Deltetto – Roero Riserva DOCG “Braja” 2016

 

Parafrasando gli individui più irrispettosi, il Roero è solo il cugino sfigato delle Langhe. È quello che ha pagato la voglia di emancipazione del Tanaro, che stufo di sfociare nel Po nei pressi di Carignano ha deciso, due o trecentomila anni fa, di traslocare con tutti i suoi affluenti verso Alessandria (disclaimer: due/trecentomila anni fa né Carignano né Alessandria erano ovviamente citate sulle mappe catastali del paleolitico; è solo per dare un riferimento geografico attualizzato) . Affluenti che, delicati come dei panzer sul fronte russo, hanno lasciato traccia della loro diaspora nelle attuali Rocche del Roero, patrimonio dell’umanità UNESCO.

Ed ecco qui che, al di là del Tanaro, abbiamo la meraviglia delle Langhe, la storia, il Barolo, il Barbaresco, Cavour, Tortoniano ed Elveziano… E sulla sua sponda sinistra? 

Beh, anche il Roero è un gran posto per far crescere la vite. Ok, è offuscato dalle Langhe, questo senza dubbio, ma oltre a dolcetto, barbera ed altre uve paesane, cresce anche qui un grande nebbiolo. Il terreno è in prevalenza sabbioso, di origine marina, con sporadiche apparizioni di calcare ed argilla. Sabbia vuol dire terreno poroso, dunque la riserva idrica dei terreni del Roero è abbastanza ridotta. Metteteci come contorno la scarsità di piogge annuali (che però quando arrivano si sentono come la banda di Quinnipak) ed ecco che esce fuori un quadretto niente male per la viticoltura. La vite qui soffre e si prodiga nel generare acini ricchi di zucchero e aromi, che si tradurranno in vini alcolici e profumati. Certo, il terreno sabbioso si dice penalizzi la longevità del vino, ma se l'uva in questione è il nebbiolo state sereni che acidi fissi e tannini sono sempre in valigia: il trascorrere del tempo non sarà un gran problema per i Roero DOCG.

Per questo test viene chiamato sul banco dei tastevin il Roero Riserva “Braja” 2016 di Deltetto. Le uve di questo vino provengono tutte dallo storico vigneto “Braja” (“grida” in dialetto roerino) in Santo Stefano Roero. Una volta pigiate le bucce restano a far compagnia al succo in fermentazione per una trentina di giorni a cappello sommerso. Il passo successivo è la maturazione per 24 mesi in botti e barriques di rovere, cui fa seguito un’altra dozzina di mesi di riposo in bottiglia.

Nel calice il vino appena versato è rosso rubino con bordo granato, che per un nebbiolo equivale a dire gioventù, ma ormai sapete che da queste parti i vini hanno ancora limitati margini di sopravvivenza in cantina.

Al naso si avvertono inizialmente sentori terrosi, fruttati e speziati. Andando nello specifico, emergono note di mela e ciliegia matura, di violetta appassita, di foglie secche e carne cruda, di rabarbaro, vaniglia e cannella, di pepe nero; sul finale si apprezzano note tostate ed affumicate, di sigaro e di olive nere. Un profumo di grande complessità, piacevole e non stordente.

In bocca il vino fa notare tutta la sua giovane età, con un tannino esuberante, ancorché gentile, e con un freschezza che reclama attenzione. Però, a latere di queste due caratteristiche affatto fastidiose, si affacciano una splendida sapidità ed un sapore intenso e molto persistente, di grande finezza.

Vino che già si beve bene ma che potrà dare il meglio di sé solo dopo qualche anno di attesa, alla faccia dei 'poco longevi' vini da terreni sabbiosi.

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