Tenuta di Valgiano – Colline Lucchesi Rosso DOC “Palistorti di Valgiano” 2017

 

A Valgiano non ci caschi dentro. A Valgiano ci vai perché vuoi andarci. La Tenuta di Valgiano si trova a Capannori, paesone da 45000 anime in provincia di Lucca: non esattamente il primo posto che viene in mente se dicessi “Toscana del vino” (ma neanche il secondo, o il terzo). 

Eppure, lontano dai posti dove i vips investono quattrini solo per il gusto di dire che c’è il loro vino nel calice che tengono in mano (male. Dal bevante. Barbari), lontano da Montalcino e dalla Gallo Nero zone, esiste questa tenuta alle pendici dell’appennino e a 40 km dal Tirreno, da un ventennio interamente devota alla biodinamica, con certificazione Demeter a comprovarlo. L’azienda è stata fondata nel 1993 e oggi è sorretta da Laura Di Collobiano, Moreno Petrini e Saverio Petrilli, con una menzione d’onore per il folle umanoide che cura la loro pagina Instagram, realizzatore di stories che spesso rasentano il nonsense e che sono causa di grande allegria per il sottoscritto (voto: diesci)

I terreni sono un intercalare di alberese (marna altamente calcarea) e arenaria del Macigno Toscano, di origine relativamente recente, pleistocenica (una 55ina di milioni di anni fa; già governava la DC). In questi terreni se ne stanno piantati come dei corazzieri le viti di sangiovese, merlot e syrah che compongono il Palistorti Rosso, il second vin della tenuta.


L’uvaggio del Palistorti Rosso è 70% sangiovese, 20% Merlot e 10% syrah, selezionate tra i vigneti più giovani e le seconde scelte al draft dei vigneti più vecchi (le prime scelte vanno a fare la NBA: il Tenuta di Valgiano). Dopo la fermentazione il 40% della massa sosta in cemento e il 60% alberga in barriques di rovere francese, il tutto per un annetto. Poi le due masse si incontrano nuovamente (“ti vedo cambiato”, “eh, sono stato in baita; ti cambia dentro proprio”) e il vino viene finalmente imbottigliato, per poi una di queste bottiglie finire per essere sbottigliata dal sottoscritto.

Nel calice il vino cade soffice e sicuro di sé (non so come cada un vino insicuro di sé, ma concedetemi la licenza) ammantato di un rosso rubino con un minimo accenno residuo di porpora, un nonnulla.

Il naso ha grande potenza, con un’importante balsamicità, con note di prugne, fragole e ciliegie mature, pepe nero, liquirizia, incenso, glicine e con cenni di sottobosco, grafite e foglia di mirto.

La bocca è corposa e molto pulita, ancora spostata verso le componenti dure del sorso, con freschezza e tannino in evidenza, quest’ultimo di grande qualità. La persistenza è assai duratura, con ritorni aromatici fruttati e pepati.

Un second vin di tutto rispetto, che andava aspettato ancora qualche tempo. Ahimè, come al solito ero assetato.

 

 

Colombera & Garella – Lessona DOC “Pizzaguerra” 2017

 

Il vino di oggi è un esemplare di nobili ed antichissimi natali, che si è visto ridimensionare oltremisura negli ultimi decenni e che solo ora sta rialzando la testa, forte di alcune caratteristiche invidiabili. Due su tutte: territorio e uva protagonista.

Il territorio della DOC è compreso in quella macroarea dal commovente rapporto qualità/prezzo nota come Alto Piemonte, e risponde al nome di Lessona DOC. La zona gode di un clima tra i più miti di tutto l’alto Piemonte, particolarità che le consente di sfoggiare coltivazioni di olivi a fianco dei filari di vite. Il terreno è costituito in prevalenza da sabbie di origine marina e loess con sparuti inserti argillosi, anche questa una sensibile differenza con le altre denominazioni altopiemontesi. 

L’uva è la spanna, altresì detto nebbiolo, che bene conosciamo e a cui vogliamo tanto bene. Il disciplinare del Lessona DOC parte da un minimo di 85% di spanna, ma tutti i migliori vini della zona sono realizzati con spanna in purezza. Questo perché il terreno e un clima più carezzevole consentono al nebbiolo di non venire su ostico e graffiante come in altre zone poco distanti, le quali spesso necessitano dell’aiuto di vespolina, croatina ed uva rara per lisciare il pelo al furente collega.

La prima testimonianza di viticoltura organizzata in zona Lessona risale al 1436 ed è documentata nero su bianco: la vendita della vigna “al Zoppo”. E se vi dicessi che quella vigna ancora esiste? No, non le stesse viti, mica è la foresta dei cedri di Dio in Libano, ma la vigna così denominata è oggi proprietà della famiglia Sella (“ma sono per caso parenti…” Sì, sono i pronipoti di Quintino Sella). Fino alla Seconda guerra mondiale il Lessona godette di ottima fama, messo dietro solo da Barolo, Barbaresco e Gattinara. Il dopoguerra, con la sua bella dote di povertà, e l’industrializzazione diedero una bella mano allo spopolamento dell’alto Piemonte. Le vigne, ahimè, vennero lasciate a duellare con il bosco; pochissimi portarono avanti la tradizione vinicola del Lessona, che si fregiò della DOC nel 1976. Pochissimi? Facciamo due: Sella e Clerico. Uno e due. 

La situazione cominciò a migliorare verso gli anni 2000, con il richiamo della terra che portò a Lessona alcuni volenterosi. Non fantastichiamo troppo: ad oggi si parla di una quindicina di aziende operanti sul territorio per un totale di 18 ettari iscritti alla denominazione su 35 ettari vitati in totale. 

Tra i volenterosi va nominato Carlo Colombera che nel 1992, stufo di rovinarsi la schiena nelle risaie del vercellese, avvia la propria azienda vinicola in zona Bramaterra e, nel 2007, impianta anche un ettaro di spanna a Lessona (il vigneto Pizzaguerra). Dal 2010 l’azienda è curata dal figlio di Carlo, Giacomo Colombera, coetaneo della sua stessa azienda, e da Cristiano Garella, fu enologo presso le Tenute Sella.

 


E affrontiamo dunque questo Lessona, il quale prima di corrermi incontro si è avvalso, dopo la fermentazione, di un paio di anni di affinamento in tonneaux di 2° e 3° passaggio e un periodo, successivo all’assemblaggio, di qualche mese in vasca di cemento, per rilassare le membra prima dell’imbottigliamento.

Il colore nel calice è una luminosa via di mezzo tra un rubino e un granato.

Al naso è carico di sfumature che vanno dal floreale di viola mammola al fruttato (fragoline di bosco e ciliegie appena mature), allo speziato (pepe nero e cannella). C’è la radice di liquirizia, humus, ematicità e sentore di cenere, con un sottofondo balsamico che ricorda il legno di sandalo.

In bocca è secco, con una sensazione amaricante tenue e costante, sensazione che chiede a gran voce un abbinamento mangereccio. Vino fresco, di medio corpo, sapidità discreta e con un tannino dosato perfettamente e di ottima qualità. 

Caratteristica fondamentale è una maledetta bevibilità: questo vino chiede a gran voce un altro sorso, e poi un altro ancora, è sorprendentemente facile finire la bottiglia. E devo ammettere che, per quanto abbiano un fascino magnetico, non è sempre facile bere vini a base nebbiolo. Invece questo Lessona su una tavola apparecchiata si mostra agile ed accattivante come un cucciolo di puma (ma che diavolo di paragone ho appena fatto?).

Volete un accostamento vino-basket? Tanto decido io, ve lo beccate anche se la risposta fosse “no” (che poi come fate a dire no al basket? Che concetto di bellezza avete?). Il Lessona DOC mi ricorda tanto Chris Paul, un playmaker elegante ed efficace come pochi altri. Il buon Chris ha avuto un inizio di carriera da predestinato, prima a New Orleans poi soprattutto a LA, sponda Clippers. Gli anni e la mancanza di titoli NBA hanno deviato la luce dei riflettori dal suo corpicino. Eppure, in ogni squadra dove è successivamente andato, bollato ogni volta come giocatore ormai alla frutta, ha mostrato carattere e regalato cioccolatini liquorosi (leggi “assist”) ai fortunati compagni di squadra. Oggi, a 36 anni, è a Phoenix e sta per andare ai playoff NBA. Phoenix, che mancava la post-season dal 2010, mentre Chris Paul ci soggiorna abitualmente dal 2011. La sintesi di questo parallelismo? Il talento, anche se fuori dalla luce dei riflettori, non scompare; fortunati quelli che, in tempi di ridotta visibilità, ne beneficiano comunque. Come le squadre dove Chris Paul finisce a giocare e come i calici dove finisce un Lessona DOC.




Kornell – Alto Adige Pinot Nero DOC “Marith” 2019

 

Sete. Una gran sete. Il lascito delle recenti festività pasquali ha lasciato come strascico una discreta sete. E sì che non ci siamo fatti parlare dietro con le bottiglie, ci mancherebbe. Però, dopo un po’, il vino importante, ricco, corposo, non viene accolto con la stessa gioia. Per dirlo alla romana: stucca. E ciò che resta è la voglia di bere un bicchiere di vino sì buono, sì sfaccettato, ma più beverino, più amichevole.

Fortuna vuole che un gentil corriere recasse seco un pacco dell’ottima enoteca online atuttovino.it; un pacco contenente il vino in oggetto. Magnifico, grazie ragazzi.

L’Alto Adige è il porto sicuro di chi vuole bere buon vino e senza svenarsi. Preponderante sul mercato è il loro fantastico sistema di cantine sociali, dove l’uva viene pagata ai viticoltori non in base al peso ma in base alla qualità, permettendo la produzione di ottimi vini a prezzi contenuti. Ma non di sole cantine sociali vive il Südtirol, c’è anche chi fa tutto in proprio: pianta le viti, le pota, le vendemmia, pigia l’uva, assiste alla fermentazione, affina, imbottiglia, etichetta, impacchetta, vende e poi si deve anche sentir dire “beato te che lavori nella natura”.

Uno di questi pazienti esseri umani (perché solo se sei paziente puoi fare il vignaiolo) è Florian Brigl, il quale nel 1996 decide di farsi carico della tenuta di famiglia. Ah, nel ’96 Florian aveva 21 anni. Io, a quell’età, vaneggiavo ancora di un possibile incremento di minutaggio (leggasi = entrare in campo per almeno 5 minuti) nella mia squadra di basket nel campionato CSI laziale; Florian assumeva la direzione di una tenuta di 15 ettari. Inizialmente proseguono la loro attività di conferitori, per poi decidere nel 2001 di vinificare ed imbottigliare totalmente in proprio. Nel 2001 Florian ha 26 anni. Vogliamo esser cattivi e continuare il paragone tra me e il buon Florian su base anagrafica? No, ecco, bravi.

 


Il “Marith” è un vino DOC 100% pinot nero, o blauburgunder come viene chiamato in Südtirol. Le uve provengono dai terreni ricchi di porfido della tenuta Kornell, in località Mazzon e Caldaro, a 250 m s.l.m. su pendii esposti ad ovest. La sua lavorazione prevede fermentazione in botte grande ed affinamento per 6 mesi nel medesimo contenitore. 

Il vino nel calice è di un rosso rubino brillante, di colore scarico ma di trasparenza cristallina. 

Appena stappato il naso è un po’ burbero, prevalentemente terroso e con una punta di selvatico. Dategli qualche momento, in fin dei conti l’avete svegliato, ci sta che non abbia voglia di parlare con nessuno. Passano pochi minuti ed è tutta un’altra musica: amarena, fragoline, tanti lamponi, uno splendido sentore di rosa, nota ematica e di pietra focaia, intensa speziatura (pepe rosa, cumino ed anice stellato); verso il finale si percepiscono cenni di liquirizia e di polvere di caffè.

La bocca è prevedibilmente fresca, leggiadra, con un piacevole sentore amaricante bilanciato dal sapore fruttato e leggermente speziato del vino. Buona persistenza, un vino di enorme facilità di beva.

 


Vallana – Boca DOC 2016

 

Fino a due anni fa se avessi sentito la parola Boca avrei pensato istantaneamente ad una cosa ed una soltanto: Boca Juniors. Il meraviglioso club argentino di football, di casa alla Bombonera di Buenos Aires, dai colori delle magliette azul y oro (e che sia sempre benedetta la Drottning Sophia, nave battente bandiera svedese entrata in porto a Buenos Aires nel 1907, proprio quando i genovesi fondatori del club erano alla ricerca di un’ispirazione cromatica per le loro divise). 

Poi, reso edotto sugli affari del vino, apprendo che Boca è anche una DOC dell’alto Piemonte, nel novarese, in una zona che a inizio ‘900 era densamente vitata (si parla di circa 40000 ettari): esiste una foto aerea degli anni ‘30 del Santuario del Santissimo Crocifisso di Boca completamente circondato da filari di vite. 

La situazione attuale invece parla di 700 ettari vitati, l’1,75% rispetto agli anni d’oro della viticoltura in zona. 1,75%. Scattata oggi, la foto aerea dello stesso Santuario ritrarrebbe per lo più boschi.

Lo spopolamento delle campagne avvenne nel secondo dopoguerra, quando la prospettiva di uno stipendio fisso, gentilmente elargito dalle grandi fabbriche che sorgevano qua e là nel biellese e nel novarese, vinse contro l’ombra, seppur bucolica, della fame. Dagli torto, poveri contadini.

Il ripopolamento, per così dire, dell’areale del Boca DOC avvenne attorno agli anni ’90 dello scorso secolo, grazie anche agli investimenti di Christoph Künzli (Azienda Le Piane), i quali hanno acceso qualche riflettore sul territorio. Piano piano questa luce ha illuminato anche chi già esisteva in zona e lavorava la vite secondo il tradizionale sistema di allevamento: la maggiorina.

Si tratta di un sistema che prevede la piantagione di tre o quattro viti praticamente nello stesso punto, con i capi a frutto diretti verso i quattro punti cardinali, ancorati a dei sostegni. Dice “e perché mai questo sistema, a dir poco bizzarro”? Siccome a tutto c’è un motivo, con i terreni scoscesi tipici della zona, ricchi di scheletro granitico e di porfido rosa, morenici e vulcanici e a pH molto acido (circa 4,5), se ci fossero stati dei semplici filari il vento che spesso soffia forte da quelle parti avrebbe potuto danneggiare le piante. La maggiorina invece, con un filare ogni 90 gradi, permetteva comunque anche in condizioni di vento forte di salvare almeno parte del raccolto. Certo, lo svantaggio è che le piante possono essere curate solo manualmente, senza meccanizzazione, ma questo oggi è un punto fondamentale per la percezione della qualità di un vino (e tanto chi lo beve mica fa su e giù per la vigna a rovinarsi la salute).


Il Boca DOC Vallana è composto per il 70% da spanna (nome del nebbiolo in alto Piemonte), il 20% da vespolina e il 10% da uva rara. Le uve, vendemmiate separatamente, fermentano in grandi contenitori di cemento, per poi andare a soggiornare un paio di anni in botte grande. Altri 1-2 anni di bottiglia completano poi la fase di affinamento.

Nel calice il Boca DOC 2016 di Vallana è di colore rosso rubino, abbastanza trasparente e con presenza di residuo (non è un difetto).

 Il profumo è ricco, di violetta, amarena croccante, lampone e prugna matura, di spezie (cardamomo, chiodo di garofano e pepe rosa), di ruggine, china, liquirizia e cenere.

La bocca si distingue per una notevole sensazione fruttata, una grande aromaticità che caratterizza l’intera durata del sorso. Al palato è fresco, con tannino molto percepibile (è un giovanotto ancora questo vino) ma dalla grana fine, sapidità decisa, di notevole intensità e lunga persistenza. Tutte queste caratteristiche suggeriscono un abbinamento con cibi succulenti e dal sapore deciso, tipo arrosti o brasati; insomma, ciccia.