Un anno del Catcher

Gentili signori, questo blog compie un anno (“Tanti auguri”. “Oh, ma grazie”). Un traguardo considerevole, dato il soggetto che vi scrive. Sì perché, tra le mie qualità, la costanza non è che sia andata spesso a medaglia. C’è da dire però che colei (o codella) si mette al volante solo in caso di passione concreta. Ebbene, il vino lo è, e tanto. È per questo motivo che il blog ha percorso questo anno fluido come un Monbazillac. E lo ha fatto indipendentemente dal numero dei miei cortesi lettori, cui va la mia sincera gratitudine.
Già, perché il blog è sostanzialmente un blocco appunti virtuale su cui scrivere di vino ed annotare gli assaggi delle bottiglie comprate volta per volta (il blog è autofinanziato; se siete in attesa di un pezzo sul Sassicaia o sul Monfortino, sedetevi comodi. Ah, portatevi un plaid, non sia mai rinfreschi). Ed è già appagante immaginare che qualche decina di persone vada a sbirciare di cosa abbia parlato nel nuovo post. Post, ci tengo a dirlo, nati senza una programmazione specifica e, molto spesso, scritti in brevissimi ritagli di tempo. Sì, voglio farvi comprendere il mio immane talento. Sto scherzando.

Guardando indietro, i 366 giorni appena trascorsi sono stati pazzeschi, realmente. Prima di tutto per la cosa più importante della mia vita, difficilmente eguagliabile da altro in futuro: sono diventato papà. No no, nessun paragone possibile, mai provate emozioni così intense. Mia figlia ha preso possesso della restante parte del cuore lasciata libera da mia moglie.
Scendendo di potenza emotiva, ma salendo di importanza enologica: il 27 febbraio ho agguantato il diploma da Sommelier con la Fondazione Italiana Sommelier. Due anni splendidi passati in quel di Frascati, nei quali la passione per il vino si è autoalimentata. Sarò sempre grato a tutti i miei docenti, ma l’applauso di ammirazione è riservato a Sara Tosti, Antonio Abbate ed Elvia Gregorace. Un ringraziamento speciale inoltre lo devo a Daniele Ferranti e Alessandro Tozzi. E vi dirò, è bello ogni tanto esprimere sincera gratitudine a qualcuno che si stima, ‘
Vanno poi menzionati anche i viaggi enoscopici: da Marco Antonelli ad Olevano Romano, dei Cesanese di Olevano Romano piacevolissimi e di grande onestà; da Adanti e dall’amico Alessandro a Bevagna, oramai diventati tappa fissa nelle mie peregrinazioni umbre. Eppure il viaggio che ricordo con più piacere è stato dal buon Tommaso Ciuffoletti, demiurgo del progetto Sciornaia nato a San Giovanni delle Contee. Aneddoti, visioni e gioiosa tenacia di chi cerca di combattere l’entropia del tempo, riuscendoci anche. Un paese che se ne starebbe seduto ad aspettare la fine della storia si ritrova, grazie a Tommaso, Tommaso ed Olmo, a prendere a calci la sedia, la fine e pure l’entropia, facendosene beffe. Una storia romantica se ce n’è una.

Voglio concludere riflettendo sul futuro di questo blog, sul suo stile, sul contesto enofilo in cui si trova (sul confronto fra Platone ed Aristotele, sulle madeleine di Proust, sulle idee di Schopenhauer per mantecare un risotto…). Devo ammettere che spesso, osservando l’enomondo ed i suoi abitanti, mi sento un po’ fuori contesto. La comunicazione del vino oggi è perlopiù affidata ai social media. Siamo nel 2020 ed è anche giusto che l’evoluzione abbia portato a questo. Osservo però come spesso l’attenzione venga posta più su chi parla del vino che sul vino stesso; per carità, ci può stare (che chi appaia in video o in foto poi scriva o dica banalità e/o bestialità ci sta un po’ meno), ma continuo a preferire chi si mostra defilato rispetto all’argomento del proprio parlare.
La mia idea è mettere il vino al centro dell’obiettivo. Non amo mostrarmi nei post mentre roteo il bicchiere o guardo una bottiglia con fare malinconico (tranne stavolta, ma è un post autocelebrativo): non aggiunge nulla a ciò che voglio comunicare di quel vino, inoltre la penuria di mie foto rende l’internet un posto più carino. Per ora mi diverte molto fare l’irriverente voce fuori campo. Sì, mi vedo così: una sorta di one-man-Gialappa’s Band del vino (ognuno ha le proprie aspirazioni, che volete farci). 
Comunque sia questo blog ha intenzione di progredire nel suo affinamento, così come il tizio strano che ci scrive sopra ha grandi ambizioni. Per cui continuate a leggere e nel frattempo bevete poco, ma dannazione bevete bene.


Vigneti Massa – Vino Rosato “Terra Libertà Marca Obertenga” 2018

Fare un vino rosato partendo da due uve a bacca rossa ed una a bacca bianca, metterlo in una bottiglia dal vetro scuro, nascondendone il colore, e chiuderlo con un tappo a vite. A chi potrebbe venire in mente un’idea del genere? A uno sprovveduto, un novizio, uno che non abbia idea di come funzioni il marketing. Oppure a un vignaiolo abituato a pensare fuori dagli schemi. Selezionate quest’opzione, perché il vignaiolo di cui si parla è Walter Massa.

E chi è Walter Massa?”. Miei cari fanciulli, Walter Massa è un patrimonio della viticoltura italiana, punto e basta. È uno che negli anni ‘80, in mezzo a un mare di Cortese disse: “e se ricominciassimo a piantare del Timorasso?”. Se fate silenzio sentirete ancora l’eco delle risate dei suoi colleghi di allora. “E perché mai? Il Timorasso è scorbutico, germoglia presto e matura tardi, le rese sono basse e il raccolto non è mai sicuro. Vuoi mettere con il Cortese, dalle belle rese, resistente e con i chicchi belli grossi?”. Walter Massa li saluta con l’altra mano e fa il dannato diavolo che vuole. Il risultato di oggi è che i suoi Timorasso sono dei vini mostruosamente grandi: eleganti, pronti da bere ma anche longevi. Con la sua determinazione, e praticamente da solo, ha messo sotto la luce dei riflettori la zona dei Colli Tortonesi. Direi che ha acquisito la giusta credibilità per produrre un rosato con quelle caratteristiche.

E ve lo dico, già con il tappo a vite ero stato conquistato. Sì perché bello il sughero, bello il romantico atto dello stappare, bello l’armadio, bella la cassapanca, bella la boiserie, ma se mai dovessi spendere centinaia di euro per una bottiglia di vino, coccolandomela per una decina di anni, e stappandola, magari per un’occasione speciale, quel vino sapesse solo di TCA (tricloroanisolo. Cartone bagnato. Tappo. Maledetto tappo.), ecco se accadesse diciamo che non affronterei la cosa con la dovuta calma e con senso della misura. E, se mai dovesse accadere, credo che se faceste il silenzio di cui sopra, sentireste stavolta parole che nella Bibbia non ci sono. Bene, tutto questo è evitabile con il tappo a vite. Game, set and match. “Eh, ma così il vino in bottiglia non evolve. È mummificato”. Ok, dico solo Riesling renano. Lì chiudono con il tappo a vite pure la porta della cantina, e mi sembra di ricordare che abbiano una più che discreta evoluzione nel tempo. Il discorso è lungo, ma sappiate che sarò sempre pro-tappo-a-vite.

 


Finalmente giungiamo al vino, un blend insolito composto per il 50% da Barbera, per il 30% da Cortese e per il 20% da Freisa, che nel calice è di un luminosissimo rosa ramato carico.

Il naso non gioca in punta di fioretto, eppure non difetta in eleganza e complessità, pur dichiarandosi vino di terra. Terra che, sotto forma di sentore olfattivo, fa da sfondo a tutte le sfumature odorose di questo vino, dal lampone all’arancia rossa, alla prugna rossa, alla fragolina di bosco, al fieno fresco e a un deciso sentore di liquirizia. 

In bocca il rosato di Massa non blandisce il fruitore (eh?), gli fa capire che è un vino, fatto e finito. Non si avvicina allo stereotipo banale del rosato morbidino e amabile al gusto. Questo rosato entra deciso, fresco ma con una sapidità notevole. L’aroma di bocca richiama gli aromi fruttati, con un finale di bocca piacevolissimo e molto lungo su toni di liquirizia.

Un vino rosato che sfida tutti gli stereotipi possibili, li accartoccia e li getta nel cestino in fade-away gridando “Kobeee!”. 

Luigi Giusti – Lacrima di Morro d’Alba DOC “Lacrima” 2018

Una delle affermazioni più divertenti da ascoltare è: “d’estate si devono bere i vini bianchi: i rossi sono troppo pesanti”. Ho disistima di persone che hanno detto cose meno gravi.

Certo, bere un Bordeaux in riva al mare a mezzogiorno, magari a temperatura ambiente (ma di quell’ambiente), risulterebbe autolesionista a livelli Van-Goghiani. Ma, grazie a madre natura, esiste una pletora di vini rossi dal diverso tonnellaggio. Ed esiste anche il frigorifero, non va scordato. Un vino servito sopra i 18 °C va bene solo se è vin brulè. 

La Lacrima è un vitigno semiaromatico, degnamente pigmentato, che trova come terra d’elezione le colline marchigiane attorno al paese di Morro d’Alba. Dolce e profumata, venne anche usata come uva da tavola, finché qualcuno non urlò come Steven Tyler che era un dannato spreco non vinificarne ogni singolo acino.

Ed ora la domanda che tutti i bambini mi fanno ogni volta: “Perché si chiama Lacrima?”. Bambini, non ci credereste mai: raggiunta la piena maturazione, la buccia dell’uva si lesiona facendo fuoriuscire delle rosse goccioline, come fossero appunto delle lacrime [esclamare tutti insieme “oooh”].


 

La Lacrima di Morro d’Alba DOC dell’azienda Luigi Giusti è 100% Lacrima (non è un dato da nulla: da disciplinare si possono utilizzare fino al 15% di altre uve rosse autorizzate). Dopo pressatura e fermentazione in acciaio, il vino svolge la fermentazione malolattica ed affina parte in botte grande e parte in barriques per 4-6 mesi, più altri 4 mesi in bottiglia per riprendersi dallo stress prima di uscire a visitare le terre emerse. 

Nonostante abbia quasi due anni, nel calice la Lacrima è di un rosso porpora pieno e quasi compatto, con una notevole carica antocianica. 

Il naso è ‘acchiappesco’. È intenso e profumatissimo, con una carica aromatica potente ma che non sfocia nella noia. Si ritorna continuamente ad annusare questo vino, il profumo è piacevolissimo, connotato principalmente da fiori, tanti fiori. Rosa, geranio, viola, glicine, sembra di stare in un vivaio. Si fa largo anche la frutta rossa e scura, soprattutto ciliegia e ribes nero. Poi, accompagnate da cenni leggeri di tabacco dolce, emergono due note importanti: menta e di pepe. E anche sostando vari minuti nel bicchiere il naso non perde né di intensità né di finezza.

In bocca si apprezza inizialmente la notevole componente acida, per nulla annientata dalla malolattica. Questa freschezza risulta azzeccata per dare equilibrio ad una bocca che comunque morbida. Il tannino è poco percettibile, l’ingresso è lievissimamente abboccato e molto intenso, mentre la chiusura è decisamente lunga, con chiusura su toni floreali.

È un vino rosso perfetto da bere in estate, nonostante il corpo non sia etichettabile come ‘esile’ (non è una Schiava altoatesina, per intenderci). Però ha grande serbevolezza e non fornisce alcuna sensazione di pesantezza. L’azienda consiglia di berlo a 16-18 °C, ma i meravigliosi profumi e la quasi assenza di tannino me lo hanno fatto apprezzare maggiormente attorno ai 14 °C. La prossima volta che farete una braciata, nella ghiacciaia una bottiglia di Lacrima fatecela capitare.


Sassotondo – Maremma Toscana DOC Ciliegiolo 2019

Il nome fa tanto. Il nome che una cosa si porta appresso ne determina il successo. Se un nome ha fascino, o se trasmette mistero, desterà curiosità in chi vi incappa. Portiamo il discorso sul piano dell’uva e del vino (e sennò cosa ci stiamo a fare qui):  Chardonnay. Suona bene, risveglia quell’esterofilia francese che rende tutto automaticamente à la page (e infatti lo Chardonnay lo piantano dappertutto in Italia, con risultati a volte discutibili). Altro esempio: Nebbiolo. Nebuloso, misterioso. Il nome attrae, l’unicità di gusto dei vini a base Nebbiolo poi fa il resto.
È vero anche il contrario: Sangiovese. “Ma come, l’uva più piantata in Italia? Che dà dei vini che sono il simbolo dell’Italia nel mondo?”. Bravi, ma per diventare famoso il Sangiovese ha dovuto cambiare nome: Brunello, Morellino, Prugnolo Gentile. Un po’ come Michele Salvemini, che è diventato noto a tutti solo col nome di Caparezza, anche se passando da un discutibile Mikimix (ora i puristi si incazzeranno per aver osato accostare Caparezza al Sangiovese. Well, my castle, my rules).
In questo scaglione trova posto anche il Ciliegiolo. Dal nome ci si aspetterebbe un vino leggerino, che sappia prevalentemente di ciliegia e stop. Eppure anche il Ciliegiolo ha molto da dire. Certo, magari non riesce a reggere il confronto con uve più complete come Sangiovese o Cabernet Sauvignon, ma possiede comunque una sua complessità, non si riduce a una Dr. Pepper liscia. E i ragazzi di Sassotondo puntano molto su questa varietà autoctona toscana, fin dagli esordi. 
Sassotondo nasce dalla volontà di Carla Benini e Edoardo Ventimiglia. La loro storia è comune a molti vignaioli: la vita cittadina che a un certo punto va stretta e il bisogno vitale di ritornare alla terra. E, se ci sono vocazione e dedizione, raramente i risultati saranno fallimentari. L’azienda Sassotondo sorge in piena Maremma toscana, a Sovana, frazione di Sorano (GR), su terreno prettamente tufaceo. Esordiscono con la prima vendemmia nel 1997, con uve da viticoltura biologica, evoluta nel 2007 in biodinamica. Uva di punta, come detto, è il Ciliegiolo, che viene vinificato in varie versioni, dalla “base” da me degustata ai cru aziendali del vigneto San Lorenzo.
 


Essendo una 2019, con nemmeno 12 mesi di vita, il colore del vino nel calice è prevedibilmente purpureo/violaceo molto profondo. Macerazione e fermentazione per 15-20 giorni senza lieviti aggiunti, poi svinatura e riposo per pochi mesi, tutto in acciaio.
La gioventù del vino si apprezza ancor di più al naso, con il tipico tratto vinoso che tanto fa dannare i corsisti sommelier. Poi, nomen omen, intensi ricordi di ciliegia, accompagnati da altra frutta rossa (fragola) e scura (mora). Notevole la componente floreale, di geranio e rosa, e intenso è un sentore a metà tra la terra secca polverosa e la pietra focaia. Per ultima si fa notare una nota speziata, di pepe e leggera noce moscata.
In bocca il vino è molto fresco, molto succoso e scarsamente tannico. Il sapore è intenso e persistente e il vino possiede un bel corpo, con un finale di bocca che oscilla tra frutto e sapidità. Per non essere il vino di punta di Sassotondo, è di ottima qualità, con una grande piacevolezza e facilità di beva.

Cave Mont Blanc de Morgex et de La Salle – Valle d’Aosta DOC Blanc de Morgex et de La Salle “Vini Estremi” 2018

Ci sono posti in cui, se vuoi coltivare una vigna, devi essere pazzo. Intendo il senso principale, il significato letterale del verbo ‘dovere’: essere obbligati, tenuti a fare qualcosa (Dizionario Sabatini-Coletti). E chi coltiva vigne in Valle d’Aosta (o anche in Valtellina, in Liguria o sulla costiera Amalfitana, per citare altri luoghi discretamente scoscesi) è obbligato, è tenuto ad essere pazzo, a non pensare in termini di normalità, di comodità. Non puoi portare un trattore su un terrazzamento a 1000 metri, a maggior ragione se questo è largo come una sdraio. Dissodare a mano la terra? Provateci voi, in una regione dove il suolo è spesso classificabile come ‘sasso’. Tutto questo ad altezze che, per il Priè Blanc, raggiungono tranquillamente i 1000 metri. 

Ribadisco, bisogna essere pazzi per fare vino in posti del genere (questo è il posto giusto per infilarci le parole viticoltura eroica); oltretutto vino che si compra a prezzi assai ragionevoli, che non restituiscono l’entità della fatica spesa per la loro produzione. E con i vini della Val d’Aosta difficilmente si manca il bersaglio.

La cooperativa Cave de Morgex et de La Salle, con sede a Morgex, riunisce un centinaio di soci per venti ettari totali di superficie vitata. Basta un briciolo di matematica per intuire come il territorio valdostano obblighi a un frazionamento dei vigneti a mo’ di mosaico. Il vitigno principe della zona è il Prié Blanc, vitigno d’altura se ce ne è uno, che dà il meglio di sé quando riposa sulle pupitres. La spiccata acidità, la mineralità e i profumi finissimi dovuti alle escursioni termiche della zona, fanno sì che il metodo classico sia l’opzione preferibile per esaltare quest’uva.

 

 

Il Blanc di Morgex et de La Salle “Vini Estremi” è la versione ferma del Prié Blanc valdostano. Un perfetto vino estivo, da servire a 8-10 °C per affrontare la canicola stagionale con le lance acuminate della sua freschezza (“La Settimana INCOM racconta il vino”).

Il dipinto in etichetta rappresenta un pingue ometto, dalle fattezze quasi boteriane, intento a governare un tralcio di vite in mezzo a una marea di rilievi, ammorbiditi dall’artista per non impressionare i più suscettibili. E anche così morbidamente rappresentata (vorrei vedere un paziente del Dr. Nowzaradan lavorare una vigna in una zona a pendenze spesso in doppia cifra), fa impressione la viticoltura valdostana, reclama rispetto.

Nel calice questo Blanc di Morgex et de La Salle mostra la paradigmatica brillantezza e cristallinità dei vini alpestri, con una colorazione giallo-verdolina appena accennata, quasi impercettibile. 

Il naso è mediamente intenso, con dominanti minerali, floreali e fruttate; i profumi principali sono di biancospino, di succo di limone, di mela verde ed in sottofondo si avvertono residue note di lievito.

La bocca è, come ipotizzabile già dalla tipologia di vino e dall’aspetto nel calice, molto fresca. La freschezza è il tratto principale, che solo verso il finale di bocca fa trasparire una discreta sapidità. Di intensità apprezzabile e media persistenza, il “Vini Estremi” è un buon esempio di vino alpestre, leggero (11,5% in alcol) e bevibile.

Tenute San Leonardo – Vigneti delle Dolomiti IGT Sauvignon Blanc “Vette” 2017

Scegliere un Sauvignon Blanc è un azzardo. Se non si è preparati il Sauvignon Blanc può riservare delle sorprese. È come un chihuahua, prima ti morde e poi ti fa gli occhi dolci (o viceversa. I chihuahua sono delle pessime persone). È il Colonnello Hans Landa di Bastardi senza gloria, è Bill Laimbeer dei Detroit Pistons

Insomma, è uno su cui non puoi fare totale affidamento. Ha fascino, lo si percepisce (ciò non si applica ai chihuahua; loro restano attrezzi del demonio). Per questo motivo ti sei arrischiato nel comprarne una bottiglia in enoteca. 

Ma ora non sai cosa aspettarti da lui. Dalla Loira viene giù moderato, con profumi gentili e freschezza; dalla Nuova Zelanda invece arriva bello potente, intenso, anche invadente con la sua frutta tropicale mitragliata nell’aria. E se poi toppo l’abbinamento con il cibo? Se lo sovrasta? E se invece viene sovrastato? E dove ho messo le chiavi? 

Calma, diamine. Fortunatamente solo alla morte non c’è rimedio. Voi volevate un Sauvignon Blanc elegante, finemente profumato e gentile al palato? Magari che sia anche poco costoso? Bene, ringraziate i Marchesi Guerrieri Gonzaga per il “Vette”, poiché costoro in Vallagarina producono un Sauvignon Blanc di grande fascino. 


Nel bicchiere è di un tenue giallo paglierino, con un naso intenso e molto, molto fine. Le note d’esordio sono incentrate sulla frutta tropicale (papaya, passion fruit, ananas e lime), fiancheggiate da un viale di fresie e gelsomino. Si percepisce una mineralità calcarea, quasi ‘ghiaiosa’, cenni di salvia e la classica nota di foglia di pomodoro del Sauvignon Blanc contraddistinta da grande delicatezza. 

In bocca è un vino davvero piacevole, sapido, abbastanza morbido e ancora piuttosto fresco nonostante i 3 anni di età. L’aroma di questa uva reclama il suo spazio, con i richiami di frutta tropicale, ma sempre in modo cordiale, non eccessivo, non violento. Persistenza durevole con chiusura agrumata. Un vino dal rapporto qualità/prezzo invitante e dalla beva facilissima.