François Chidaine – Vin de France “Le Chenin d’Ailleurs” 2017

Ogni vitigno ha il proprio tratto distintivo. Quello dello Chenin Blanc è la freschezza. La quota di acidi fissi presente nello Chenin Blanc lo rende paragonabile ad un'altra uva piuttosto pungente, il Riesling. Uva cui, c'è da dire, lo Chenin paga qualcosina in termini di aromaticità e di complessità globale. Ma non tutti possono essere dei fuoriclasse, e neanche c’è nulla di male ad essere un role player. Nell'ottica di una bevuta all'insegna della freschezza, infatti, lo Chenin Blanc è non solo indicato, ma fortemente consigliato.

Zona di elezione dello Chenin Blanc è la valle della Loira, dove i viticoltori lo fanno cantare e gli fanno portare la croce; voglio dire che, date le sue caratteristiche, in Loira viene vinificato in ogni modo possibile: dallo spumante al vino secco, passando per l'amabile e concludendo con il passito dolce, meglio ancora se la botrytis fosse andata a dargli una carezza. C'è un altro posto del mondo dove lo Chenin Blanc ormai fa gli onori di casa, anche se non agli stessi livelli della Loira: il Sudafrica, dove viene chiamato Steen e dove fu portato dagli ugonotti francesi quando si videro esibire dal Re Sole il rosso diretto.

Ma torniamo in Francia, patria della bottiglia che ho aperto. La bottiglia in questione, insieme ad altre, credo, migliaia di sue consorelle, è opera di François Chidaine. Chidaine è uno zen master dello Chenin Blanc. Dal 1989, anno del suo esordio tra i filari di vite, ha cominciato ad acquisire terreni presso la Loira e a lavorare in tutte le maniere quest’uva. Oggi viticoglie (neologismo mio. Ho il copyright) e vinifica seguendo i precetti della biodinamica le sue decine di ettari vitati a Chenin Blanc, più altri ettari di diverse cultivar di cui non ci occuperemo quest’oggi, e direi neanche entro la prossima settimana.

 


Lo “Chenin d’Ailleurs” 2017 è etichettato come Vin de France, quindi diciamo che ci fidiamo sia della Loira. La scheda tecnica del vino poi non mi rincuora: essa afferma che le uve provengono da tre diversi terroir: oceanico, mediterraneo e montagnoso (de la Haute Vallée). Ora, sull’oceanico e sull’alta valle della Loira ci sto tranquillamente; sul mediterraneo, diciamo che non mi faccio persuaso. Più lontano dal clima mediterraneo della valle della Loira credo ci sia solo il Vallo di Adriano. Ma dato che lo Chidaine mi conosce la zona e mi ci lavora, mentre io avrei solo aperto una sua bottiglia, ho il tacito obbligo di dare ragione a lui.

Le uve, raccolte in questi tre diversi terroir, sono state pressate sul posto; quindi i mosti sono stati refrigerati e spediti entro 24 ore alla cantina di Chidaine a Montlouis-sur-Loire per l’assemblaggio e la fermentazione, ovviamente spontanea, avvenuta in botti dette demi-muids da 600 litri. Il vino è successivamente andato in contro ad un affinamento sulle fecce fini per 11 mesi prima della messa in commercio e del seguente arrivo, via Perugia, a casa Fiordiponti.

Stappato e versato nel calice, lo “Chenin d’Ailleurs” si mostra di un giallo paglierino carico, con una sorta di riflesso rosa quando viene versato. Lo ho versato spesso e sotto diverse luci, naturali ed artificiali: confermo la presenza del riflesso rosa.

Naso intenso, che alterna note minerali, floreali e fruttate: si va dalle pietre bagnate a fiori bianchi e delicati, come acacia o biancospino, a frutta a pasta bianca croccante, pera e pesca bianca principalmente, accompagnate da un deciso sentore di limone. Importante è la nota di crosta di pane, segno che il riposo sur lie ha lasciato piacevoli strascichi.

La bocca è prevedibilmente molto fresca, intensa e con una buona sapidità. Ovviamente la bilancia è spostata sulle componenti dure del sorso, ma non si può definire affatto fuori equilibrio. È uno Chenin Blanc, dobbiamo settarci sul suo sistema gravitazionale. Il fatto che abbia grande bevibilità, unita a intensità gustativa e notevole persistenza, indica che il vino un equilibrio lo possiede e tutto fa supporre che saprà anche mantenerlo nel corso del tempo. 

Domaine des Marrans – Fleurie AOC 2015


Beaujolais. Per i non studiati è un nome intrigante, di quelli che non puoi tradurre dal francese (cosa che non si applica a Borgogna, Alsazia o Loira) e dunque ha fascino. Mai vista dal vivo una bottiglia, ma “sai che storia se ne portassi una a una cena?”. Poi qualcuno magari ha voglia di studiare, segue un qualsiasi corso sul vino, ed incontra di nuovo il Beaujolais. E però qui cambia la prospettiva. Si apprende che il Beaujolais è solo una parte della Borgogna. E che è la parte meno ‘nobile’. E che è famoso per il vino novello. E che la considerazione del Beaujolais nel panorama borgognone è più o meno quella goduta dall’Italia al Trattato di Versailles del 1919. I meno coraggiosi qui riporranno le loro pive nel sacco ed andranno avanti narrando degli splendori della Côte de Nuits e delle sue differenze con la Côte de Beaune (possibilmente senza aver mai bevuto un Borgogna), spedendo il poro Beaujolais nel dimenticatoio.

Io due o tre difetti me li attribuirei anche, ma certamente non pre-giudico i vini. Non battezzo un vino dopo aver letto la denominazione, senza neanche provare ad assaggiarlo. Non sono facile al condizionamento: versiamo il vino nel bicchiere, assaggiamo e poi magari se ne parla. E con questo spirito ho accolto il consiglio di Sara Boriosi su questo Fleurie, uno dei cru del Beaujolais. 

Il terreno del Beaujolais è prevalentemente acido, caratterizzato dalla notevole presenza di granito rosa, dall’ottima capacità drenante. Le viti per la maggior parte sono potate a gobelet, il nostro alberello. Il vitigno simbolo della zona è il Gamay, un’uva che adora i terreni acidi, acida e con un discreto tannino, di sicuro penalizzata dalla presenza del despotico vicino di casa, il Pinot Noir, ma che ha un suo motivo d’essere. 

Una cosa su cui sono pronto a scommettere è che i beaujoliani (non so se si dice, ma fa niente) siano in fissa con la CO2. Se vi domandate cosa c’entra la carbonica oltre al già citato Beaujolais Noveau, vi accontento subito: nella zona è molto in voga la macerazione semi-carbonica. Spiegata in maniera bruta: si rovescia l’uva in un contenitore, grappoli interi non diraspati, e lo si chiude ermeticamente; il peso dell’uva fa fuoriuscire un po’ di succo dagli acini; questo succo entra a contatto con i lieviti delle bucce e comincia a fermentare; la fermentazione, classica, produce CO2; il contenitore comincia piano piano a saturarsi di CO2, la quale allarga le maglie delle bucce e permette ai lieviti di godere del succo all’interno degli acini e fermentare a sua volta. In sostanza si alternano fermentazione classica e macerazione carbonica, con tutto il bagaglio olfattivo e la notevole estrazione di colore dalle bucce che quest’ultima fermentazione genera. Il tutto viene protratto per qualche giorno, poi il vino prosegue con una macerazione classica, con due/tre settimane di contatto vino/bucce. Il Gamay ha una spiccata acidità e un briciolo di macerazione carbonica contribuisce ad ammorbidirne la componente acida (l’acido malico viene utilizzato dalle cellule dell’uva per continuare la produzione di energia in ambiente anaerobico). E con questo finisco la lezione di chimica e passo al vino, prima che partano i fischi di disapprovazione.

 


Il Fleurie 2015 di Domaine des Marrans nel calice è un inchiostro, una china. Un rosso rubino molto profondo, non nel senso della compattezza del liquido ma proprio nell’intensità della tonalità. 

Il naso è molto interessante: ciliegia sotto spirito, fragole mature e frutti di bosco, rosa canina e violetta, carne cruda, tante spezie dolci (chiodo di garofano, noce moscata, una leggera vaniglia), decisa nota tostata di caffè, scatola di sigari, cuoio, una bella balsamicità mentolata, sul finale si affacciano polvere da sparo e sottobosco fungino (sì, ho scritto sugli appunti sottobosco fungino). Un naso molto complesso.

Ecco, la bocca è un discorso a parte. Assaggiato appena stappato l’impressione è stata incerta: un sorso durissimo, ho percepito molto tannino e acidità, poca morbidezza e poco allungo. L’ho lasciato nel calice buono buono e ci sono tornato dopo un’oretta: un’altra cosa. La morbidezza finalmente si percepisce, il tannino e l’acidità sono moderati, il vino acquista molto in termini di slancio e succosità, con la persistenza che si fa apprezzare e che chiude su toni di frutti rossi.

Mi sono chiesto come mai il primissimo sorso fosse così duro. Per quanto ne sappia io, tannini ed acidi fissi non scompaiono ossigenando il vino, o meglio i tannini sono sì antiossidanti ma non possono eclissarsi dopo un’ora di calice, mica abito in una camera iperbarica. Fatto sta che, domandando domandando, la bottiglia è bella che finita, confermando che il Beaujolais sarà pure il cuginetto sfigato della Borgogna, ma scende agile come Lindsey Vonn.

Gruss – Vin d’Alsace Gewurztraminer AOC “Les Roches” 2018

L’Alsazia, per molte persone non eno-malate, vuol dire una cosa sola. Anzi, forse due. La seconda sono i bastoncini fragranti ricoperti di granelli di sale; quelli che all’aperitivo, confusi tra centinaia di altri stuzzichini, nessuno vede ma tutti mangiano. Sono sempre i primi a finire, come le crudità di mare ai buffet, ci si può scommettere la via di casa.

La prima cosa per cui l’Alsazia è nota universalmente è una frase, quasi un concetto: “l’Alsazia e la Lorena sono contese per oltre un secolo da Francia e Germania”. Una frase che, se detta con la giusta baldanza, garantiva un 6 sicuro all’interrogazione di storia alle scuole medie. Sono pressoché certo che però pochi sappiano individuare sulla cartina dove si trovino queste due regioni (in tedesco: Elsaß-Lothringen; in francese: Alsace-Lorraine). Prima del corso sommelier io era tra color che non le avrebbero trovate nemmeno col ditino sulla mappa. Poi arrivò una delle due lezioni sulla Francia, e con essa l’Alsazia, accompagnata da alcune nozioni che spiegano perché lì non solo si faccia del vino, ma si faccia del gran vino.

 

L’AOC Alsace è una striscia di terreni vitati perlopiù collinari, che si estende da nord-est a sud-ovest, nella porzione più orientale della Francia, stretta tra la piana del Reno ad est e la catena dei Vosgi ad ovest. Sono questi ultimi che i viticoltori alsaziani devono ringraziare: i Vosgi proteggono le viti dal tremendo vento freddo proveniente dall’entroterra francese e dalle abbondanti piogge. Ciò fa sì che il clima di questa regione sia continentale secco, con una temperatura media di 1 o 2 °C superiore rispetto alle altre zone a parità di latitudine. Il terreno alsaziano è inoltre incredibilmente vario: si va da suoli di origine sedimentaria verso fondo valle (calcare, marne) a zone caratterizzate da rocce plutoniche e metamorfiche (granito, scisti, gneiss) risalendo lungo i pendii dei Vosgi. Insomma, ci sono tutte le basi per fare della viticoltura di qualità, come in effetti avviene.

Uve simbolo dell’Alsazia sono Riesling, Pinot Gris, Muscat e Gewurztraminer, uve bianche con un importante profilo aromatico, una caratteristica più associabile alla viticoltura teutonica che a quella francese. La bottiglia aperta e gioiosamente sorseggiata è proprio il Gewurztraminer (senza la ü, nonostante la parola sia completamente tedesca. Ah, i francesi…) “Les Roches” 2018 di Gruss.

 



Il Domaine Joseph Gruss ha sede a Eguisheim, uno splendido borgo collinare poco distante da Colmar. Il suolo di Eguisheim è Munschelkalk, che dal tedesco può essere grezzamente tradotto come ‘calcare con presenza di conchiglie’: è un duro terreno calcareo di origine sedimentaria, dove la vite cresce deliziosamente.

Il Gewurztraminer di Gruss viene vinificato in acciaio a temperatura controllata e affina sur lie per circa 4 mesi prima di essere filtrato ed imbottigliato nelle tipiche bottiglie alsaziane. Questa 2018, levato il sughero, cade solida nel calice, mostrandosi di un giallo paglierino chiaro. 

Il naso è intenso, con le tipiche note del Gewurztraminer dipanate in tutto il loro didattico splendore: litchi, acqua di rose e frutta esotica, alle quali si aggiungono cedro candito, biscotto al miele, mandorla fresca e cera d’api. 

L’ingresso in bocca è chiaramente abboccato, costeggiando quasi la dolcezza. Il sospetto viene già versandolo nel calice o roteando quest’ultimo: si nota molto bene la consistenza importante del liquido. Immediatamente però, oltre alla dolcezza, si avverte anche un chiaro sentore amaricante, dovuto alla pletora di terpeni lautamente elargiti dall’uva in questione (ho usato un lessico da avvocato; perché mai?). Ulteriore dominante orale è la morbidezza, altro indice del residuo zuccherino, di buon livello è la sapidità, mentre appare molto attenuata la freschezza. Il gusto è molto intenso e con un finale di bocca lunghissimo e piacevole.

Rileggo quello che ho scritto: il vino potrebbe apparire stucchevole, molle, in verità non lo è affatto. La freschezza è sì in secondo piano, ma c’è e contribuisce a dargli una buona beva.

Se ve ne accaparraste una bottiglia, tenete conto delle caratteristiche ‘estreme’: tanto naso, tanta intensità, dolcezza evidente e freschezza moderata. L’abbinamento con i piatti della nostra cucina è quantomai ostico, richiede piatti dai sapori altrettanto ‘estremi’. Per abbinarlo con successo il mio consiglio è di dirigervi a oriente, a Mumbai magari: con i piatti della cucina indiana si può realizzare l’abbinamento perfetto. Altrimenti bevetevelo assoluto e tante care cose! 

La degustazione di Parigi del 1976 (seconda parte)

Dunque, dove eravamo rimasti? Eravamo, anzi siamo  al pomeriggio del 24 maggio 1976, a Parigi. Siamo nell’Intercontinental Hotel ed è in corso la degustazione celebrativa del bicentenario della rivoluzione americana. I nove giudici più Steven Spurrier e Patricia Gastaud-Gallagher sono seduti al tavolo e si vedono finalmente servire i dieci vini bianchi, sei Chardonnay californiani e quattro borgognoni. 

Ecco, questo è il momento esatto in cui l’antico castello, costruito sul dogma dell’irraggiungibilità dei vini francesi, comincia a sgretolarsi. Il paradosso è che, come tutte le sciagure più grandi, avviene in un clima festoso e ridanciano. Perché, come immagino sappiate, i francesi sono dei campioni nel fare, per l’appunto, i francesi. Il caso ha voluto però che in sala fosse presente anche un giornalista americano; e gli americani, se vogliono (e lo vogliono. Oh, se lo vogliono) riescono ad essere più francesi dei francesi. Di conseguenza il buon George Taber, dato lo scarso apporto emozionale che una degustazione di vini fornisce allo spettatore, appunta diligente qualsiasi commento dei giudici, segnando anche il vino destinatario del commento, che hai visto mai che… 

Photo by Bella Spurrier

Difatti i commenti arrivano. Due perle svettano alte: “Questo è sicuramente californiano: non ha naso”, dice un giudice riferendosi a un Batard Montrachet del 1973, un Grand Cru che gli almanacchi localizzano in Borgogna; e il migliore: “Oh, siamo tornati in Francia”, pronunciato con patriottica sicumera; peccato che il vino fosse uno Chardonnay californiano del 1972. Ovviamente, essendo una degustazione alla cieca, i giudici non potevano sapere le cantonate che stavano prendendo (e questo vi sia di lezione: non fate gli smargiassi durante le degustazioni alla cieca). Essi sentenziavano forti del retaggio culturale che i vini migliori non potevano che essere francesi, ma senza alcun dubbio, ma figurati, ma ti pare, oh, sbuff


Finita la batteria dei bianchi fu la volta dei vini rossi. Ma prima di cominciare Steven Spurrier annunciò i risultati della prima degustazione. La media dei voti dei nove giudici (Spurrier e la Gallagher non entrarono nei conteggi) avevano decretato un vincitore: Chateau Montelena 1973. “Mai sentito questo Chateau. Ma di che zona della Borgogna è?”. Napa. California. 

Sì signori, un vino americano aveva messo in fila tre Premier Cru e un Grand Cru di Borgogna.

Fonte: Wikipedia

Time out. A Parigi il clima è infame. Non come quello craxiano di Tangentopoli, ma ci andiamo vicino. Dato che non c’è neanche mezza collina a far da barriera, qualsiasi perturbazione penetra indisturbata. Voi girate per le vie di Parigi con il sole e, ad un tratto, il cielo si copre e butta giù un’acqua torrenziale. Senza preavviso, senza galanteria: apre il rubinetto e ti fa la doccia.

Ecco, il clima in quella sala dell’Intercontinental Hotel, dopo la proclamazione del primo vincitore, me lo immagino così. Cupo. Grigio. La cordialità e l’allegria di prima sono andate scemando. Si poteva captare la slavina che cominciava a scendere giù dal pendio. E forse l’aveva percepita anche Taber. Magari non si intendeva di vini, ma il sottile disagio fra i giudici lo captava bene. Ricorda come questi, durante la batteria dei rossi, fossero assai meno briosi e ben determinati a far sì che questa volta trionfasse un rosso francese. Perché va bene essere amici, fratelli e quant’altro, ma non potevano permettere che gli americani, praticamente inesistenti sulla mappa del vino redatta dai francesi, mettessero in fila vini così blasonati. Non si poteva perdere 2-0 in casa propria, una squadra di all-star contro degli sconosciuti. Un solo problema: anche i dieci vini rossi erano serviti alla cieca; valli a trovare tu i quattro moschettieri francesi lì in mezzo.

Un necessario reminder: tutto questo non era nato come competizione Francia – USA, ma era soltanto una degustazione conoscitiva dei vini californiani, organizzata per festeggiare il bicentenario della rivoluzione americana. 

Un’amichevole stava diventando la finale dei mondiali.

Photo by Bella Spurrier

Fine del time out, i vini rossi vengono serviti, i giudici sono più concentrati e tesi. Sono anche più severi: Odette Kahn giudicò tre vini, che aveva certamente intuito fossero di provenienza oltreoceanica, con un 5 e due 2, cioè poco più che bevibili; l’acqua di risciacquo delle barriques. La Kahn poi, a fine serata, chiederà anche indietro le sue votazioni, che per piacere non venissero considerate, non venendo accontentata: aveva chiaramente visto l’impatto della slavina sul vino francese e mondiale (accezione all’epoca intercambiabile), propagato dalla presenza dell’unico giornalista sulla scena del crimine che, ahiloro, era americano. E che non si era perso un singolo sguardo di quel pomeriggio.


Immagino abbiate già intuito l’esito della degustazione dei vini rossi, ma per completezza ve lo riporto: Stag’s Leap Wine Cellars, from Napa, California, risulta il vincitore lasciando dietro di sé di un nonnulla Château Mouton-Rotschild e più staccati Château Montrose e Château Haut-Brion. Gli americani fanno due su due. Davide ha battuto Golia.

Fonte: Wi.Nes of Nesli

George Taber, il primo ad intuire la portata dell’evento, sfrutta il privilegio di essere l’unico giornalista presente telefonando prima di tutto ai vignaioli vincitori, che come è giusto urlano di gioia per un avvenimento nemmeno vagamente ipotizzabile. In seguito insiste parecchio con il Time per vedersi pubblicato il pezzo: saranno quattro paragrafetti infilati nel numero del 7 giugno. Quattro paragrafi che daranno fiducia ad un esercito di viticoltori da tutto il mondo, che “se ce l’ha fatta un Cabernet californiano, allora posso anche io dire la mia con il mio Cabernet argentino / cileno / australiano/ ecc.”. Infine monetizza il tutto scrivendoci pure un libro (che non ho letto), Judgement of Paris, che funge da soggetto per un film, Bottle Shock (che non ho visto, e che pare romanzi fin troppo questa storia).


E gli altri? Come abbiamo visto, qualcuno dei giudici già intuiva che la portata dell’evento non si sarebbe limitata a “Hai visto ‘sti vini americani? Mannaggia aho… Parliamo di cose serie, dove andiamo a cenare?”. Me li immagino uscire dall’Intercontinental Hotel con il capo, non voglio dire basso, ma comunque con più suolo che cielo negli occhi. 

Quando la notizia si diffuse a molti di loro venne chiesto di rassegnare le dimissioni, in quanto accusati di incompetenza o di aver ridicolizzato la Francia agli occhi del mondo; perfetto è stato Paolo Conte: “e i francesi che s’incazzano / e ancora non ce la perdonano”. Aubert de Villaine disse a Steven Spurrier che il tasting di Parigi fu un “calcio nelle… gonadi della Francia”. Comprensibile ma piuttosto esagerato: dalla degustazione non ne è uscita sconfitta la Francia, quanto piuttosto ha ottenuto pari dignità il resto del mondo. 

Fonte: Wikipedia

Ah già, il buon Steven Spurrier. Che fine ha fatto colui che agli occhi dei francesi ha allestito loro una sfarzosa trappola, dove questi sono entrati danzando a passo di can-can? Diciamo che tra il 1976 e ’77 non ha avuto vita facilissima fra gli addetti ai lavori. Quando era nei paraggi le cantine chiudevano i loro portoni come neanche ai tempi dell’invasione nazista. “No, si deve essere sbagliato, qui nessuno di noi fa vino”. “E le viti piantate qui fuori?”. “Legna per la stufa. Vada via, maledizione!”. Poi gli animi pian piano si calmarono e lui poté crescere e prosperare, fino a diventare uno stimato wine consultant e contributore per Decanter. (*)

Fonte: Esther Mobley, Twitter account

Patricia Gastaud-Gallagher non riuscì a beneficiare della stessa fama, ancora oggi molte volte il suo nome viene omesso quando questa storia viene raccontata. Non ci si scordi che fu lei ad assaggiare per prima quei vini e ad avere l’idea della degustazione commemorativa. L’esito della degustazione la rattristò parecchio, poiché la sua intenzione non era affatto ingannare e mortificare le personalità invitate. Purtroppo non riuscì a prevedere quanto potere potesse avere il quarto potere (chiedo perdono a chi scrive decentemente per le orrende ripetizioni). La Gallagher restò comunque a Parigi, dove tuttora vive, e continuò ad occuparsi di vino, fino a diventare direttrice della sezione dedicata al vino della scuola Le Cordon Bleu.

Fonte: Time Magazine

I giudici, nonostante l’”onta” del loro operato, non patirono tribolazioni. Nessuno si buttò nella Senna con una pièce al collo, nessuno si dimise dalla propria carica per occuparsi di entomologia forense, nessuno espiò la propria colpa masticando ogni giorno 20 chicchi di Tannat. Alla fine le acque si chetarono e la degustazione rimase solo un ricordo spiacevole. Resta il fatto che il loro nome sarà per sempre legato a questo evento: il momento che segnò l’emancipazione del mondo vitivinicolo dalla sottomissione e dalla sudditanza psicologica verso l’enologia francese. Oppure, magari senza epica retorica, il giorno in cui il vino regalò una sorpresa per essere stato giudicato solo in base alle sue qualità.



(*) Siccome un finale comico lo meritavate, dopo tutto questo leggere, eccovelo servito: nel 1988 i francesi premiarono Steven Spurrier. Sì. Le Personalite de l’Annee (Oenology). La motivazione? Pronti? “Per i servigi resi al vino francese”.

Sipario.

La degustazione di Parigi del 1976 (prima parte)

 I momenti spartiacque della storia esistono, momenti che tracciano un segno distintivo, un ‘prima’ e un ‘dopo’. Che sia un avvenimento pianificato o pura serendipità, il risultato è comunque un mutamento degli equilibri precedenti. Di esempi nella storia ce ne sono migliaia: la scoperta della penicillina di Alexander Fleming, lo sbarco in Normandia o, più in piccolo, il passaggio di Babe Ruth ai New York Yankees.

Nel mondo del vino i momenti spartiacque ci sono, anche se meno roboanti o epici. Eppure ogni tanto qualche bella storia scappa fuori. E una bella storia vale sempre la pena di essere raccontata.

Fonte: Wikipedia

Lunedì 24 maggio 1976, Parigi. Primo pomeriggio. Undici persone stanno entrando all’Intercontinental Hotel, zona Opera. Sono ben vestite e ben pettinate, sanno che dovranno assaggiare e giudicare venti vini, californiani e francesi e, cosa fondamentale, alla cieca. Qualche ora dopo, quando usciranno dall’hotel, il mondo del vino non sarà più lo stesso. 

Tra le undici persone figurano Steven Spurrier, britannico, all’epoca enotecario a Parigi e proprietario dell’unica scuola privata in materia di vino in Francia, l’Academie du Vin, e la sua collega, il personaggio fondamentale per questa storia: Patricia Gastaud-Gallagher, americana del Delaware. 

Fonte: americanhistory.si.edu

Con il passare del tempo questa storia è diventata straordinaria, ma le premesse erano tutt’altro che le fondamenta di una leggenda. La volete breve breve? Spurrier e la Gallagher avevano sentito parlare di alcuni ottimi vini americani ma, essendo la viticoltura americana degli anni ’70 ancora in fase embrionale (300 aziende scarse, contro le oltre 3000 attuali), non esistevano importatori di tali vini. I pochi che arrivavano a Parigi erano di livello discutibile. La voce che nella Napa Valley accadessero cose meravigliose era però un tarlo continuo nella testa di quei due. 

Così successe che nel 1975 la Gallagher volò verso San Diego per andare a trovare sua sorella e, già che c’era, fece un bel giretto per le cantine della Napa Valley. Tornata a Parigi, rese edotto della faccenda Spurrier: “Steven, in California ci sono aziende che, Zinfandel a parte, fanno davvero degli ottimi vini, non quella robaccia che arriva qui a Parigi. Sai che potremmo fare? Organizzare per l’anno prossimo una degustazione di questi ignoti vini americani per celebrare il bicentenario dell’indipendenza degli USA. Che ne dici?”. Steven: “Dico che voi americani ci state in fissa con ‘ste celebrazioni… Però l’idea mi piace, appena posso ci faccio un salto da quelle parti”. “Ma sì Steven, tanto andando da Parigi a Londra sta di strada”.

Napa Valley, Stag’s Leap District
(Fonte: touringandtasting.com)

In realtà nell’aprile 1976 Spurrier andò davvero per cantine nella Napa Valley, e davvero trovò che quei vini erano non solo buoni, erano di alto livello. Fu a quel punto che si concretizzò l’idea della degustazione celebrativa. Sei cantine selezionate per i vini bianchi da Chardonnay e sei cantine per i vini rossi da Cabernet Sauvignon, tutte californiane. L’idea di Spurrier e Gallagher era far assaggiare alla cieca i vini di queste dodici cantine sconosciute a nove personalità di spicco dell’enologia francese. Ve li metto in lista:

Pierre Brejoux, ispettore generale dell’Institute National de l’Origine et de la Qualité

Claude Dubois-Millot, del ristorante Gault-Millau

Michel Dovaz, dell’Institut du Vin

Odette Kahn, editrice de La Revue du vin de France

Raymond Oliver, chef e proprietario del ristorante Le Grand Véfour

Pierre Tari, proprietario dello Chateau Giscours

Christian Vanneque, sommelier del ristorante La Tour D'Argent

Aubert de Villaine, proprietario del Domaine de la Romanée-Conti

Jean-Claude Vrinat, proprietario del  ristorante Taillevent 

Photo by Bella Spurrier

Un discreto parterre de roi per una degustazione in onore della rivoluzione americana con vini americani. Me li immagino i giudici quel giorno di maggio del 1976: rilassati, forse annoiati, se vi dice bene incuriositi da questi vini che “sì dicono essere buoni, ma comunque non al livello della nostra viticoltura, l’unica, straordinaria, normalissima, vicina e irraggiungibile, inafferrabile, incomprensibile (cit.)”. Sfortunatamente i poveretti erano ignari che un paio di settimane prima il diavolo si era impossessato di Steven Spurrier, facendogli compiere due azioni che avrebbero mutato il corso della storia. 


La prima azione: dato che questi vini sono di livello, perché non mettere nel calderone anche quattro vini francesi per tipologia, magari di quelli costosi, magari Premier e Grand Cru? Quattro bianchi di Borgogna e quattro rossi di Bordeaux? Così, per un divertente confronto tra esperti, per confrontarne la qualità rispetto ai vini ritenuti i migliori sul mercato.

La seconda: perché non chiamare anche qualche giornalista per dare visibilità a questo confronto enologico tra vecchio e nuovo mondo?


Lo vedete anche voi il distacco del mucchio di neve? L’embrione della slavina? Un pacifico assaggio di vini californiani sta prendendo i connotati di una sfida tra vini americani e francesi. I punteggi che sarebbero stati assegnati (da 1 a 20 per ogni vino, senza un criterio uniforme, a giudizio del singolo degustatore) avrebbero ora dato vita ad una classifica. La classifica avrebbe decretato un vincitore per ogni categoria, bianchi e rossi. E se vincesse un vino americano? E se vincessero gli americani in entrambe le categorie?

L’ancien régime però poteva ancora dirsi salvo: tutti i giornalisti avevano educatamente declinato l’invito di Spurrier e l’evento era privo di copertura mediatica. Solo un pomeriggio tra esperti di vino, nulla più, le classifiche sarebbero rimaste cosa ignota. Se non che George Taber del Time pensò che un lunedì pomeriggio non avrebbe avuto comunque nulla di meglio da fare, e si presentò quindi con la sua brava matita e il suo bel taccuino all’Intercontinental Hotel, per riportare quanta distanza ancora avessero da colmare gli americani nel vino. Perché era fuori discussione che i francesi avrebbero primeggiato.

[Fine prima parte]