Adanti - Montefalco Rosso DOC 2014

Lo confesso (ma non è che sia tutta ‘sta gran confessione in fondo): per alcune cantine io ho un debole. Succede, assaggi tanti vini e cominci a costruirti un discreto archivio di denominazioni e produttori. Eppure alcuni di loro guadagnano per gli assaggi futuri già il plauso della giuria, prima ancora di estrarre il tappo (o di svitarlo. A proposito, mi dichiaro favorevole alla diffusione dello Stelvin. Parentesi chiusa). Spesso gioca a loro favore un ricordo, un momento particolarmente emozionante, che si aggiunge alla bontà del vino in sè. Magari è stata la bottiglia giusta al momento giusto, o un giro in cantina che si è trasformato nella visita ad un amico. Comunque sia è sempre la componente emotiva a scalfire il muro della razionalità e ad infiltrarvisi. Sta a chiunque abbia la pretesa di giudicare obiettivamente dei vini mantenere sotto controllo le emozioni. Ora, tenendo a mente che ancora nessuno mi ricompensa con vile denaro per scrivere di vino (che sciocchi!), l’emotività posso ancora lasciarla sguinzagliata e dichiararlo apertamente: adoro i vini di Adanti. Il colpo di grazia è certamente giunto con la visita in cantina dello scorso giugno, di cui presto scriverò, ma la stima parte da molto tempo prima, da un Sagrantino ed un Arquata Rosso già memorabili anche per un novellino (non che adesso io sia Robert Parker).
Oggetto del dissertare odierno è il Montefalco Rosso DOC 2014 di Adanti. In generale la denominazione è forse messa un po’ in ombra dallo strapotere del Sagrantino, ma c’è materiale da dibattito anche nella DOC “minore” del montefalchese. 60-70% di Sangiovese, 10-15% di Sagrantino, il resto uve rosse a piacere. Il carattere della DOC è piuttosto definito, tannino e freschezza sono certamente attesi, ma si dà anche spazio ai produttori per delineare un proprio stile.
Lo stile di Adanti prevede un 70% di Sangiovese, 15% di Sagrantino e un 5% cadauno di Barbera, Merlot e Cabernet Sauvignon. Il vino di oggi ha già 5 anni sulle spalle ma è ancora un puledrino. Nel bicchiere è di un rubino ancora pieno, scuro e profondo. Appena versato nel calice i sentori principali sono di violetta, di erba e terra bagnata e di muschio. Balsamicità e spezie sono presenti e persistenti: noce moscata, cannella e pepe. A mano a mano che il vino respira le note fruttate passano da una predominanza di chinotto e tamarindo a more e prugne mature. Arriva anche intenso un sentore di mirto e di cioccolato fondente. Un profumo eccezionale. E la bocca non delude le aspettative, con un’intensità importante al palato, che permane nel tempo. Freschezza ancora scalpitante e tannino ben presente ne caldeggiano l’abbinamento con piatti dalla struttura importante, meglio se corredati da componente grassa. Io così ho fatto e ne ho tratto molto vantaggio.

Tenuta di Fiorano. Il vino dei Principi di Roma.

Sfruttando la scia dei Tre Bicchieri assegnati ai vini laziali, voglio parlare di quel posto iconico per la storia del vino che è la Tenuta di Fiorano. Il Fiorano Bianco 2017 ha appena ottenuto il premio del Gambero Rosso per il 2020, ma la storia della Tenuta di Fiorano parte da molto lontano. E, ricordando la visita organizzata lo scorso 11 maggio dagli amici di IncontriDiVite (Link Facebook), vado a riproporla qui. Perché è sempre una bella storia da raccontare.
Tutto parte nel 1946. Il Principe Alberico Boncompagni Ludovisi, proprietario dei 200 ettari della Tenuta e amante dei vini di Bordeaux, pensa “io voglio fare il mio personalissimo taglio bordolese. Un bordolese di Roma”. E insieme all’enologo Giuseppe Palieri pianta una decina di ettari a Cabernet Sauvignon, Merlot, Malvasia di Candia e Sèmillon. Il terreno è di quelli benedetti dal Signore per questo simpatico giochetto del vino, poiché trattasi di pozzolanelle, ignimbrite, insomma terra nera derivante dall’ultima eruzione del Vulcano Laziale, circa 360mila anni fa. Il catasto dà un’altra bella mano, poiché la Tenuta di Fiorano fa parte del comune di Roma. Lo volete un altro regalo? La Tenuta confina direttamente con quel rettilineo di larghi basolati che va da Porta San Sebastiano a Brindisi, meglio noto come Appia Antica. Natali principeschi, terreno vulcanico, Roma e la regina viarum: già con queste premesse la Tenuta di Fiorano poteva vivere di rendita. Ma andiamo avanti.
Il Principe Alberico tiene molto all’adozione di un regime biologico per la coltivazione delle viti, cosa peraltro mai cavalcata a fini di marketing; per lui era fondamentale rispettare il più possibile la terra e la natura. Sotto la supervisione del Palieri prima e di Tancredi Biondi Santi dopo (già, proprio lui), i vini cominciano ad uscire dalla cantina e la voce si sparge rapida tra gli appassionati. Il tutto senza pubblicità o strategie di marketing, Alberico non aveva nessuna intenzione di fare pubblicità al suo vino. Ciò nonostante quello che è uno dei primi tagli bordolesi italiani, il Fiorano Rosso, si fa largo per inerzia nel mondo del vino assieme ad un bianco monumentale, il Fiorano Sèmillon.
La notorietà della Tenuta di Fiorano è alimentata anche dalle piccole leggende che le aleggiano attorno. Una su tutte, la particolarissima tecnica di compravendita stabilita dai Boncompagni Ludovisi: oggi le bottiglie si trovano abbastanza facilmente, una volta invece l’acquirente doveva andare alla Tenuta per comprarne i vini. Se veniva ricevuto dalla cantiniera (perché il vino non te lo davano mica sempre, eh) veniva fatto entrare in casa e chiuso a chiave in una stanza. Sì sì, a chiave. E la porta della stanza presentava anche sinistre striature verticali impresse nel legno, per mettere ancora più a proprio agio l’acquirente. Non lo consolava granché capire che quella fosse la stanza dei cani, poiché lì dentro poteva restarci svariati quarti d’ora, giacché la cantiniera, una volta ricevuto il denaro e incarcerato l’acquirente, doveva andare a prendere il vino nell’inaccessibile cantina, ricavata in una grotta basaltica sotto i due granai simbolo della Tenuta. Cantina che solo Luigi Veronelli e un’altra decina di persone (forse) possono dire di aver visitato. Al suo cospetto l’Area 51 è un McDrive.
Dunque i vini della Tenuta di Fiorano erano ricercati in tutta Italia ed ognuno nel mondo del vino ne declamava lodi sperticate. Strada in discesa verso il successo planetario, come fu per il Sassicaia? Ma anche no. Nel 1998 il Principe Alberico decide di estirpare tutte le viti e di chiudere baracca e burattini. Forse l’età non più giovane, l’impossibilità di seguire personalmente il vigneto, la mancanza di prospettive aziendali hanno portato Alberico a questa scelta che, nel solco delle migliori tradizioni nobiliari, non poteva che essere letteralmente radicale. Finito. Grazie di tutto, addio.
Eppure, nel buio una candela: il nipote di Alberico, Alessandrojacopo, chiede allo zio di poter gestire il vigneto della Tenuta di Fiorano. Ne ottiene il placet. Nel 1999, sotto la supervisione di Alberico, reimpianta viti di Merlot, Cabernet Sauvignon, Grechetto e Viognier. E la Malvasia di Candia? E l’epico Sèmillon? Alberico ha posto il veto, non sarebbero stati reimpiantati. Perché? Silenzio.
Con l’opera del Principe Alessandrojacopo e dell’enologo Lorenzo Costantini si arriva infine ai quattro vini attuali della Tenuta, oggetto della degustazione a latere della visita: Fioranello Bianco, Fiorano Bianco, Fioranello Rosso e Fiorano Rosso.
Fioranello Bianco 2018 (50% Grechetto, 50% Viognier): mineralità importante, frutta esotica e macchia mediterranea importante per questo vino che fa solo acciaio. Agile e scattante in bocca, freschezza agrumata e sapidità bilanciate fra loro, lunga persistenza.
Fiorano Bianco 2016 (50% Grechetto, 50% Viognier): stesso uvaggio del Fioranello ma questo alberga un anno in tonneau da 10 hl di rovere di Slavonia. L’effetto del legno incide molto sul vino: frutta esotica ben matura, mineralità sempre presente (d’altronde con quella terra nera non poteva essere altrimenti), vaniglia, miele e burro fuso. Bocca speziata e morbida.
Fioranello Rosso 2017 (100% Cabernet Sauvignon): il naso conferma subito che si tratti di Cabernet, con il vegetale tipico del vitigno, corredato da spezie piccanti, sottobosco e bacche (ribes e mirtilli). Bocca tannica e persistente, finale di cacao. 12 mesi in legno da 500 l prima dell’imbottigliamento.
Fiorano Rosso 2013 (65% Cabernet Sauvignon, 35% Merlot): bouquet elegantissimo per il vino di punta della Tenuta, con il lungo affinamento in botti da 10 hl che dona sentori vegetali, ematici, balsamici, di frutta nera in confettura, di fiori appassiti, di pepe, di cuoio, di cacao amaro, di tabacco. Bocca molto gentile e vellutata, con molti richiami dei profumi prima percepiti.
Roma ha ancora il suo taglio bordolese, e questo è uno dei pochi casi in cui la denominazione non serve affatto (vedi la recente Roma DOC, cui ammetto candidamente di non aver ben compreso l’utilità nel panorama vinicolo laziale). In questo caso basta solo nominare il vino: il Fiorano.

Damiano Ciolli - Cesanese di Olevano Romano Superiore DOC Silene 2018

È notizia della scorsa settimana la premiazione del “Silene” 2017 di Damiano Ciolli con i Tre Bicchieri, la massima onorificenza del Gambero Rosso, raggiunta per la prima volta da un Cesanese di Olevano Romano.
Perciò ho deciso di stappare un Cesanese di Olevano per festeggiare l’avvenimento. Non che servisse un pretesto per tirare il collo a una bottiglia, ma dicendo così tutto si ammanta di un’accattivante connotazione celebrativa. Via Instagram ho sottoposto a sondaggio la scelta tra il Tyto di Marco Antonelli e il Silene di Damiano Ciolli. L’altissima affluenza alle urne si è chiusa in un sostanziale pareggio, dunque ho optato in modo arbitrario per il fratello minore del vino recentemente premiato.
Silene 2018 è il vino “base” di Damiano. Prima vinificato in acciaio, Damiano e la sua compagna Letizia Rocchi, l’enologa dell’azienda, hanno poi scelto l’uso del cemento per l’affinamento del Silene. Circa un anno a riposo sulle fecce in blocchi di cemento, poi imbottigliamento e altri 6 mesi di siesta in cantina prima di andarsene in giro per il mondo. Ah, ovviamente di lieviti selezionati non se ne parla, lì si vinifica come natura comanda. Ora, siccome sono andato a disturbare direttamente in cantina (ma ho disturbato troppo poco per i miei gusti, quindi andrò sicuramente un’altra volta), il Silene 2018 è stato liberato prima dei termini di detenzione.
Di un bellissimo rosso rubino trasparente, il Silene regala profumi gentilmente selvatici. Domina un costante sentore di humus e di sottobosco, che viene sostenuto da liquirizia e cardamomo (è un sentore che si riesce a sentire spesso nei Cesanesi ben fatti. E sì, il cardamomo lo conosco davvero). Si avvertono sentori di pomodoro secco, ribes rosso, rosa selvatica, cuoio e mallo di noce. Sì, capisco che solo leggendo i descrittori aromatici si possa pensare maluccio del vino (o di chi lo sta descrivendo) ma, come ho detto all’inizio, i profumi sono sì selvatici ma in modo assai gentile, trasmettono gran fascino e non sono affatto disturbanti. La bocca è fresca, leggermente tannica, moderatamente riservata ma proprio per questo golosa, con una persistenza ben durevole. Si concede poco a poco e questo invoglia a berne ancora. Oh, moderatevi nel bere mi raccomando, non vi fate riconoscere.

Agostino Pavia & Figli – Barbera d’Asti Superiore DOCG La Marescialla 2016

La Barbera per il Piemonte è come aria ed acqua: è essenziale. È il vino quotidiano per eccellenza. Quando si vuole festeggiare magari si estrae dal fodero un Nebbiolo, meglio ancora se blasonato, ma per le restanti centinaia di giorni qualunque si beve Barbera. Non a caso nel 2010 il 30% della superficie vitata regionale era a Barbera, la situazione odierna è più o meno simile.
Eppure, nel caso de ‘La Marescialla’ di Agostino Pavia, chi avesse la tentazione di giudicarlo un vino semplice e da tutti i giorni sbaglierebbe. Innanzitutto per il 15% di alcol, che ne sconsiglierebbero l’uso quotidiano, pena la perenne sensazione di camminare su suole di marshmallow. E poi per la sua notevole complessità ed intensità, qualità apprezzabili se giustamente abbinate, ma dubito che voi pasteggiate ogni giorno a maialino al forno (nel caso, beati voi ma poveri i vostri reni).
‘La Marescialla’, nome in onore della tenuta aziendale, è 100% Barbera. Rosso sangue, scende compatto nel calice, facendo già immaginare una discreta componente alcolica anche senza aver letto l’etichetta. Altre informazioni arrivano ben chiare dall’esame olfattivo: il vino ha soggiornato in barrique. È la prima sensazione netta che mi è arrivata, il rovere. Quindi una successione di prugna e mora in confettura, note di glicine e poi altre note, speziate, balsamiche e tostate: noce moscata, chiodo di garofano, liquirizia, vaniglia, tabacco, humus e cacao; una gran complessità. L’ipotesi barrique è poi confermata dalla scheda tecnica: un anno di affinamento. E qui può partire la diatriba eterna tra detrattori e sostenitori della barrique. Pur con la mia minima esperienza, posso dire che l’uso della barrique rischia di uniformare i profumi di vini totalmente diversi, con il rischio di smarrire le peculiarità di ognuno. Però è vero anche che a Bordeaux affinano in barrique da secoli anche il carburante per i trattori e nessuno ha mai avuto granché da ridire al riguardo. Quindi la barrique è male o bene? Dipende. Dipende da che vino si vuole ottenere, a chi sarà rivolto, in quale segmento e a quale prezzo si vuole competere sul mercato. Discorsi infiniti. La questione di fondo resta sempre una: è buono o no? ‘La Marescialla’ è buono. La barrique si nota molto ma il vino resta equilibrato. E in bocca il 15% di alcol è moderatamente percepibile, complice anche la freschezza naturale della Barbera che mitiga molto. Tannini gentili, lunga persistenza e nessuna sensazione di pesantezza (occhio eh, sempre un bel 15% di alcol c’è).

Marco Antonelli – Lazio IGT Le Nuvole 2018

Lo confesso: riguardo i vini bianchi i miei gusti sono ancora, diciamo, un po’ ‘contratti’. Non impazzisco per i bianchi macerati o affinati in legno. Sono però sempre ben disposto al dialogo, in realtà spero tutte le volte che la bottiglia che ho davanti mi stupisca, che vada ad abbracciare il mio gusto personale pur rimanendo fedele a sé stessa, sia che abbia passato giorni interi in compagnia delle vinacce, sia che abbia dormito nel rovere.
In fondo il gusto è figlio del nostro tempo e la maggior parte dei vini bianchi viene ancora prodotta tramite pressatura soffice e uso dell’acciaio. Fino a poco tempo fa quelli erano i soli vini bianchi per me: la vinificazione in rosso delle uve bianche era roba che faceva solo poro nonno, e non ne veniva fuori un vino che svettasse per finezza organolettica. Poi i vignaioli naturali (ma non solo loro) negli ultimi anni hanno mostrato che esistono anche vini bianchi di concezione e di gusto differente (quelli fatti bene intendo), cosa che arricchisce il mondo del vino e prova ad ampliare le mie vedute.
Le Nuvole di Marco Antonelli nasce da anni di studio sullo sparuto numero di uve bianche sparse qua e là per i filari. Lo avevamo visto durante la visita ad Olevano Romano: viti di Trebbiano, Malvasia ed Ottonese nascoste tra i filari di Cesanese, come fossero state depositate sulla tela della Morra Rossa dalla nervosa mano di Jackson Pollock (bella questa, oh). Magari decenni fa queste uve bianche finivano tutte nello stesso tino del Cesanese, per andare ad ingentilire un vino altrimenti troppo ruvido e scontroso, quasi alla maniera del Chianti secondo la ricetta del Barone Ricasoli (non lo so eh, sto ipotizzando). Sicuramente oggi Marco e sua moglie Bianca le vinificano secondo un protocollo che più empirico non si può. Dice Marco: “ogni anno facevamo una vinificazione differente: un anno tutte le uve in bianco, l’anno dopo tutte in rosso, il successivo abbiamo giocato con i tempi di macerazione. Alla fine siamo arrivati al Le Nuvole di oggi, quello che ci è piaciuto e che ci piace di più”. Perfetto così.
Ottonese, vigna della Morra Rossa
Marco Antonelli e un grappolo di Trebbiano
Il Le Nuvole 2018 è fatto dunque a partire dall’Ottonese vinificato in rosso, al cui mosto e vinacce viene aggiunto il mosto fiore delle uve di Trebbiano e Malvasia. La macerazione viene protratta per 15 giorni, poi il vino affina in acciaio prima di essere imbottigliato entro un anno dalla vendemmia. Il vino è di un giallo dorato molto accattivante. Attenzione, questo non è il solito vinello caruccetto bianco, così come non è neanche il classico bianco macerato, che ha più tannini di un Gaglioppo. Il Le Nuvole richiede senz’altro attenzione; non è un vino da aperitivo, è vino da tavola apparecchiata e da portate piuttosto muscolari.


Il naso mette subito in guardia chi per caso lo abbia sottovalutato: appena aperto il vino dona note di fieno, liquirizia e legna (attenzione, questa nota olfattiva non c’entra niente con l’affinamento: il Le Nuvole neanche ci passa vicino ai contenitori di legno). Poi, mano a mano che il vino respira, escono fuori profumi di camomilla, crosta di pane, frutta secca e intensi cenni di salvia e polvere pirica. Passato altro tempo le note si ingentiliscono ulteriormente, con cenni di pera matura, di nespola e di marzapane. Rileggo quanto ho scritto, posso comprendere che sembri tutto troppo esagerato. Purtroppo (per chi non ci crede) questa è la verità: questo vino evolve magnificamente nel calice, ogni annusata è diversa da quella precedente e i sentori sono veramente tanti.
Al gusto si può incappare in un bivio, poiché il sorso sapido, molto sapido, ed il finale ammandorlato potrebbero confondere, sempre per il fatto che si parla di un bianco di concezione moderna (talmente moderna da essere un recupero delle tradizioni del passato). Ragione per cui, come dicevo prima, non berrei mai questo vino come aperitivo: un gusto così importante deve accompagnare primi e secondi, non tartine e salatini; soprattutto questi ultimi, messi accanto ad un vino così sapido, creerebbero un abbinamento da arresto! Io, molto ignorantemente (il terzo livello del Corso Sommelier, abbinamenti enogastronomici, ancora deve essere espletato. Ma è questione di settimane ormai. Vivaddio), ci abbinerei una pasta al ragù bianco o un agnello al forno, roba seria insomma. La persistenza di questo vino è vasta e lascia in bocca una piacevolissima freschezza agrumata.
Nota finale: una volta vuotato a dovere, nel bicchiere vuoto rimane un profumo buonissimo, cosa piuttosto rara per gran parte dei vini. Può voler dire tutto e niente, sia chiaro, ma a me pare un’ulteriore caratteristica positiva.

F.lli Durando - Ruchè di Castagnole Monferrato DOCG 2017

Gran bel tipo il Ruchè. Perché nascere in un territorio come il Monferrato, e doverlo condividere con Barbera, Malvasia di Casorzo, Moscato di Asti, Grignolino e Freisa, è cosa già di per sé provante. Se poi si ha la fortuna/sventura di affondare le radici nella regione dove spadroneggia il Nebbiolo, voi capirete che il Ruchè poteva anche venir su con un caratteraccio. E invece lui continua a vivere tranquillo e allegro, sempre sorridente, sicuro di sé e delle cose che ha da dire: non soffre di complessi di inferiorità. Non si offende nemmeno se lo pronunciamo alla francese, tanto ormai ci è abituato (la pronuncia corretta è ‘Rukè’; l’etimologia non è certa, ci sono varie teorie al riguardo). È un’uva ricca, che dà un vino ricco, carico di colore, di profumi e di sapore.


Il Ruchè di Castagnole Monferrato dei F.lli Durando si presenta al calice di un bel rosso rubino compatto, con riflessi porpora. Al naso è uno spettacolo: fiori e frutti la fanno da padrone, con rosa e viola in lieve appassimento e fragole, ciliegie e prugne ben mature. Tra questi sentori principali si fanno notare anche tamarindo, sandalo e chiodo di garofano. Ma un sentore che mi si è fissato in testa (attenzione: possibile boiata in arrivo!) è quello di uva appassita. Vi ho avvisato che poteva essere una boiata, eh. Ma tant’è, il naso è il mio e se è malfunzionante meglio esternare la questione che nasconderla. Bocca che, un po’ a sorpresa, parte lievemente amara al primo sorso (tranquilli, ne ho fatti altri di sorsi dopo il primo: si lascia bere docilmente). Sapido e molto, molto, molto persistente, il vino richiama sul finale gli aromi fruttati, accompagnandoli con una sottile nota ferrosa.
Piccola postilla: i gradi sono 14,5% e si fanno garbatamente notare, soprattutto al momento del congedo dalla sedia, e questo senza mai superare la dose di un bicchiere a pasto. Moderate le dosi o è un attimo che vi ritrovate a ringraziare del sostegno il vostro portaombrelli.


Cantine Lunae Bosoni - Vermentino Colli di Luni DOC “Etichetta grigia” 2018

La DOC Colli di Luni è una delle poche denominazioni interregionali italiane. E non potrebbe essere altrimenti, i confini geografici attuali non possono porre un limite a centinaia di anni di storia riguardanti la porzione di territorio nota come Lunigiana, equamente ripartita tra Toscana e Liguria. Il nucleo di questa regione ‘atipica’ è l’antica colonia di Luna, porto commerciale di epoca romana. Posta tra Mar Tirreno, Cinque Terre, Appennino Tosco-Emiliano ed Alpi Apuane, la Lunigiana ha come vitigno simbolo il Vermentino, che qui si esprime su alti livelli di finezza olfattiva, particolare questo già noto a Plinio il Vecchio (quindi una storia che qualche annetto sulle spalle se lo porta). Prodotto nelle province di La Spezia e Massa Carrara, il Vermentino Colli di Luni acquisisce le sue caratteristiche olfattive così peculiari dalla vicinanza del mare e dal terreno collinare ricco di minerali e scheletro (le cave di marmo di Carrara sono ad un tiro da 3 punti di distanza).


Il Vermentino “Etichetta grigia” 2018 delle Cantine Lunae Bosoni mantiene le aspettative: nel calice questo vino giallo molto chiaro, quasi bianco carta, satura l’atmosfera con una mitragliata di profumi diversi, tutti ben riconoscibili e tutti molto intensi ma mai eccessivi o stancanti. Prima di tutto emergono frutti maturi come pesca gialla, papaya, mango e limone, accompagnati da profumi di ginestra e fiori di tiglio. Poi le note caratteristiche del Vermentino dei Colli di Luni: mineralità ed erbe aromatiche. Si altalenano sensazioni salmastre e gessose; rosmarino ed origano chiudono il corteo. In bocca il vino è ampio, sapido come ci si aspetterebbe, ma connotato anche da una piacevole freschezza agrumata. La persistenza è lunghissima e termina richiamando le note floreali e aromatiche.