di bocca lungo e sfaccettato (vuol dire che sono molteplici le sensazioni che si alternano nella via retronasale una volta che il vino è sceso nel burrone. Sfaccettato, appunto).

Un'emozione non è rilevabile analiticamente, non è un dato oggettivo: c'è o non c'è, la si prova o non la si prova, qualsiasi cosa sia. Le parole sono poche e semplici: il Vassallo, per chi scrive, è un vino emozionante.

Deltetto – Roero Riserva DOCG “Braja” 2016

 

Parafrasando gli individui più irrispettosi, il Roero è solo il cugino sfigato delle Langhe. È quello che ha pagato la voglia di emancipazione del Tanaro, che stufo di sfociare nel Po nei pressi di Carignano ha deciso, due o trecentomila anni fa, di traslocare con tutti i suoi affluenti verso Alessandria (disclaimer: due/trecentomila anni fa né Carignano né Alessandria erano ovviamente citate sulle mappe catastali del paleolitico; è solo per dare un riferimento geografico attualizzato) . Affluenti che, delicati come dei panzer sul fronte russo, hanno lasciato traccia della loro diaspora nelle attuali Rocche del Roero, patrimonio dell’umanità UNESCO.

Ed ecco qui che, al di là del Tanaro, abbiamo la meraviglia delle Langhe, la storia, il Barolo, il Barbaresco, Cavour, Tortoniano ed Elveziano… E sulla sua sponda sinistra? 

Beh, anche il Roero è un gran posto per far crescere la vite. Ok, è offuscato dalle Langhe, questo senza dubbio, ma oltre a dolcetto, barbera ed altre uve paesane, cresce anche qui un grande nebbiolo. Il terreno è in prevalenza sabbioso, di origine marina, con sporadiche apparizioni di calcare ed argilla. Sabbia vuol dire terreno poroso, dunque la riserva idrica dei terreni del Roero è abbastanza ridotta. Metteteci come contorno la scarsità di piogge annuali (che però quando arrivano si sentono come la banda di Quinnipak) ed ecco che esce fuori un quadretto niente male per la viticoltura. La vite qui soffre e si prodiga nel generare acini ricchi di zucchero e aromi, che si tradurranno in vini alcolici e profumati. Certo, il terreno sabbioso si dice penalizzi la longevità del vino, ma se l'uva in questione è il nebbiolo state sereni che acidi fissi e tannini sono sempre in valigia: il trascorrere del tempo non sarà un gran problema per i Roero DOCG.

Per questo test viene chiamato sul banco dei tastevin il Roero Riserva “Braja” 2016 di Deltetto. Le uve di questo vino provengono tutte dallo storico vigneto “Braja” (“grida” in dialetto roerino) in Santo Stefano Roero. Una volta pigiate le bucce restano a far compagnia al succo in fermentazione per una trentina di giorni a cappello sommerso. Il passo successivo è la maturazione per 24 mesi in botti e barriques di rovere, cui fa seguito un’altra dozzina di mesi di riposo in bottiglia.

Nel calice il vino appena versato è rosso rubino con bordo granato, che per un nebbiolo equivale a dire gioventù, ma ormai sapete che da queste parti i vini hanno ancora limitati margini di sopravvivenza in cantina.

Al naso si avvertono inizialmente sentori terrosi, fruttati e speziati. Andando nello specifico, emergono note di mela e ciliegia matura, di violetta appassita, di foglie secche e carne cruda, di rabarbaro, vaniglia e cannella, di pepe nero; sul finale si apprezzano note tostate ed affumicate, di sigaro e di olive nere. Un profumo di grande complessità, piacevole e non stordente.

In bocca il vino fa notare tutta la sua giovane età, con un tannino esuberante, ancorché gentile, e con un freschezza che reclama attenzione. Però, a latere di queste due caratteristiche affatto fastidiose, si affacciano una splendida sapidità ed un sapore intenso e molto persistente, di grande finezza.

Vino che già si beve bene ma che potrà dare il meglio di sé solo dopo qualche anno di attesa, alla faccia dei 'poco longevi' vini da terreni sabbiosi.

Poggio Bbaranèllo – Lazio Bianco IGT “T1” 2019

 

Coi vini naturali non c’è mai da star tranquilli. Non è che ne prendi una bottiglia e la rendi fulcro di un progetto enogastronomico. Puoi azzardare degli accostamenti, magari avvantaggiato dal conoscere il produttore, ma difficilmente un vino naturale può assecondarti pacificamente.

Oh, io sto parlando di vini naturali ma sia chiaro che la definizione, oltre che così terribilmente di moda da rischiare di vedersi svuotata di contenuto, possiede contorni assai poco definiti. Un vino definito ‘naturale’ non risponde a protocolli o parametri definiti. Il tratto di base è la rinuncia a qualsiasi prodotto chimico di sintesi da utilizzare in vigna, nonché l’utilizzo dei soli lieviti indigeni per portare avanti la fermentazione, senza ricorrere a lieviti selezionati o altri additivi pur consentiti in cantina. Precetti nobili e condivisibili, la cui applicazione resta però fiduciaria (non saremmo mai presenti tutti i giorni in tutti i vigneti dove crescono le uve con cui vengono prodotti i vini che tanto ci piacciono. “Dovemo fa’ a fidasse”).

Va bene, ma tutto questo preambolo, molto vago e poco rassicurante, dove dovrebbe portare? All’avere un’ottica aggiuntiva nell’approccio a tali vini. L’ottica primaria è quella della classica degustazione: aspetto visivo, complessità olfattiva e performance al palato. L’ottica aggiuntiva riguarda le altre sensazioni che il vino stimola. Perdonatemi, non so essere più preciso di ‘altre sensazioni’. Le intendo come delle percezioni particolari; percezioni che, una volta catturate, completano il giudizio su questo vino.

Parliamo del T1, il bianco di Poggio Bbaranèllo (le ricordate, Silvia e Lisa? Ci siamo stati e abbiamo anche già bevuto qualcosina) a base trebbiano toscano, localmente chiamato procanico: vinificazione in bianco con lieviti indigeni e affinamento in acciaio, nessuna filtrazione, nessuna chiarifica.

Alla stappatura della bottiglia è entrato in azione il degustatore: vino di un bel giallo paglierino, molto intenso cromaticamente.

Naso intenso, che ricorda ananas e frutta tropicale, mimosa e ginestra, mandorle, miele e cera, con note minerali a metà tra lo iodato e il terragno e con leggeri cenni di origano e salvia.

La bocca è di sapore intenso, di grande sapidità e fresca, con un finale di bocca molto lungo dove spiccano un sentore ammandorlato e un leggero fumè in chiusura di sorso.


Bene, queste erano le note di degustazione al primo calice. La vita poi scorre, il block notes si rimette in tasca (letteralmente: le note di degustazione le scrivo sul fido smartphone. O tempora, o mores) e ci si concentra sulla cena, sul giorno successivo, sul lavoro. Nel frattempo però anche il vino si fa i fatti suoi e, una volta stappato, prosegue il suo percorso. 

Io utilizzo i tappi Vacu Vin, tappi in silicone con cui metto sottovuoto l’interno della bottiglia, limitando l’ossidazione del vino rimasto. Il giorno dopo stappo il vino e ne metto un po’ nel calice. Che strano, non ha ceduto affatto di profumi né di sapore. Ma proprio niente. “Bontà del vuoto” penso. E, non so il perché, mi viene in mente una diavoleria. Con una perfidia del tutto casuale, che non aveva motivo di esistere, mi dico “io il vuoto non glie lo faccio. E lo lascio anche una notte fuori dal frigo, tiè” (e cos’altro vogliamo fare signor Fiordiponti, allungarlo con della trielina? Non so, mi dica lei).

Giorno successivo, vino nel calice: perfetto. Nemmeno una sgualcitura, gli abiti addosso perfettamente stirati. E se sui gusti possiamo tutti discutere, ma diamine sarà sempre più soddisfacente vedere uno in tuta e felpa ma pulito e ordinato che un tizio in giacca e cravatta che sembra uscito dalla turbina di un jet. E questo T1 gli abiti, i suoi abiti, li mantiene a modino anche dopo due giorni dalla stappatura.

Ma anche dopo tre giorni.

Ma anche dopo quattro.

Signori, io questo vino non l’ho maltrattato, ma nemmeno gli ho riservato un trattamento beauty luxury. E lui se ne è stato per quasi una settimana bello dritto sulla schiena, i profumi al posto giusto e il sapore che assecondava il tempo trascorso senza subirlo. Una seppur minima evoluzione c’è stata (sarebbe stato Frankenstein altrimenti, non proprio il manifesto della naturalità), con i profumi che si sono fatti meno tropicali e più terreni, con il sapore lievemente ammorbidito e un meno ammandorlato. Ma la cosa principale è che questo vino è rimasto sé stesso. Non è mutato, non si è corrotto di fronte a una minima mancanza di cura. Che poi è quello che una persona normale, non un malato di vino come me, fa nella vita di tutti i giorni: lascia il vino in frigo, o anche fuori, tappandolo alla bell’e meglio.

Il T1 2019 ha scorza, ha sostanza, è fedele all’uva e al territorio da cui proviene e non lo molla nemmeno sotto minaccia. Ho ripensato al mio giudizio iniziale: era positivo, ma non credo di offendere Silvia e Lisa se dico di aver provato vini più impressionanti del T1. La vitalità di questo vino mi ha costretto a tornare sui miei passi, non poteva essere ignorata. È una caratteristica da vino importante.

I vinonaturalisti direbbero che è una caratteristica che ha il ‘vino vero’, l'unico vino possibile. Stavolta hanno ragione loro mi sa.


Salvatore Martusciello – Asprinio d’Aversa DOC Metodo Martinotti Brut “Trentapioli” 2019

 

L’Asprinio non è ancora patrimonio dell’umanità UNESCO ed io non me ne capacito. Seriamente, non me ne riesco a fare una ragione. Per quale motivo? Due parole: alberata aversana, che volendo si può leggere anche ‘alberata etrusca’.

Ci troviamo di fronte ad uno dei più antichi ‘addomesticamenti’ di questa liana foriera di biglie zuccherose. Sì, bravi quanto vi pare i greci, ma oltre il potare la pianta a quota Umpa Lumpa non sono andati. Gli etruschi invece, brava gente pratica ed assetata, hanno introdotto il concetto di matrimonio combinato, molto prima degli indiani. Ed ecco che, avendo a disposizione olmi e pioppi, architettarono di piantare la vite tra un albero e l’altro, maritando arbusto e arbusto.

‘Architettarono’ è il verbo perfetto: gli etruschi, come oggi i campani dell’Agro Aversano, fanno salire la vite su, su, su per la chioma dell’albero. Vite che raggiunge così anche i 15 metri d’altezza. Ok, ma come ci si arriva lì su? Con gli scalilli, scale costruite appositamente per inerpicarsi su questi palazzi di 5 piani; scale strette ed alte, che si appoggiano ai filari di asprinio e si va su a potare e a vendemmiare come se si fosse sull’Empire State Building, solo che a terra non c’è Manhattan ma l’Agro Aversano (molto meglio, dico io).


Fonte: rivistadiagraria.org

Ora, capite bene che se prendete una pianta e la fate sviluppare per decine di metri in altezza, anche se aveste un grappolo ogni metro avreste comunque un bel gruzzolo di grappoli. L’uva dunque deve essere collaborativa, non può essere un’uva qualunque. L’asprinio collabora. Quest’uva è un concentrato di acidità tale che può sedersi al tavolo con i cugini più blasonati (riesling, chenin blanc, Müller Thurgau). Attenzione, il vino Asprinio non è mica solo una limonata, per piacere: è un vino complesso il giusto, magari elegante il giusto, sicuramente un grande alleato a tavola. Perfino un buongustaio come Mario Soldati, nel suo Vino al Vino, si prodigò in grandi lodi per questo onesto bianco vinificato da frizzante a spumante. Certo, lo chiamava ‘asprino’, ma una licenza glie la si può concedere. Molto meno gli concedo il chiamare il pranzo ‘colazione’, roba da mandarmi al confino due etti di calma ogni volta che lo leggevo; e siccome Mario nostro ci andava di forchetta ad ogni allacciata di scarpa, praticamente ho letto Vino al Vino in preda all’ira. Ma questo è un mio problema (pure grosso, a rileggere l’ultimo paio di periodi… coraggio, avanzare, avanzare).



Lo spumante brut a base asprinio metodo Martinotti (e che Charmat vada a farsi… benedire) “Trentapioli” viene prodotto da Gilda e Salvatore Martusciello. Il nome è un omaggio ai pioli degli scalilli usati per andare a recuperare la materia prima del vino tra un pioppo e l’altro. Dopo la vendemmia si operano fermentazione e maturazione per 50 giorni in autoclave sui propri lieviti.

Il vino ha una colorazione praticamente bianco carta, con un rispettabilissimo perlage che prende vita nel calice.

Il profumo di questo Asprinio parla di uva spina, di lime, pompelmo, di pesche e nespole, di gelsomino, di timo. L’atmosfera è costantemente punzecchiata da un sentore polveroso, che collocherei tra le note minerali e che, stazionando il vino nel bicchiere, muta ricordando il profumo delle conchiglie. Facendo paragoni impropri (usando anche termini orrendi) ma mediamente calzanti, direi che questo Asprinio ha un naso che ‘Chenineggia’.

La bocca è secchissima. Secchissima proprio. Volete trovare una traccia di quei “fino a 15 g/l” di zucchero possibilmente presenti in uno spumante brut? Lasciate stare, il vino è secco come un ciocco. In grande spolvero anche la freschezza, prevedibile; sapidità contenuta, una bella cremosità al palato, sapore mediamente intenso ma con una persistenza notevole, che sfuma su chiare note di limone e pompelmo.

Un abbinamento su due piedi? Facilissimo: mozzarellona di bufala e pane di Benevento. I perfezionisti obietteranno che si rischia di scodare in succulenza, voi non invitateli a pranzo e il gioco è fatto.