Riflessioni sul famigerato video di Fanpage + Trebbiano Rubicone IGT Eurospin

La colpa è vostra. La colpa è tutta e solo vostra. Vostra, dei vostri dibattiti e delle vostre opinioni espresse a seguito del famigerato video di Fanpage.it. Breve sintesi: Fanpage.it pubblica una decina di giorni fa un video dove tre esperti, Alessandro Pipero, Andrea Gori e Luca Gardini, somministrano a degli ‘aspiranti sommelier’ (sic) quattro vini, indicando loro che uno dei quattro è Tavernello e gli altri tre sono ‘vini costosi’ (sic. ‘Costoso’ rispetto a quale prezzo?). La cosa divertente/irritante/umiliante è che tutti e quattro i vini sono dei Tavernello. 


Bene, questo video, anche abbastanza divertente, ha scatenato un vespaio. C’è stato chi ha bollato gli esperti come professionisti al soldo della Caviro, chi ha invece difeso ed elogiato tale ditta e i posti di lavoro che dà a tanta gente, chi punta il dito sulla standardizzazione del gusto del vino, la mancanza del terroir nel calice, ecc. Come al solito in Italia, è finito tutto in caciara, come dicono ad Eindhoven. Io sono totalmente d’accordo con il concetto di non bere etichette, di non partire da preconcetti e di concentrarsi solo in quello che staziona nel calice, indipendentemente dal contenitore da cui è stato spillato. È vero altresì che un sommelier dovrebbe saper riconoscere alla cieca un vino di qualità superiore da uno di qualità inferiore (non me ne voglia la Caviro, ma credo sappiano anche loro che, anche se privo di difetti, il Tavernello è oggettivamente inferiore al Pergole Torte di Montevertine; e sono certo che neanche vogliano tentare una competizione con questo tipo di vini). Per cui, ragionandoci (poco, altrimenti mi viene il mal di testa), più che di standardizzazione del gusto il problema palesato è una sorta di riprova sociale: sono un aspirante sommelier, ho davanti a me due sommelier e un ristoratore stellato, mi viene detto che dei quattro vini che ho di fronte solo uno è Tavernello, gli altri tre sono vini costosi. Molto probabilmente il primo vino degustato verrà subito etichettato come Tavernello. A quel punto chi avrebbe il coraggio o l’incoscienza di affermare che gli altri tre vini, che ora sono sicuramente i vini costosi, hanno le stesse caratteristiche del Tavernello? Chi sono io per andare a dire ai tre competenti inquisitori di fronte a me che quei vini sono economicamente sopravvalutati? Farei una figura da peracottaro (termine di origine gaelica), no? Per cui dal secondo vino io mi pongo in uno stato mentale per cui quel vino, che mi dicono essere costoso, nella mia mente avrà per forza caratteristiche organolettiche superiori. Invece di usare solo i sensi, inconsciamente uso soprattutto il pensiero per giudicarlo. Questo è il problema: se mi dicono che un vino è costoso subito penso che sia di una qualità superiore, direttamente proporzionale al suo prezzo, anche quando organoletticamente non mi parla. Il problema non potrà mai essere il vino. Saranno il mio naso e il mio palato a non funzionare bene. Sarò io a non essere in forma.
Tutto questo papiro per arrivare a cosa? Ad una confessione: non ho mai bevuto il Tavernello, o vini simili. E in che modo posso io giudicare un vino senza averlo mai degustato? Bene signori, quel momento è arrivato. Qui io mi gioco tutta la mia credibilità. [il pubblico ride]


Trebbiano Rubicone IGT Eurospin, brick da 250 ml, alcol 11%. 
Il vino si presenta più bianco opaco che giallo paglierino. Il naso e poco intenso, una piccola complessità però la possiede, con del gelsomino e del tiglio, con note di agrumi, una mineralità di grafite, un sentore dolciastro che immagino sia donato dall’alcol. La bocca è impietosa: il vino è monodimensionale, è fin troppo fresco, ha un accenno di sapidità che tuttavia si converte in un sapore finale non piacevole ed amaricante. La persistenza è sotto i 10 secondi, permane solo la salivazione dovuta alla quota acida. No, un vino del genere purtroppo non è piacevole. Certo, se il limite di resa della IGT Trebbiano Rubicone fosse stato inferiore ai 290 q/ha, magari un pizzico più di finezza questo vino poteva anche possederla, ma tant’è. 
Ecco, se il contenuto fosse stato trasferito in una bella borgognotta con un’etichetta griffata, il mio giudizio sarebbe dovuto restare inalterato. Per questo motivo io adoro le degustazioni alla cieca, nonostante ti espongano facilmente a delle magre figure: conta solo il vino nel calice, senza alcuna informazione a supporto; la mente si deve concentrare solo sul liquido, senza aspettative. 
In conclusione posso dire che questo vino non è molto piacevole, non ha grande finezza, ma allo stesso modo non ha nemmeno difetti. Resta il fatto che, per un prezzo al litro attorno ai 2€, mi faccio molte domande sui metodi di coltivazione delle uve, di raccolta e di vinificazione. E alla fine penso sia sempre meglio spendere almeno attorno alla decina euro per una bottiglia di vino, premiando il lavoro di un piccolo viticoltore.

Marco Antonelli – Cesanese di Olevano Romano DOC Riserva “Kósmos” 2015

Giungo da una cocente delusione. Un vino, acquistato tempo fa con entusiasmo, mi ha lasciato piuttosto interdetto: si è rivelato un infuso di rovere, stancante, per nulla piacevole. Ovviamente non dirò mai il nome del vino e della cantina, non sono qui per parlar male di nessuno. Tuttavia dovevo riprendermi dallo sconforto vissuto. Ho rivolto lo sguardo verso un amico sicuro. Il conforto è stato anche maggiore di quanto aspettato. Perché già sapevo che questo vino fosse buono ma, diamine, è buono vero!
Torniamo ad assumere una minima parvenza di professionalità (mai richiesta da nessuno, tra l’altro). Già avevo parlato di Marco Antonelli lo scorso agosto, esprimendo la mia ammirazione per il suo lavoro su questo straordinario vitigno che è il Cesanese. Avevo concluso buttando lì uno spunto sui profumi del Kósmos, con la promessa di parlarne al momento della stappatura. Ebbene, eccoci qua. 
L’uva del Kósmos nasce sul monte Scalambra, vigneto della Morra Rossa, 450 metri s.l.m. Vigneto gestito in regime più che biologico (è in arrivo per Marco Antonelli la certificazione ufficiale), pochi trattamenti con zolfo e solo se si è in odore di oidio, altrimenti è tutto nelle mani della natura. Le vigne hanno tra i 50 e gli 80 anni, ben salde sul terreno ricco di scheletro e composto da marne argillose e calcare, con una resa per ettaro sotto i 20 q. Tutte prerogative adatte ad un vino di qualità. Vino che si ottiene tramite fermentazione spontanea, 12 mesi in acciaio, 18 mesi in botte grande e almeno 6 mesi in bottiglia (ma potete lascarcelo anche degli anni; ha una longevità potenziale di tutto rispetto)


L’assaggio del vino conferma tutte le più rosee aspettative. Rosso rubino che vira appena al granato sul bordo del liquido, il Kósmos ha un corredo olfattivo di splendida complessità. Alla prima annusata si percepiscono, perfettamente in armonia tra loro, frutta, spezie, fiori e balsamicità. Emergono nettamente amarena, mora e ribes, pepe nero, cardamomo e mirto, viola appassita ed eucalipto. Successivamente si aggiungono leggere note di cuoio e di asfalto, supportate da un altrettanto leggero sentore di terra bagnata. Il sorso è deciso e, al contempo, di grande finezza, con un’esplosione di sapore a riempire il cavo orale. Istantaneamente si apprezzano le durezze, sotto forma di un tannino vellutato e di una buona freschezza, segno che questo vino può maturare ulteriormente, per poi avvertire la morbidezza a riportare tutto in equilibrio. La persistenza del Kósmos è eccezionale, con gli aromi di bocca a richiamare con coerenza le note fruttate e speziate già percepite al naso. 
Mi espongo volentieri: per me è un vino imprescindibile, da avere sempre a disposizione in cantina pronto all’uso.


Cantina Ribelà. Vini naturali dei Castelli Romani.

Piove. Sono settimane che piove. È sotto questa pioggia che ci ritroviamo domenica 16 novembre con gli amici di Incontri Di Vite (pagina Facebook), ospiti di Chiara Bianchi e Daniele Presutti, i fondatori di Cantina Ribelà. La loro storia è in qualche modo condivisa con molti altri vignaioli di ultima generazione: nessun contatto diretto con la lavorazione della terra, studi universitari ed un impiego cittadino; ad un certo punto scatta la scintilla che innesca l’incendio: si abbandona la città e si ritorna in campagna a vinificare. 


Parlando della vita lasciata alle spalle, Daniele ha lavorato come architetto, mentre Chiara possiede una laurea in filosofia, un diploma da sommelier e dieci anni di esperienza nella ristorazione. Un giorno, forse uno più plumbeo degli altri, decidono di cambiare vita, di ritornare alla natura, di trovare lì le soddisfazioni che la città stenta a dare. Quanti di noi ogni tanto se ne escono con “ora basta, mollo tutto e cambio vita”? Ecco, loro lo hanno fatto. Se ne sono stati un annetto ad Assisi, sul Subasio, a collaborare con un’azienda biodinamica per farsi le ossa. Prendono contatto con la fatica quotidiana della viticoltura (giornate interessanti le potature a gennaio, in mezzo alla neve e al vento gelido). L’impatto è provante, eppure questi due ragazzi ne escono ancora più stimolati a proseguire con questa vita.


Chiara e Daniele vorrebbero stare vicino Roma, così battono palmo a palmo i Castelli Romani in cerca del terreno ideale. Lo trovano: la valletta denominata “Pentima dei frati”, a Monteporzio Catone. I figli del vecchio proprietario non hanno modo di gestirla. Chiara e Daniele nel 2014 rilevano terreno e viti bianche, viti che oggi hanno dai 40 ai 60 anni, impiantano le viti rosse, costruiscono la cantina nel 2017 e la casa nel 2018. Alla cantina servirebbe un nome: scelgono Ribelà. Dal dialetto Monteporziano: ‘Ribelare’ vuol dire ‘ricoprire con la terra le radici della pianta’. Il logo della cantina è una mongolfiera. La spiegazione è molto poetica: la mongolfiera consente di alzarti in volo ma allo stesso tempo non ti permette di fare come vuoi, è il vento che decide dove tu possa andare. Una bella metafora del lavoro dell’uomo nella natura. Tra viti vecchie e nuove, Chiara e Daniele decidono di puntare sulla tradizione locale: Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino, Bellone, Cesanese e Sangiovese. 


La scelta dell’allenamento nell’azienda biodinamica umbra non è stato casuale. Chiara e Daniele danno un senso molto più profondo al loro lavoro: non vogliono soltanto sfruttare la terra ma attuare una sorta di scambio, fare in modo che il guadagno sia bilaterale. A noi il vino, alla terra più vita possibile. È pacifico il rifiuto di qualsiasi composto chimico di sintesi per bombare le piante, anche rame e zolfo sono esclusi o comunque contingentati. Gli unici trattamenti in vigna sono operati con preparati biodinamici, cornosilicio e cornoletame. Per il resto viene data piena fiducia alla terra, questa terra magnifica che il Vulcano Laziale ha messo a disposizione e che non è mai stata pienamente valorizzata. Domanda: “ok voi trattate la terra in biodinamica. E tutti i trattamenti che il vecchio proprietario ha fatto in vigna? Eh? Eh?” Risposta: “innanzitutto calma. E poi, i figli del proprietario hanno reso disponibile il suo diario della vigna. Zero trattamenti. Anche perché accanto alla vigna c’erano l’orto ed alberi da frutto. E lui non voleva rendere immangiabili frutta ed ortaggi”. Quando ogni tanto la casualità dà una bella mano agli audaci. 


La cantina è ordinata e ben pulita, con una vasca in cemento per l’affinamento futuro dei rossi appena arrivata, una botte troncoconica in castagno e tre botti classiche in ciliegio e castagno locale, fabbricate da un bottaio del posto. Completano il parco serbatoi alcuni silos in acciaio e un paio in vetroresina. Ah, dimenticavo il set di damigiane per l’affinamento del rosato. Fermentazioni spontanee, nessuna filtrazione, nessuna chiarifica, solforosa totale attorno ai 20 mg/l. E ciò che ha detto Daniele mi trova pienamente d’accordo: “se fai vini cosiddetti naturali ed escono palesemente difettati, non puoi dire che il vino va bene così che il difetto è un valore aggiunto della naturalità, quindi diventa magicamente un pregio del vino. Hai fatto semplicemente un vino difettato”. Pulizia ed attenzione costante permettono ai vini di Cantina Ribelà di non avere difetti. Il gusto è sempre questione soggettiva, ma di difetti in questi vini non ne troverete.


E visto che stiamo parlando dell’organolettica del vino, parliamo dei quattro vini degustati durante la visita. Lo so, è un compito gravoso, ma non mi sottrarrò.


Lazio IGT Frizzante “Ribolie” 2018. Un rifermentato in bottiglia da uve Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino e Bellone. Il vino è ovviamente torbido per la presenza di lieviti, come indicato anche dal gioco di parole nel nome. Lieviti che si notano anche al naso, creando uno sfondo odoroso su cui si inseriscono cenni notevoli di frutta a polpa gialla in maturazione, come ananas, limone, mela, fiori di acacia, una notevole vena minerale, di pietra focaia. La bocca è cremosa e l’impatto è secco, con la mineralità del suolo che si manifesta nell’incredibile sapidità di questo vino, caratterizzandone la persistenza gusto-olfattiva. 


Lazio IGT “Ribelà Bianco” 2018. Malvasia, Trebbiano e Bombino in parti uguali, senza macerazione sulle bucce, affinamento in acciaio. Giallo dorato nel calice, i primi cenni olfattivi li ho definiti, con grandissima padronanza lessicale, ‘strani’. Vado a spiegarmi (sì, pare facile): solitamente vini provenienti da fermentazioni spontanee danno luogo a  profumi inusuali, più o meno solforati. La cosa può essere dovuta a semplice bisogno d’aria, a solfitazione spinta o a guai capitati in fase di fermentazione. Nel mio caso non si può assolutamente parlare di ‘puzza di vino naturale’; infatti con un minimo di aria fresca il signorino ha cambiato completamente pattern olfattivo, facendo emergere una notevole mimosa, cenni di cera d’api, la solita mineralità nera, pesche e susine gialle, cenni fini di salvia e rosmarino. Il sorso è ben sapido e aromatico, con persistenza sensibile e grande corrispondenza tra naso e aromi di bocca.


Lazio IGT Bianco Macerato “Saittole” 2017. Malvasia 60% e Trebbiano 40%, 3 giorni di macerazione. Signori, che gran vino. Gradevolissimo color ambra nel bicchiere (lo potremo anche definire ‘orange wine’ se fossimo dei gggiovani uòzzamerica yessorrait!), il naso è complesso ed assai attraente: solita pietra focaia, notevoli i profumi di frutta esotica, come mango, papaya e frutto della passione, pompelmo, una lievissima foglia di pomodoro, camomilla e tanta ginestra, miele, addirittura sottili cenni di pepe e terra secca. La bocca è elegantissima, molto aromatica e molto persistente, con una quasi impercettibile trama tannica. Un gran vino veramente.


Lazio IGT “Ribelà Rosso” 2019. Cesanese 80% e Sangiovese 20%, campione di botte.
Un mese e mezzo di età, è ancora un pupetto in fasce. Ed infatti i profumi sono ancora in piena fase evolutiva. Dominano un sentore vinoso e di fermentazione. Ciò nonostante si percepiscono molto chiaramente profumi di ciliegia, di humus, di pepe, di erba tagliata. La bocca è ancora ‘verdina’ ma già si fa notare un’importante persistenza.


Il pensiero finale resta quello che ho avuto modo di dire a Chiara e Daniele (che ancora ringrazio per aver pazientemente sopportato le impressioni non richieste di uno strano tizio barbuto): l’obiettivo principale di un viticoltore dovrebbe essere dare vita ad un vino prima di tutto buono da bere e che riporti nel bicchiere le particolarità di uno specifico terroir. Se il viticoltore ci riesce senza avvelenare il pianeta, non può che essere degno di ulteriore stima. Da chimico sosterrò fino alla morte che non è la chimica ad essere malvagia (anzi, la chimica ha fatto e continuerà a far progredire il mondo. Tutto è chimica, ricordatevelo sempre), malvagi sono gli abusi dei prodotti chimici, soprattutto se inutili, e chi li perpetra. Persone come Chiara e Daniele dimostrano che è possibilissimo produrre vini buoni e sani senza l’ausilio di prodotti chimici di sintesi. Certo, servono capacità, pazienza e anche buona sorte, ma se i risultati sono vini come questi si può essere orgogliosi del proprio lavoro. Anche se Chiara e Daniele non si sentono affatto arrivati, hanno voglia di continuare a sondare le grandi potenzialità di questo terroir magnifico e di affinare ulteriormente la loro tecnica. Chiaro che sarò presente per seguire la loro traiettoria ascendente.

Centopassi – Terre Siciliane IGT Rosso “Pietre a Purtedda da Ginestra” 2015

Questa storia vede il vino solo come aspetto marginale. È una storia che parte da lontano. Il nome della cantina dirà qualcosa a molti, il nome alla cui memoria il vino è dedicato e intitolato dovrebbe invece essere ben scolpito nelle nostre teste. Centopassi, chiaro riferimento al film di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato. Purtedda da Ginestra (Portella della Ginestra per noi continentali), a una trentina di km da Palermo, è indissolubilmente legata ad una festa dei lavoratori finita nel sangue: 1 maggio 1947, ore 10:15, migliaia di contadini siciliani si ritrovano per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali di pochi giorni prima e manifestare contro il latifondismo. Ve la immaginate la festa: al fianco del comizio politico si accendono fuochi, si comincia a cucinare, i bimbi giocano. Fino a quando partono raffiche di mitragliatori dal monte Pelavet. 
Sparano sulla folla. 
Sparano su dei contadini; muoiono in 14. 
Sparano su dei bambini; ne uccidono 4. 
I carnefici sono Salvatore Giuliano e la sua banda, i mandanti sono vari, incerti e tutti plausibili (mafia, estrema destra, servizi segreti americani; i mitragliatori erano armi d’assalto, non certo le classiche lupare siciliane). Ricordo bene il senso di gelo nelle ossa la prima volta che ascoltai questa storia, raccontata in una puntata di Blu Notte dall’immenso Carlo Lucarelli. Una strage atroce, per la modalità e per l’umiltà e l’età delle vittime.
Voi capite bene che, di fronte a questa bottiglia e al suo significato, il vino passa decisamente in secondo piano. 
Riporta la retroetichetta: “Centopassi è l’anima vitivinicola delle cooperative Libera Terra che coltivano terre siciliane confiscate alla mafia”. In Italia, soprattutto negli ultimi anni, vanno per la maggiore dietrologie, maldicenze, sospetti, insomma tutto ciò che si portano appresso ignoranza ed idiozia, saltellando tutte allegre. Io, piccolo e sciocco, voglio ancora pensare che queste terre, una volta proprietà della mafia, vengano lavorate da gente onesta, gente che riconosca il valore del proprio lavoro in questi posti specifici. Voglio pensare che questa gente, con questo lavoro voglia solo guadagnarci, non speculare. Magari sarò un innocente fessacchiotto, preferisco così; non fa male a nessuno avere ancora speranza in qualcosa di buono. E apprezzate anche che non abbia banalmente citato ‘Imagine’ di John Lennon per esprimere il concetto.


Il vino, alfine. Il blend è 70% Nerello Mascalese e 30% Nocera, quest’ultimo è un autoctono siciliano dai natali illustri: era alla base del Mamertino, vino tanto apprezzato dai Romani; oggi ancora ne fa parte ma solo come ‘accompagnatore’ del Nero d’Avola. I 950 m d’altezza conferiscono all’uva tutta una gamma di profumi che catturano con decisione le narici dell’avventuriero di turno.
Il vino, color rubino cristallino, si presenta all’inizio con sentori di terra, terra rossa, ruggine, per poi liberare un’ondata di frutta e fiori: ciliegia potente, melograno, ribes e mirtillo, molto glicine e rosa selvatica. Quindi si fanno vive le spezie, portate in dote dal buon Nerello, con cenni di noce moscata e anice stellato. Chiusura finale di cuoio e leggero marzapane. In bocca il vino è fresco, lievemente tannico, di medio corpo e con una finissima persistenza gusto-olfattiva. Un vino notevole, da un posto che nessuno dovrebbe mai dimenticare.

Principe Pallavicini – Frascati Superiore DOCG “Poggio Verde” 2018

Si ritorna a giocare in casa. Ma proprio davanti l’uscio di casa. 
Il vino in questione è un Frascati Superiore prodotto da Principe Pallavicini in quel di Colonna. L’etichetta orgogliosamente riporta ‘Viticoltori dal 1670’, e in effetti Pallavicini non è un cognome ignoto nell’Agro Romano, tanto per rimanere nel solco dei nobili signori con la passione per l’arte agricola. Attualmente la Tenuta è presieduta da Sigieri Diaz Della Vittoria Pallavicini, 80 ettari divisi tra Castelli Romani e Cerveteri. Quello che a noi interessa adesso è la cinquantina di ettari vitati a uve bianche, localizzati nell’areale della DOCG Frascati Superiore. È proprio dal blend di 70% Malvasia del Lazio, 15% Bombino e 15% Greco che si ottiene il Frascati Superiore “Poggio verde”.


Di un giallo paglierino con riflessi verdolini, il naso del “Poggio Verde” colpisce per l’intensità dei profumi. La prevalenza è di fiori bianchi e gialli, quali gelsomino, ginestra, tiglio e mimosa, generosamente offerti dalla Malvasia del Lazio. La frutta è tropicale, di ananas e papaya. Mineralità scura presente (e vorrei ben vedere, siamo sulle pendici di un vulcano) assieme a timo e maggiorana. Sorso intenso anch’esso, sapido e con un moderato finale amaricante. Un vino che si fregia della Silver Medal della rivista Decanter e che, soprattutto, si fa bere assai volentieri. 
Date una chance ai Frascati Superiore, ce ne sono di ottimi e ad un rapporto qualità/prezzo magnifico.

Degustazione vini Azienda Agricola Adanti, 26/10/19

Dopo aver raccontato la bellissima, ancorché parziale, storia di Alvaro Palini, Domenico Adanti e della loro idea meravigliosa di vinificare in secco il Sagrantino, credo sia giusto parlare anche di cosa io abbia bevuto da Adanti durante la mia visita dello scorso 26 ottobre. Visita e degustazione sono state magistralmente condotte dal buon Alessandro Albergotti, perfetto cantore di cantina e vini. Molto inopportunamente ho domandato di poter vedere il mitico Sagrantino in appassimento. Alessandro, che è persona buona, mi ha accontentato, ed io ho assaggiato l’acino d’uva più buono di tutta la vita.

Grappoli di Sagrantino Adanti in appassimento
La degustazione stava per cominciare, quando lo squillo del telefono interrompe il normale scorrimento della faccenda. Benedetta telefonata: all’altro capo c’era la vera Umbria, personificata per l’occasione dal signor Alessandro di Torre del Colle, frazione di Bevagna, il quale voleva parlare con l’agronomo di Adanti per metterlo al corrente di una discreta quantità di letame pronta per loro. “È più pecora che vacca. Oh, è maturo. Così gli diamo da mangiare a ‘ste pianticelle”. Immensa la chiosa finale: “Ah, anche tu ti chiami Alessandro? Se troviamo il terzo gli facciamo paga’ da be’”. A me sembrava più che giusto. E ancora dovevo cominciare a bere.
Riportando il tutto sui binari della serietà (per quanto possibile), la degustazione ha coinvolto praticamente tutta la gamma proposta dalla Cantina Adanti (due bianchi, un rosato e poi rossi fino alla fine).


Umbria Bianco IGT “Arquata Bianco” 2018; 70% Grechetto, 30% Chardonnay. Connotato da mineralità salmastra e note di mela Golden, accompagnano note di gelsomino, di fieno e una lieve nocciola tostata. Un bianco delicato e molto piacevole.
Montefalco Grechetto DOC 2018. Un profumo più ‘denso’ rispetto all’Arquata Bianco, più fruttato e floreale, con frutta esotica, agrumi e ginestra a condurre. Si apprezzano note di foglie di coriandolo (le riconosco bene queste note perché io, il coriandolo in foglie, non lo apprezzo proprio!).
Umbria IGT Rosato “Amanter” 2017; 100% Sangiovese, 10 giorni di macerazione sulle bucce. Assaggiato già qualche mese fa, colpisce per la forte connotazione agrumata, a guisa di arancia rossa, tanto al naso quanto in bocca; una mineralità ferrosa, ematica, sostiene olfatto e gusto. Piccoli cenni di rosa e fragola ancora resistono allo scorrere del tempo.


Montefalco Rosso DOC 2015; 70% Sangiovese, 15% Sagrantino, 5% Merlot, 5% Barbera, 5% Cabernet Sauvignon. 18 mesi di botte grande poi affinamento in bottiglia. Signori, uno dei miei preferiti. Un vino di un’agilità e di una bevibilità incredibile. Naso di frutta rossa croccante, fragoline, ribes e more. C’è un soffio di vegetale, una nota intensa di mirto e di pepe, un ché di agrume rosso e di terra bagnata. La bocca è fresca e succosa, ben equilibrata da un tannino vellutato. Non se ne berrebbe mai abbastanza (sempre occhio alle quantità! Bevete bene ma bevete poco, scellerati!).
Montefalco Rosso Riserva DOC 2014; 70% Sangiovese, 15% Sagrantino e 15% Merlot. 30 mesi di botte grande, età media delle viti attorno ai 20/25 anni. La Riserva è più opulenta della versione ‘base’, con un carattere più deciso. Naso di frutta rossa matura, prugne e more, di cuoio, di spezie scure, liquirizia e vaniglia. Al sorso anche è meno immediato del Montefalco Rosso ‘base’, più morbido e ‘saporito’. Vino che si apprezza di più abbinato a qualche pietanza che in degustazione isolata.


Umbria Rosso IGT “Arquata Rosso” 2012; 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 20% Barbera. 30 mesi in barrique di rovere, un’altra cinquantina di mesi in bottiglia in bottiglia. Il ‘vino matto’, la creatura di cui Alvaro Palini andava tanto fiero (sempre senza darlo a vedere a nessuno, siamo comunque umbri). L’annata è stata caratterizzata da un’estate piuttosto fresca per le medie stagionali. Il vino rispecchia l’andamento della stagione donando una freschezza ben in mostra, non proveniente esclusivamente dalla Barbera, con una bocca piuttosto centrata sulle durezze. Profumi di frutta rossa ancora croccante, di ribes, more, rosa, con nota vegetale del Cabernet apprezzabile, humus e china. Vino ottimo ma che vedrà premiata un po’ di pazienza.
Umbria Rosso IGT “Arquata Rosso” 2011; 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 20% Barbera. Tutt’altro discorso per l’Arquata Rosso 2011, annata con primavera piovosa ed estate calda. Il vino in questione è magnifico già ora, con i suoi finissimi profumi di frutti di bosco, di glicine, di noce moscata e chiodi di garofano, di pelle conciata, con una balsamicità mentolata, con la nota vegetale molto sottile, con un finale di liquirizia e cacao. Bocca che ‘inganna’, partendo lievemente abboccata (grazie, Merlot) per concludere su un gentile amaricante di cacao. Un vino davvero grande.


Montefalco Sagrantino DOCG 2012. 60 giorni sulle bucce, 3 anni di botte grande e 3 anni (almeno) di bottiglia. L’uva più tannica d’Italia ha fatto tesoro dell’annata fresca e gli anni di affinamento pare non abbiano scalfito le durezze, che entrano in bocca ancora a gomiti alti. Il Sagrantino in generale richiede pazienza, la quale viene sempre premiata con un profumo e sapore grandiosi. Fatto oggettivo è che questo vino non difetta di eleganza. Anzi, questa caratteristica accomuna tutti i vini di Adanti: l’eleganza sarà sempre presente nel calice, a prescindere dal vino. Tornando a bomba su questa 2012, il naso è ancora giovane. Si sente la terra, la frutta croccante (ciliegie e fragole), spezie scure e accenni di terziarizzazione ancora in divenire (cacao e un leggero cuoio). Dategli tempo, saprà ripagare.
Montefalco Sagrantino DOCG 1999. Qui debbo doverosamente ringraziare Stephanie Johnson, Italian Wine Editor per la rivista  ‘Wine & Spirits’. No, non ho conoscenze così importanti, non millanto credito. La ringrazio perché è grazie alla sua visita della sera precedente che io ho potuto trovare questo capolavoro sul mio tavolo. Non ho mai bevuto niente di più emozionante. Io per primo parlo di longevità del Sagrantino, ora ne ho però avuto la splendida riprova. Signori, mi auguro che tutti voi possiate un giorno bere un Sagrantino del genere, sinceramente. Andando sul concreto, il vino nel calice è granato pieno, di virare all’aranciato non ci pensa nemmeno (ricordate: 20 anni). Il naso è, ripeto, emozionante: visciole e prugne mature, mora e fragolina di bosco ancora viva, carne cruda (moderata mineralità ferrosa, per gli impressionabili), humus, pepe nero e noce moscata, balsamicità ancora notevole, poi scatola di sigari, cuoio, cioccolata… In bocca entra con soave grazia, senza pungenze. Il tutto è molto equilibrato, il tannino c’è ma è più tenue, la freschezza ancora è presente e si nota di più la morbidezza. Vino stratosferico, grazie ancora Mrs. Johnson.
Come bonus track avrei altri due vini, assaggiati lo scorso giugno. Già che ci sono…


Montefalco Sagrantino DOCG “Il Domenico” 2007. Si tratta di un cru, un vigneto di circa 40 anni piantato a 400 metri d’altezza sulle colline di Colcimino. La morfologia del terreno è differente dagli altri ettari vitati dell’azienda, e si caratterizza per una maggiore percentuale di carbonati e un’importante presenza di scheletro nel suolo. Queste due caratteristiche contribuiscono a dare maggiore finezza e longevità al Sagrantino dedicato a Domenico Adanti, il fondatore dell’azienda (ricordate? ne avevamo parlato qui). “Il Domenico” in effetti è connotato da note più fruttate che terragne, con una notevole profondità olfattiva, sempre riconducibile ad un Sagrantino ma con sfumature più ‘gentili’. L’effetto si replica in bocca, una grande complessità aromatica che si affianca ad una persistenza notevole. Ecco, provare questo vino dopo 20 anni di affinamento potrebbe essere un’esperienza ancor più emozionante.
Montefalco Sagrantino Passito DOCG 2010. Il Sagrantino come è sempre stato, un vino passito da gustare durante il periodo pasquale. La versione di Adanti è semplicemente stupenda. La concentrazione di profumi del passito di Adanti lascia stupefatti. Frutti di bosco e visciole in confettura affiancati dalla terra bagnata, spezie dolci, mirto, cuoio e tabacco da pipa. Bocca fresca e dolce, ma con la presenza dell’immancabile tannino che eviterà sempre il rischio di stucchevolezza, rischio che molti altri vini dolci corrono. A sua volta la dolcezza modera il tannino, ovviamente qui più concentrato (e potenzialmente più percepibile) rispetto alla versione secca. Persistenza misurabile con una meridiana. Non ho aggettivi che non siano banali per dirvi quanto questo passito mi piaccia.
Il tratto distintivo di tutti i vini della Cantina Adanti è una finezza riscontrabile ad ogni singolo assaggio, la non scontata capacità di trasmettere le caratteristiche della propria annata, senza che vari il costante piacere nel berlo. Complimenti ragazzi.
Alessandro (a destra), un simpatico ed appassionato degustatore di vini (a sinistra) ed un vino meraviglioso (al centro)

Alvaro Palini e l’Azienda Agricola Adanti

Esistono posti dove il cuore si allarga, il respiro si fa più profondo e ci si sente un po’ più in pace con il resto dei terrestri. L’areale di Montefalco, le morbide colline umbre tra Foligno e i Monti Martani mi hanno sempre fatto questo effetto. L’appoggio per i week end che io e la mia consorte ogni tanto riusciamo a concederci è sempre lo stesso, l’Agriturismo Arcobaleno della Torretta a Giano dell’Umbria, Località Macciano. Sì, è una spudorata pubblicità e non me ne vergogno, perché gli voglio un gran bene e meritano di essere conosciuti da tutti. 
Questa zona meravigliosa, perfettamente al centro dell’Italia, è il territorio elettivo di una delle uve che amo di più in assoluto: il Sagrantino. Da quest’uva se ne è sempre tratto un vino passito dolce. Essendo il tannino dell’uva più tannica d’Italia difficile da domare, la morbidezza dello zucchero residuo riusciva in qualche modo ad armonizzare il tutto. Il periodo pasquale era designato per la stappatura del Sagrantino passito. La coltivazione era, come dire, disorganizzata: tra i filari di vite trovavano posto alberi da frutto, grano, ecc. Poi vennero alcuni coraggiosi (o dei matti) che, attorno agli anni ’70, cominciarono a sperimentarne la versione secca, ricavandone uno dei vini rossi più iconici del mondo. Tra questi coraggiosi va doverosamente citato Alvaro Palini, il primo cantiniere dell’Azienda Agricola Adanti. Lo si potrebbe definire ‘l’uomo che ha inventato il moderno Sagrantino’. E attenti, l’azzardata affermazione potrebbe venire solo rettificata, mai sbugiardata. 
Oddio, chiamarlo solo cantiniere è orrendamente riduttivo. L’amico Alessandro Albergotti, splendido narratore delle storie della cantina, mi ha reso partecipe di alcuni racconti sul sor Alvaro durante la mia ultima visita alla cantina Adanti lo scorso 26 ottobre. Ed è una storia bellissima, che voglio raccontare.

Fonte: cantineadanti.com
Anche solo pensare di replicare la vita di Alvaro Palini farebbe venire le vertigini: emigrante in Francia da Bevagna per lavoro, professione sarto. Via via fa strada, e da sarto evolve in stilista. Già si potrebbe essere soddisfatti così e non abbiamo neanche cominciato. Parigi, anni ‘60/’70, il mondo della moda in continua crescita. Alvaro è nel posto giusto. Senza entrare troppo in dettagli che non possiedo, dico solo che il buon Alvaro nel ’68, insieme a Franklin Souhami, fonda un marchio di moda. Niente di che, solo la Sisley, che verrà poi comprata dalla Benetton ed è diventa quello che è oggi. Come arriviamo dalla Sisley alla cantina Adanti? Abbastanza semplice: il cuore di un umbro batte in Umbria. 1300 km non hanno reciso il legame tra Alvaro e la sua terra, amici compresi. E proprio tra questi c’è il secondo protagonista della storia: Domenico Adanti, un commerciante di mobili di Bevagna con la passione del vino, che nei primi anni ’70 acquista la villa di Arquata ed i relativi terreni, appena fuori dalle mura di Bevagna. Impianta i vigneti con allevamento a palmetta, tipico umbro, una sorta di guyot bilaterale a più piani; ristruttura la parte della villa che originariamente era un convento dei Frati Celestini, riadattandola a cantina, e comincia a divertirsi con l’uva. Infine, data l’amicizia di lunga data, fa assaggiare volta per volta i vini prodotti ad Alvaro. Alvaro è stato da sempre appassionato di vino, e ricordava bene come il nonno coltivasse con scrupolo le poche piante di Sagrantino che aveva. In più a Parigi ebbe anche modo di saziare la sete di conoscenza con i vini d’oltralpe (sì, i francesi sono e fanno, per l’appunto, i francesi, però due o tre cose sul vino ancora possono spiegarcele). Terza caratteristica di Alvaro: era dritto, diretto, acuminato e tagliente; se sottoponevi una cosa al suo giudizio potevi uscirne à la julienne (se passate da Adanti, chiedete ad Alessandro cosa pensasse Alvaro delle sue impressioni sui sentori di frutta matura nel Sagrantino Passito). L’Adanti dunque sottoponeva volta per volta al Palini i suoi vini, prodotti con tanta speranza ed impegno. Risposte del Palini? Il più delle volte “lavandino”, e bisognava ringraziarlo. Gli umbri sono gente meravigliosa: se c’è una contesa dialettica mollano la giacca sulla sedia e ballano per ore; non è necessario arrivare alle mani, ha torto chi si stanca per primo. Finché un giorno, dopo l’ennesima ‘velata critica’ al proprio vino, a Domenico uscì la frase che permise a Catherine Zeta Jones e Michael Douglas di bere Sagrantino al loro matrimonio: “Allora pensaci tu!”. L’ultimo mattoncino di Jenga: viene giù tutto. 

Fonte: Tuttoggi.info
Alvaro molla Parigi nel 1977, saluta il mondo della moda (ma non gli strumenti da sarto, sempre a portata di mano) e torna a Bevagna a gestire la cantina dell’amico, forte della sua laurea in Enol… no, nessuna laurea! Il Sagrantino come è oggi è solo frutto di una mente affatto accademica, ma eccezionalmente acuta, curiosa all’inverosimile, che ascoltava chiunque avesse qualcosa di intelligente da dire, indipendentemente dal titolo di studio. Esemplificativi gli incontri con Giacomo Tachis: varie volte si sono dati appuntamento ai caselli autostradali, scambiandosi i vini e, successivamente all’assaggio, le opinioni. Capite? Se Tachis teneva in considerazione le impressioni di un ex sarto non enologo, quanto credito non riscosso ha il Palini?
Alvaro aveva sempre voglia di imparare, ciò gli ha permesso di arrivare a realizzare vini stupendi. Pochi grappoli per pianta, vendemmia in più giorni e solo dei grappoli perfetti, botte grande e tonneau; poche barrique e non di rovere di Allier, troppa vaniglia nel vino, meglio la Slavonia: secondo Alvaro il tannino del Sagrantino doveva essere sì domato ma non snaturato. Le scene del sarto che dice ai lavoratori in vigna di togliere grappoli per avere meno resa, dovevano essere divertentissime. Ma ormai abbiamo intuito il carattere del Palini: o si fa come dice lui o qualcun altro farà come dice lui. Si fa come dice lui. La prima etichetta di Sagrantino secco è del 1978. I primi a commercializzarlo sono Adanti, la Cantina Cooperativa di Foligno e l’azienda Tardioli, che oggi non c’è più. Stop.
Adanti comincia a farsi un nome nel panorama del vino umbro, ma non ci si limita solo al meraviglioso Sagrantino. Alcuni terreni della tenuta di Arquata erano già vitati a Grechetto, Ciliegiolo e Barbera. Negli anni Domenico decise di piantare anche, tra gli altri, Merlot e Cabernet. Ad Alvaro allettava l’idea di produrre un taglio bordolese, e qui è il suo capolavoro: l’Arquata Rosso. 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot e 20% Barbera. Il ‘vino matto’ come lo definiva il suo demiurgo. La scelta del Barbera ha un ché di filosofico (i migranti per lavoro, al ritorno in Umbria, portavano sempre con loro barbatelle di quest’uva molto produttiva) e un ché di logico: i Merlot e Cabernet qui non avranno mai il corredo acido e gli aromi dei corrispettivi coltivati nell’Haut-Médoc, perdendone in termini di eleganza. L’aggiunta della Barbera, con la sua naturale freschezza, riequilibra il vino e lo rende elegante e longevo. Un altro colpo magistrale del Palini.

Fonte: Tuttoggi.info
I protagonisti di questa storia purtroppo non ci sono più: Domenico se ne è andato nel 1995, Alvaro nel 2018. Grande è però il loro lascito: un’azienda affermata, vini finissimi, un modo di produrre il Sagrantino rispettoso dell’uva e della tradizione, l’attesa come parte fondamentale del processo di vinificazione: da Adanti non si ha paura del tempo, sia il Sagrantino che l’Arquata Rosso attendono 7 anni dalla vendemmia, tra botti e bottiglie, prima di uscire sul mercato. L’azienda è oggi nelle mani delle figlie di Domenico, Donatella e Daniela, mentre molti dei segreti del sor Alvaro sono gelosamente custoditi dal figlio Daniele, l’attuale enologo della cantina. 
La prossima volta che berrete un Sagrantino, per piacere, fate un brindisi ad Alvaro e Domenico.

Fonte: cantineadanti.com
P.S.: io, il 26 ottobre, alcuni dei vini di Adanti li avrei anche degustati. Tra cui un Sagrantino del ‘99 che se ci penso mi metto a piangere.