Travaglini – Gattinara DOCG 2016

Ci risiamo. Candidamente ammetto che l’intento era farlo dormire in cantina per almeno un lustro. Invece, vuoi la curiosità, vuoi il braccino corto che impedisce di spendere soldi per altre bottiglie di vino, che insomma la cantinetta è anche piena, sì però è piena di vini che vorrei far maturare, sì però oggi ci siamo domani chi lo sa… insomma, vuoi per questi motivi, un velo di malinconia novembrina da lavare via, e si finisce ad aprire anzitempo una delle due bottiglie di Gattinara di Travaglini (l’altra speriamo riesca a campare di più).

Bottiglia celebre, surrealista, ideata dal fondatore Giancarlo Travaglini. Comoda nella presa, arreda bene la tavola, non molto pratica invero nella torsione anti-goccia del polso (nota: l’autore ha sì un diploma da sommelier, ma riesce nella titanica impresa di far cadere gocciole vinose anche a bottiglia ferma in verticale. Che dire, il talento non si sceglie). 

Gattinara è un paesucolo lontano dalla ribalta delle Langhe; sta su una collina alla destra della Sesia, e l’omonima DOCG è il ‘numero 10’ di quella macroarea definita Alto Piemonte. Qui il nebbiolo (localmente chiamato spanna) indossa altri abiti, meno chic rispetto alle Langhe ma indubbiamente di alta sartoria. Una diaspora svuotò le campagne alla metà dello scorso secolo (lo abbiamo visto parlando del Boca [LINK] e del Lessona [LINK]), con i contadini mutati in cittadini salariati. La fama del Gattinara non bastava per tutti a colmare pance e portafogli. Una fama certificata, fra i tanti, dalle parole di due cultori (chiamarli ‘scrittori’ è riduttivo) come Paolo Monelli e Mario Soldati. Uno scrisse “[…] il Gattinara, vino compatto, profumato, di gioioso colore, di severi propositi”; l’altro diede alle stampe qualcosa di irraggiungibile: “Ha un colore limpidissimo: rosso marroncino, che tira al giallo: ma quando ce ne resta soltanto una goccia in fondo al bicchiere, e lo guardi contro il bianco della tovaglia, ha il colore rosa scuro, rosa oro, rosa antico; la luminosità, a notte, dei portici di Gattinara. […] Un sorso, a fior di labbro, sulla punta delle labbra. Isolarsi, intanto, concentrarsi, restare immobili, lasciare che il sapore salga al cervello, lo spirito si faccia spirito e si possa, tranquillamente, pensarlo. […] Un sorso di Gattinara. Purché vero, s’intende. Non chiedo di più”. Meglio di così è difficile fare.

 


Travaglini detiene praticamente la metà del vigneto gattinarese (52 ha aziendali), imbottigliando vino dal 1958. Per il Gattinara di Travaglini la spanna, cresciuta su suoli di porfido vulcanico e ricchi di ferro, viene fatta fermentare in acciaio per poi farsi un sonno di circa 3 anni in botte grande e di 3 mesi in bottiglia. 

Nel calice la 2016 è un rubino vero e proprio, un magnifico vetro rosso. Al naso un profumo dalla moderata intensità, di frutti di bosco rossi su cui svetta il lampone, aroma di geranio, ruggine, cardamomo e vaniglia, tabacco da sigaro.

In bocca il Gattinara 2016 è ancora bizzoso, con le durezze in evidenza: tannino e freschezza dettano legge, particolarmente la massima sensazione di astringenza la si prova sul retro del palato e della lingua. Il sapore del sorso sfuma con un ciccinino di fretta in più rispetto le mie aspettative, che ricordiamo sono irrilevanti. Credo che prima dei 10 anni dalla vendemmia questo vino non debba essere aperto, è il terzo assaggio a consigliarmi questa tempistica: i tannini hanno bisogno di morigerarsi e un po’ di evoluzione non può che giovare al sapore. Detto ciò, se lo trovaste al supermercato mettete pure una bottiglia nel carrello (sì, è uno dei pochi vini che potete trovare negli scaffali tra i sottaceti e le farine di cui consiglio l’acquisto).

Scala - Cirò Rosso Classico Superiore DOC 2018

Che poi uno non vorrebbe fare classifiche, confronti tra vini di diverse regioni. Che poi però ci caschiamo tutti e, assaggiato un vino, è un attimo a cercare il paragone, la comparazione per valori ‘assoluti’, così da trovare il ‘vincitore’ e l’eventuale distacco dei ‘contendenti’. Ci vorrebbe mezzo secondo a sentenziare che il Cirò è il Barolo/Brunello/Richebourg della Calabria, che il gaglioppo di quella terra è il suo nebbiolo/sangiovese/pinot noir. Ne sarei tentato, quello delle somiglianze è un gioco divertente, ma non è cosa. 

Lasciamo stare i paragoni insensati e prendiamolo da solo: il Cirò è un vino di tutto rispetto, soprattutto se proveniente da gaglioppo in purezza, barattando un po’ di intensità cromatica con anni di vita a schiena dritta. E mai come negli ultimi anni questa DOC si sta facendo largo fra gli scaffali delle enoteche. 

In zona è in corso da ormai una decina di anni la cosiddetta Cirò Revolution: diversi produttori si sono accordati sull’idea di Cirò rosso (e rosato, il vero traino della denominazione), in risposta al nuovo disciplinare che consente tagli anche con merlot e cabernet sauvignon. Uno il dettame principale, come gli dèi del luogo hanno sempre comandato: “per cortesia, usate solo il gaglioppo. Fidatevi che vi conviene. Sì, Sì, il colore scarico e tutto, ma date retta che va bene”.

 


In effetti il Cirò Classico Superiore 2018 di Scala (100% gaglioppo, solo cemento per un paio di anni) è bello scarico al colore, un rosso rubino trasparente bordato di granato. Tempo addietro un colore scarico e una texture trasparente pare non rendessero l’idea di vino di qualità all’omino della strada. Sarà che sono stato ‘battezzato’ in epoca recente, ma a me un colore del genere dice solo “c’ho pochi antociani, che ce posso fa’?”.

E bisogna fidarsi di questo vino debolmente tinto, perché è al naso che i cavalli di quest’uva gaglioppano (questa era davvero tremenda): spezie e frutta, terra e cenere, e tante belle cosine. Tra i mille sentori svettano amarene e chinotto (agrume, non bibita), foglie secche e humus, rabarbaro, cannella e cardamomo, note affumicate e di macchia mediterranea, chiusura di caffè in polvere. Il profumo invita all’annusata reiterata, con qualche sfumatura diversa colta ad ogni respiro.

Per chi fosse intimorito dal colore, per chi avesse avuto paura di trovare nella bordura granata tracce di mortalità, bevesse un sorso di questo Cirò: freschezza, parecchia; tannino, generoso. Il sorso è giovane e vitale (avrei voluto dire ‘imbizzarrito’, ma restavamo su un tema equino già sfidato prima), con una bella intensità e lunga persistenza. Soprattutto, è imbarazzante la facilità con cui questo Cirò si fa bere, anche a discapito dei 14% di alcol. 

Menzione d’onore per l’etichetta retro. Io la trovo bellissima poiché assurda e fuori contesto. La grafica rimanda agli anni ’60, a scatoloni di detersivo in polvere. Mai pensereste sia l’etichetta di un vino. E qui è il bello, la sfida alla logica e alle tradizioni, che vogliono etichette di vino sobrie, con caratteri sottili, con raffigurazioni stilizzate di casali contadini, di filari collinari, di stemmi nobiliari. Che poi, molto francamente, i rimandi all’araldica ci avrebbero anche smerigliato le… sinapsi.