Memorie di un enofilo: Vignaioli Naturali a Roma, 26/01/2020 (Parte I)

Non mi dà noia andare agli eventi del vino da solo. Sebbene non ami la solitudine né sia un sociopatico (non del tutto, almeno), in questo modo posso assaggiare i vini con calma, sviluppare il mio pensiero con i miei tempi e parlare con i vignaioli quanto voglio. E così è stato per Vignaioli Naturali a Roma 2020, evento che si tiene ogni gennaio nella splendida cornice / incantevole location del Grand Hotel Westin Excelsior di Via (Vittorio) Veneto a Roma.


La manifestazione vede ogni anno la partecipazione di un centinaio di produttori, alcuni nuovi ed altri ormai affermati. Io amo essere il più organizzato possibile, per cui prima di andare ho stilato la mia bella listarella di vignaioli da visitare, con tanto di ordine di assaggio, sapendo già che sarebbe andato tutto alla malora una volta entrato. Ma è solo essendo organizzati che si può improvvisare bene. Quindi, ondeggiando tra schemi ed estro creativo, ecco una sintesi di quanto è stato detto, fatto e bevuto la scorsa domenica. 



Un benvenuto che si rispetti viene sempre accompagnato dalle bollicine, per cui ho optato per La Palazzola di Stefano Grilli, un metodo classico da uve Cabernet: oro rosa, sapido e con piacevole nota di arancia rossa. Per gli spumanti di Stefano Grilli servirebbe un post a parte. Magari un giorno…



Si passa poi ai bianchi, partendo dall’Alto Adige con Garlider: un Müller Thurgau 2018 delizioso ed un Sylvaner 2017 strepitoso. Quindi ci si sposta in Germania, da Weingut Molitor Rosenkreuz, Riesling della Mosella. Una 2015 ancora ‘limonosa’, una 2014 non filtrata con freschezza ben mitigata, ed una 1999… meravigliosa, non aggiungo altro.


Tornando verso terre più prossime, Aia delle Monache con il suo splendido Asprinio di Aversa  frizzante 2018 sur lie. Non avevo mai assaggiato l’Asprinio e ne sono stato rapito, una verticalità magnifica. Nota a margine: i nomi dei vini di Aia delle Monache vincono a mani basse il premio della critica (ad esempio il nome dell’Asprinio è ‘L’intruso brillo col naso all’insù’).



Si continua sulla scia bianchista andando ad assaggiare il Trebbiano d’Abruzzo ‘Mario’s 45’ 2017 della Tenuta Terraviva, Vino Slow 2020, sapido e assai profumato di fiori e frutta a polpa bianca. Quindi si scollina nelle vicine Marche, direzione Fattoria San Lorenzo, il Verdicchio dei palmipedi. In ordine crescente di mesi elevazione sui propri lieviti, l’assaggio è stato: prevalentemente fresco il ‘di Gino’; fresco con piacevole componente sapida il ‘Le Oche’; molto complesso al naso, sapido e molto persistente il ‘Campo alle Oche’.



È il momento dei rossi, il primo dei quali è la  sorpresa di questo evento: Cantina Morone, Barbera del Sannio IGP (che dal prossimo anno si chiamerà Camaiola, come è giusto che sia) ‘NERO Piana’ 2017. Un rosso estremamente piacevole, profumo di geranio e spezie dolci, beva assai agile. 



Finalmente giungo al cospetto della cantina obiettivo principale dell’evento: Ar.Pe.Pe. Valtellina, perfettamente rappresentata urbi et orbi dalla globetrotter Isabella Pelizzatti Perego. Un vero piacere parlare con lei, una cortesia ed un’educazione che andrebbero insegnate a molti produttori (non faccio nomi, ma sono parecchi). I vini di Ar.Pe.Pe. sono un’elegia della Chiavennasca (l’altro nome del Nebbiolo, usato in Valtellina), partendo dal succoso e fruttato Rosso di Valtellina 2017. Poi è la volta dei Valtellina Superiore, partendo dal ‘Pettirosso’ 2016, con uve provenienti dalle due sottozone Grumello e Sassella . Si prosegue con il Grumello ‘Rocca de Piro’ 2015, con una morbidezza delicata, e il Grumello Riserva ‘Sant’Antonio’ 2013, più severo e corposo. Conclusione con lo splendido Sassella ‘Ultimi Raggi’ 2013, uno Sforzato che non può essere chiamato così per via dell’appassimento dell’uva in pianta e non sui graticci, come imposto dal disciplinare; vino morbido, speziato, assai persistente e di un corpo pieno, giammai pesante. 



Devo confessare la mia sfacciata fortuna: ho potuto condividere la degustazione di questi vini con Odilio Antoniotti, storico produttore di Bramaterra, che ha abbandonato per un momento il proprio stand per vestire i panni dell’assaggiatore. Sentir parlare Isabella Pelizzatti Perego ed Odilio Antoniotti del Nebbiolo, delle fatiche e delle soddisfazioni nel lavorarlo, delle differenze organolettiche fra i propri vini, è stato un privilegio di cui il caso mi ha indegnamente omaggiato.


A questo punto mi sono sentito in dovere di proseguire lungo la via del Nebbiolo, andando a trovare proprio Odilio Antoniotti da Casa del Bosco (BI): un Coste della Sesia 2016 elegante e bevibilissimo e un Bramaterra 2015 severo ma di gran carattere. Ah giusto, c’era anche il ‘Pramartel’, un “semplice” vino da tavola da uve Nebbiolo, Croatina, Vespolina e Uva Rara, che avrei bevuto come l’acqua di una fontanella dopo una corsa nel parco.

Concludo qui la prima parte del resoconto, ma vedete di restare sintonizzati per il secondo tempo.

Marco Ludovico – Puglia IGP Verdeca 2017

È semplice, molto semplice, giudicare un produttore di vino sulla base del vino top di gamma. Il vino di punta di un’azienda riceve la maggior parte delle attenzioni, viene coccolato, gli si leggono anche le favoline per farlo dormire sereno. Poi, quando è il momento di uscire sul mercato, si fa in modo che se ne parli, che i cantori dell’enofilia ne tessano le lodi. Il vino di punta è il frontman della band, quello che fa piangere le teenager e che può permettersi di fare crowdsurfing (“quanto cazzo sono British”, cit.).
Ok, ma gli altri vini? Se dovessimo giudicare le aziende solo per il loro vino base, il loro vino meno caro, queste come ne uscirebbero? A giudicare da alcuni assaggi, ci sono aziende che trattano il loro vino meno prestigioso con una considerazione di poco superiore all’acqua di bonifica dei tini di fermentazione. Poi ci sono persone serie, che dedicano attenzione anche alle loro bottiglie meno quotate, in modo che escano al loro massimo livello pur essendo le meno remunerative. Tipo Marco Ludovico.
Siamo al secondo vino del giovane vigneron pugliese su questo blog, il vino base della sua schiera: una Verdeca in purezza, vitigno bianco tipico delle Murge Tarantine. Ricordiamolo: siamo nella terra delle Gravine. Ciò significa solo una cosa: calcare, calcare e ancora calcare. Un terreno roccioso, non molto profondo, con poca gentilezza nei confronti della vite (che, beninteso, nei terreni poveri ci sta da dio. Avrei detto “ci sguazza”, ma in un terreno secco come fai a sguazzarci… vabbè, avete capito). In questi territori la Verdeca sviluppa una forte connotazione minerale, legando a doppio filo l’uva al proprio terroir.
La Verdeca di Marco viene raccolta manualmente una volta giunta a maturazione, quindi pigiata e il mosto fermenta solo con lieviti indigeni. Il vino prosegue l’affinamento in acciaio sur lie, con frequenti batonnages, per 6 mesi. Infine ad aprile il vino finisce in bottiglia, senza chiarifica né filtrazione. Sissignore, nella bottiglia ci sono i lieviti, il vino è col fondo, è velato (come dichiara lo stesso Marco sulla scheda tecnica), ci sono le fecce fini, insomma immaginatevela come vi pare. Inorridite anche, se ciò vi rassicura. Ma poi prendetene una bottiglia, aprite e bevete. Tanto il vino è buono e valido. Garantisco io.


La Verdeca scende dorata nel calice. Eppure non è tutto, c’è dell’altro. A calice fermo non si nota molto, ma roteandolo si nota una sfumatura rosa. Come sarebbe ‘rosa’? Ragazzi, questo è. C’è una bellissima sfumatura rosa all’interno del vortice che si crea con la rotazione del calice.
Il primissimo naso è un po’ imbronciato, come uno che si è appena alzato ma che avrebbe dormito volentieri un’altra mezz’oretta. Però questo tizio alla fine è una gran brava persona, e imbronciato ci resta davvero poco; una stiracchiata di braccia ed eccolo pronto ad affrontare la vita. Ok, mi riallaccio al profumo del vino: ci mette assai poco per passare dalla chiusura iniziale ad una sequenza di profumi. Si parte con un agrumato di limone e lime, seguono salvia e rosmarino, quindi ananas, pesca, nocciola e mandorla tostata, crosta di pane, liquirizia e zenzero candito. Ma ho volutamente lasciato per ultimo il sentore principale, quello che fa da sfondo a tutti gli altri sentori: una mineralità estrema, un potente sentore che ondeggia tra il salmastro e la polvere pirica. Non è soffuso, è ben deciso e dà un’idea di cosa ci aspetterà all’assaggio. Assaggio che denota una iniziale severità, una bocca bella secca, con freschezza ancora in evidenza nonostante i due anni di età; bastano però uno o due secondi e si apprezza anche una discreta morbidezza ed un gran sapore, intenso e molto persistente, con chiusura ammandorlata. Anche qui ho lasciato per ultimo la caratteristica principale, ovvero l’importante sapidità che il calcare delle Murge regala alla Verdeca. 
Io pensavo di essere a posto con l’assaggio, ma parlando con Marco ho avuto un interessante input: lui beve la sua Verdeca capovolgendo un paio di volte la bottiglia prima di versarla nel bicchiere. Un batonnage in bottiglia. Potevo esimermi? Il giallo dorato si fa appena appena velato, il profumo vede accrescere la fragranza del lievito, senza andare ad offuscare gli altri profumi, mentre in bocca aumenta di un poco la morbidezza e si mitiga l’ammandorlato finale. 

Fonte: upload.wikipedia.org
Avviso ai lettori, verrà adesso fatto un azzardato parallelo finale eno-artistico: bevendo ed ascoltando solo le sensazioni del ‘cuore’ e non della ‘testa’, un’immagine nitida mi è balzata alla mente: “The valley of the shadow of death”, una foto di Roger Fenton del 1855. Era la guerra di Crimea e Fenton fotografava una landa desolata coperta di rocce e palle di cannone. La mineralità, il profumo, il sapore di questa Verdeca mi hanno ricondotto istantaneamente a questa enorme fotografia. Potere delle suggestioni, quando si lascia che svolazzino libere.

Marco Ludovico – Puglia IGP Primitivo 2017

Per questo e per i prossimi due vini devo in qualche modo ringraziare il sor Zuckerberg. Tutto nasce da un messaggio, dove il buon Marco Ludovico si presenta e mi invita ad andare a trovarlo a Piacenza per il mercato dei vini FIVI. Era novembre 2019. Io noto questo messaggio l’1 gennaio 2020. Ai più attenti di voi non sarà sfuggito che mi sono accorto del messaggio in copioso ritardo. Scrivo quindi a Marco, giustificando il ritardo con le scuse più becere (le feste natalizie, la connessione fallace, il maltempo, i lanzichenecchi, il gomito che fa contatto con il ginocchio). Parlando con lui resto incuriosito dal suo percorso e dalla sua visione del vino. In breve tempo arrivo ad ordinargli dei vini: Primitivo e Verdeca, a cui Marco aggiunge di sua sponte un ”Amforéas”. Degli altri due parlerò prossimamente, quest’oggi l’attenzione è posta sul Primitivo. Non prima però di aver parlato di questo giovane e bravo vignaiolo.
Marco è praticamente cresciuto in mezzo ai filari. Tre generazioni di viticoltori lo anticipano, con il padre Giangiuseppe che nel 2003 fonda l’azienda vinicola Masseria Ludovico. Seguendo questa scia Marco va ad Udine a studiare viticoltura e enologia; quindi intraprende un discreto tour, che lo riporta a Manduria, per poi toccare Napoli, Montalcino, e da lì lanciarsi fino a Mendoza (Argentina) e Blenheim (Marlborough, Nuova Zelanda). Un bagaglio di esperienza invidiabile, le sue conoscenze e considerazioni sul vino ne risultano enormemente ampliate. Torna nell’azienda di famiglia, ma tutte queste esperienze lo pungolano giorno dopo giorno. Fino a quando Marco ritiene sia giunta l’ora di produrre vino in proprio, secondo un concetto che fosse tutto e solo suo. Nasce l’azienda “Marco Ludovico – Enoartigiano in Terra delle Gravine”.
Questa definizione è fondamentale, ‘enoartigiano’. Racchiude in pratica tutto il pensiero di Marco: il suo vino elude la sfida convenzionale/naturale; il suo è un vino artigianale. Vuol dire andare oltre le classiche catalogazioni del vino, ormai stantie, noiose e in molti casi prive di vero significato. Il suo vino, soprattutto, vuole essere un vino ‘onesto’, un aggettivo che io considero splendido: l’obiettivo di Marco è far deflagrare nel bicchiere vitigno e territorio, in modo che il vino possa esprimere appieno la propria unicità (e sarebbe un sacrilegio offuscare un territorio come quello della Terra delle Gravine, quasi totalmente calcareo, splendido per la coltivazione della vite). Marco riesce in questo intento intervenendo il minimo indispensabile in vigna come in cantina (uso di lieviti indigeni, nessuna chiarifica né filtrazione, solfitazione minima), tutto il lavoro lo lascia fare all’uva, basta che giunga perfetta in cantina. Voi direte “ok, in un vino bianco ce la fai a portare il territorio, ma con un’uva così potente come il Primitivo ciò non può essere possibile”. Spoiler: Marco ce la fa.

Io credevo che un Primitivo pugliese non potesse che essere un vino corposo, morbidone, fruttatissimo. Questo vino invece danza con altre scarpe. Le uve Primitivo di Marco Ludovico crescono felici e spensierate su terreni calcarei ricchi di scheletro, posti a 300/400 metri s.l.m., molto ventilati e con notevoli escursioni termiche. Questo terroirpermette al Primitivo di sviluppare una bella quantità di precursori d’aroma, tradotti poi in splendidi profumi durante la fermentazione alcolica e l’affinamento (un annetto abbondante passato per l’85% del vino in acciaio e per il restante 15% in barrique usate di rovere di Slavonia).
Vado dunque a stappare la bottiglia, provando al contempo esaltazione e un po’ di timore. Parliamoci chiaro, fare un vino solo con lieviti indigeni, senza altri interventi in cantina, e farlo anche buono non è impresa facile. Ne ho assaggiati molti di vini che si vedono difendere i molti difetti organolettici con il pretesto del non-interventismo. Ma lo scopo principale di un vino è sempre e solo uno: essere buono da bere; la naturalità dell’intero processo è un grandissimo valore aggiunto, ma arriva sempre e comunque dopo il gusto. Ecco, il Primitivo di Marco Ludovico unisce utile e dilettevole in maniera eccellente.
Verso il vino nel bicchiere: è di un bellissimo rosso rubino, sferzato da tenui riflessi purpurei.  Rimango spiazzato: riesco ad intravedere la tovaglia attraverso il liquido. Ora ditemi chi di voi ha mai ambito ad avere una sorta di visuale attraverso un calice di Primitivo. Il banale pensiero è che, se tanto mi dà tanto, se nel calice è meno compatto, anche al naso e in bocca sarà meno intenso, no? Bravo, no. Perché il profumo di questo vino è sì delicato, ma di sentori ce ne sono davvero tantissimi. Escono tutti in modo gentile, eppure si percepiscono nettamente. A calice fermo si avvertono more di rovo e mirtilli. Poi una delicata roteazione del calice (non vi fate vedere che centrifugate il vino come foste una lavatrice, per piacere) e si dipanano ulteriori note di frutta: fragola, ciliegia, arancia rossa. C’è un sentore ematico di fondo molto leggero, c’è profumo di macchia mediterranea, di pino. Qualche minuto di ossigeno e affiora anche un mare di spezie: cannella, noce moscata, liquirizia e pepe rosa. Un bouquet davvero molto elegante. 
Eleganza che si replica in bocca, la parte più sorprendente dell’assaggio. Il sorso è fresco, incredibilmente succoso e snello, con una leggera trama tannica a corredo ed una chiusura che ricorda mirtilli e ciliegie. E anche qui non assomiglia al vostro classico Primitivo, ma non ci trovo una mancanza di tipicità, perché l’uva e il territorio sono stati pienamente rispettati. È solo diverso il concetto secondo cui Marco Ludovico vinifica: la volontà di dimostrare che un Primitivo pugliese può essere anche un vino elegante e leggero, simile ad un Pinot Nero neozelandese (e non è un paragone buttato lì a casaccio; provatelo e poi ditemi). Nota aggiuntiva: il vino è di una bevibilità incredibile per quanto risulta leggiadro.

Concludo con un’impressione musicale: mentre bevevo il vino mi risuonava in testa Going Up The Country dei Canned Heat. Vado a spiegarmi: praticamente tutte le canzoni dei Canned Heat sono state cantate da Bob Hite, una voce possente. Solo poche di esse (ad esempio Going Up The Country e On The Road Again) sono state cantate dalla voce leggera, sottile di Alan Wilson, caratteristica che ha contribuito a renderle eterne. Perché spesso non è con la potenza che si raggiungono grandi risultati, il Primitivo di Marco Ludovico ne è ulteriore esempio.

Lungarotti – Torgiano Rosso Riserva DOCG “Rubesco Vigna Monticchio” 2011

Arriva sempre il momento in cui gli scrittori incappano in una grande difficoltà. Non parlerei di un ostacolo, piuttosto di un qualcosa che affascina ed emoziona, ma al contempo atterrisce e rende inermi. Si suppone che uno scrittore sappia scrivere bene e di tutto, eppure alcune cose emanano un fascino tanto potente da far vacillare anche il più abile dei parolieri. Cose che si adorano e a cui si puntava da talmente tanto tempo che, una volta raggiunte e vissute, scatenano un turbine vigoroso di sentimenti, tale da non consentire l’elaborazione di pensieri complessi. Il cuore salta un battito, il respiro si fa profondo, un sorriso accennato sulle labbra, negli occhi l’emozione del momento e, immediatamente dopo, un freddo, la sensazione di non saper tradurre in parole tanta emozione senza piombare nella banalità. 
Ecco, questo accade ai veri scrittori. Per me la faccenda è un po’ più complessa. Il vino in questione è leggendario e io, ad oggi, non sono neanche un sommelier (oltre a non essere uno scrittore). Per il senso di umiltà ed inadeguatezza che provo nei confronti di questo vino non sono nemmeno sicuro di voler entrare nei dettagli della sua realizzazione. Sarebbero dati oggettivi, ma c’è comunque il rischio di essere inesatti. Perché il ‘Vigna Monticchio’ merita grande rispetto e precisione, cose che io non credo di poter ancora assicurare. Fortunatamente posso sfruttare (e lo farò) chi è più bravo di me. Molto più bravo di me. Sto parlando di Jacopo Cossater e del suo pezzo pubblicato su Intravino giusto un anno fa. Un racconto completo e un eccellente omaggio a questo vino, la cui lettura varrebbe la pena anche solo per cultura personale. 

Giusto per metterci comunque in carreggiata con la minima e fredda cronaca: il ‘Rubesco Vigna Monticchio’ nasce a “Brufa, frazione di Torgiano che guarda a nord e che fa idealmente da spartiacque tra i territori di Perugia e di Foligno, due vallate che si incontrano proprio alle pendici della sua collina. Un appezzamento piuttosto esteso, di circa 15 ettari, esposto in modo abbastanza omogeneo verso il tramonto e compreso tra i 260 e i 290 metri sul livello del mare. Qui come in molte altre zone della provincia i terreni sono di origine lacustre, con notevole variabilità pedologica: frange argillose si alternano a zone più sabbiose specie nelle parti più basse del vigneto, un versante ricco di elementi calcarei e depositi di limo” [tratto dall’articolo di J. Cossater]. Dopo la vendemmia il mosto di sole uve Sangiovese (una volta era presente anche un saldo di Canaiolo) fermenta in acciaio, con macerazione sulle bucce per 15-20 giorni. Quindi viene trasferito in barrique, dove avviene la conversione malolattica e dove sosta un anno, per poi riposare beatamente alcuni anni in bottiglia prima di uscire sul mercato (l’annata attualmente in commercio è la 2015).

Io ho avuto la fortuna di accaparrarmi questa 2011 un anno fa, a Todi. Poi un anno di conservazione e l’attesa del raggiungimento di un livello maggiore di consapevolezza prima di aprirla. Sì, sono d’accordo con voi: chi non ha questa passione/adorazione/malattia del vino e legge che un cristiano attende un anno prima di aprire una bottiglia, perché deve prima “raggiungere un certo livello di consapevolezza”, non può che esserne turbato. Se non commenta nulla ha già compiuto un atto di misericordia, di cui le divinità terranno buon conto. Ad ogni modo, domenica scorsa l’attesa è finita. Nessun motivo particolare, nessuna celebrazione: semplicemente prendo la bottiglia, la guardo e la apro.
E ci siamo: ho nel calice un monumento della cultura enologica italiana, proveniente da una regione che adoro. L’ho aperto senza uno scopo celebrativo. Devo finire ancora il corso sommelier. Ce la farò a capire cosa ho appena stappato? Mi emozionerà o mi sembrerà semplicemente buono? Non c’è mica la possibilità che ne rimanga deluso, vero? E poi cosa ne scriverò? Hanno scritto miliardi di parole sul ‘Vigna Monticchio’, cosa potrò dire di nuovo? Meglio: cosa potrò dire di nuovo o che non suoni ridicolo? E quante maledette domande voglio ancora farmi? Basta, occhi chiusi e naso nel bicchiere.


Silenzio. È una sensazione ed è di silenzio. Sono due minuti che il vino è nel bicchiere, colorato di rosso rubino intenso appena bordato di granato. Ma c’è gran quiete. Ed ecco i fantasmi, i timori: “ah, tu non hai il naso per questi grandi vini”; “ah, tu non capisci niente”; “ah, lascia questi vini a chi ne capisce” (i fantasmi e i timori cominciano le loro frasi sempre con un solenne “ah”, diciamo come Giampiero Mughini, ma con il tono più alto di un’ottava; per questo sono fastidiosi). Però io ho fiducia e, soprattutto pazienza. E intanto raccolgo i primi sentori: viola, ematicità e sottobosco. Poi l’ossigeno va a svegliare i musicisti, i quali cominciano a suonare: cassis, amarena, una potente balsamicità mentolata, tabacco, cenere, cacao. Passano altri minuti ed è Jimi Hendrix a Monterey: il bouquet è emozionante. Marzapane, incenso, noce moscata, chiodo di garofano, mirto, china, radice di liquirizia, cioccolato fondente, vaniglia. Non è casuale, né tantomeno un atto studiato, che io sia andato più e più volte con il naso nel calice nel corso della serata. E comincio a capire quando un vino lo si definisce emozionante. 
Mancherebbe ancora l’assaggio. E che ve lo dico a fare: pieno, avvolgente, tannico il giusto, estremamente persistente. Anche qui l’effetto benefico della respirazione in vitro dà i suoi frutti, rendendo questo meraviglioso vino ancora più morbido ed elegante, con un finale di bocca che passa dal cacao amaro dei primi istanti al cioccolato fondente. 
L’incoscienza è la stella polare di questo blog. Con incoscienza ho potuto buttare giù in poche ore queste righe, cercando di tramutare in parole le emozioni provate grazie a questo vino magnifico. Spero, per quel minimo che è nelle mie capacità, di avergli reso il giusto merito.

Raìna – Spoleto DOC Trebbiano Spoletino 2018

Francesco Mariani è un grande. Senza troppi giri di parole. Se due indizi cominciano a fare una prova, dopo un suo sontuoso Montefalco Rosso 2016, bevuto come si beve un thè freddo dopo una partita di beach volley, sento ora di potermi esporre con il Trebbiano Spoletino 2018. La sua cantina in quel di Montefalco è già nel mio mirino, presto o tardi andrò ad arrecargli disturbo (sempre che non mi cacci a pietrate. Nel qual caso, lo capirei benissimo). Già perché, come se non bastassero i suoi vini, anche la sua storia desta interesse: nato cuoco, nel 2002, a 24 anni, diventa viticoltore con l’amico Andrea Mattioli e sceglie di coltivare le sue viti seguendo i precetti della biodinamica, senza l’ausilio di prodotti chimici convenzionali e di lieviti selezionati. Battezza la sua cantina ‘Raìna’, il soprannome del contadino che coltivava quelle terre prima di lui, e comincia un’ascesa che lo porta al momento attuale, dove Raìna è un’azienda di riferimento nell’areale del Sagrantino. Ulteriore nota di colore: il nickname di Francesco Mariani su Instagram è @maturana78. Sono piuttosto certo che l’omaggio sia stato fatto ad Humberto Maturana, biologo, sociologo e filosofo cileno. Io sono molto più elementare e mi piace vederci un parallelismo con Francisco Maturana, leggendario allenatore colombiano degli anni ’90. La comparazione non è che sia poi così illogica: Francisco Maturana ha portato il gioco della Colombia negli anni ’90 su vette di assoluto splendore, mai raggiunte in precedenza. Non aveva a disposizione i tanti talenti brasiliani o argentini, non ha neanche raccolto quanto seminato, esclusa la Copa América del 2001 (vinta senza subire alcun gol), ma delle sue squadre restano in mente ancora oggi brillanti lampi di calcio (un esempio su tutti: Estadio Monumentàl di Buenos Aires, 1993, Argentina – Colombia 0-5). L’ardire di mettersi a giocare con i ‘Brasile’ ed ‘Argentina’ dell’areale di Montefalco, il perseguire una strada non ancora asfaltata e sicura come quella della biodinamica e gli ottimi vini prodotti contribuiscono a farmi propendere per questo paragone.


Con il Trebbiano Spoletino Raìna percorre la strada della macerazione sulle bucce per 10 giorni, a guisa di orange wine, con affinamento in acciaio. Lo Spoletino, lo abbiamo visto recentemente, è un vitigno che si presta a molteplici interpretazioni ed ancora non ne è stata definita una linea stilistica precisa. La macerazione sulle bucce dona al vino innanzitutto un colore che ondeggia tra l’oro e l’ambra. L’intensità del profumo è notevole, le prime note che risaltano sono miele e propoli, seguite poi da un grazioso mazzolino di fiori: rosa, ginestra, mimosa e camomilla. La carrellata di odori continua, con albicocca, mandarino e bergamotto, con zenzero e scorze di arancia canditi, con tante spezie, pepe bianco, noce moscata e cannella, ed erbe aromatiche, salvia e mirto. Infine cenni di grano, mandorla e sullo sfondo una mineralità calcarea. Una complessità stupenda. In bocca il vino scorre fresco, sapido e con una sensibile tannicità, ricco di sapore e con una chiusura di mandorla fresca. Più che discreta anche la longevità a bottiglia aperta, con il vino che resta godibilissimo mantenendo quasi immutati profumo e sapore. 
Rileggo tutto. Rileggo la prima frase. Confermo.

Cusumano – Etna Rosso DOC “Alta Mora” 2014

Alcuni luoghi possiedono un fascino innato. Luoghi estremi, dove la presenza dell’uomo non incide. Luoghi che atterriscono, che fanno paura e che, proprio per questo, attraggono. Non penso esista nessuno che, di fronte alle immagini di una colata lavica, non rimanga rapito, in contemplazione. Immagino che pensi alla potenza della natura, all’insignificanza dell’essere umano quando la terra decide di scuotersi dal torpore. Poi certo, passato l’ancestrale stupore, l’individuo medio tornerà a pensare che sia colpa degli alieni, che i terremoti siano prevedibili, che i vaccini causino l’autismo e che Elvis sia ancora vivo e vegeto e coltivi tamarindi a regime biodinamico sull’isola di St. Elena. La vita è una faccenda triste per i non romantici.
Recuperando le redini del discorso, il luogo intorno al quale stiamo trotterellando è l’Etna. La tendenza naturale sarebbe farcire lo scritto di dati noti a tutti, ma non lo farò. Dirò invece che, contrariamente a quanto la logica possa suggerire, molti sono stati gli uomini che nei secoli hanno sfidato la volontà della muntagna, piantando barbatelle su terreni neri come le ombre. Ora, se sei sulle pendici di un vulcano, tendi a pensare che non sia proprio il posto più sicuro per avviare una longeva attività. Basta che il vulcano abbia un minimo raffreddore e ti ritrovi con un campo di stuzzicadenti. E invece i viticultori siculi non hanno fatto bene, hanno fatto un gran bene. Il terreno vulcanico è meraviglioso per la viticoltura e, con i vitigni giusti, si imbottiglia un vino da ovazione. È il caso dell’Etna DOC, tipologia in incredibile ascesa ormai da una quindicina di anni. Fino agli anni 2000 la Sicilia del vino era identificabile con Nero d’Avola e, al limite, Syrah. Il povero Nero d’Avola ha seguito la parabola del Parma Calcio: un’epoca di incredibili fasti ed un declino repentino. Dall’altro lato la crescita dell’Etna DOC sembra inarrestabile, con una pletora di produttori che sgomitano per accaparrarsi ettari all’ombra del Mongibello e con la nascita di parallelismi piuttosto azzardati tra l’areale dell’Etna e la Borgogna (ma perché dobbiamo sempre cercare la somiglianza con i francesi? Non credo esista un singolo francese che abbia mai fatto un parallelismo tra l’Alsazia e le Dolomiti o il Collio Friulano. E questo perché non ce ne è alcun bisogno, diamine). 



L’Etna Rosso “Alta Mora” vede la luce sul versante nord del vulcano, con i terreni di proprietà di Cusumano siti a 500 metri s.l.m. Il vino, vendemmia 2014, 100% Nerello Mascalese, è di un rubino splendente nel bicchiere. Un profumo molto diretto, che segnala a chiare lettere la provenienza. Frutti a bacca rossa, cenere e pietra focaia, humus, nota ematica, vasta speziatura con pepe nero e cardamomo, origano, mirto e rabarbaro, la terziarizzazione è appena accennata con una scatola di sigari ed una leggerissima vaniglia. Una bella complessità, che viene rivissuta anche all’assaggio. La bocca, nonostante i 6 anni, è ancora fresca e ben sapida, con un tannino assai delicato, una persistenza molto lunga e con una chiusura che ricorda la radice di liquirizia. L’”Alta Mora” è realmente facile da bere ed è sorprendente come i 14 gradi di alcol non taglino le gambe. Ovviamente, anche se non si sentono ci sono: dominatevi!

Bosca – Asti DOCG Secco

Appena ricevuta la bottiglia, portata in dote da amici per festeggiare l’ultimo dell’anno, ho pensato “Asti spumante secco? Mai sentito”. Subito mi sono attapirato, accusandomi di ignoranza e di scarso impegno nello studio. Triste come un pantalone di velluto marrone a costine, sono andato a cercare informazioni su questa tipologia a me nuova. Infine il sollievo: il Consorzio di Tutela dell’Asti DOCG ha deciso di puntare forte su questa tipologia solo dal 2017, sguinzagliandola sul mercato per provare ad insidiare il predominio del Prosecco negli aperitivi italiani. Avrei comunque dovuto conoscere la notizia, ma alla fine ritengo il mio orgoglio parzialmente salvo. La partita Prosecco – Asti secco essenzialmente si gioca sul gradimento o meno della componente aromatica dell’uva Moscato Bianco. Il profumo di un Moscato sarà quasi sempre più intenso ed ‘invadente’ rispetto al Prosecco. C’è chi gradisce e chi detesta quest’ondata di profumi, tutto però rimane nella soggettività e nel gusto dei bevitori. Il dato oggettivo è che un altro valido Metodo Charmat italiano è disponibile sul mercato.
Bosca è una cantina storica di Canelli, ma la definizione è tremendamente limitante. Facciamo così, giusto per mettere tutti in carreggiata: è una delle quattro cantine, assieme a Contratto, Coppo e Gancia, che possiede e permette di visitare le Cattedrali Sotterranee. Cosa sono? Niente, solo km e km di gallerie scavate nel tufo secoli fa, che l’Unesco ha eletto a Patrimonio dell’Umanità in quanto parte del Paesaggio Vitivinicolo del Piemonte. Beh, diciamo che esistono cantine molto meno affascinanti, lei signora cosa ne pensa?



Devo dire che questo spumante, dal colore giallo paglierino e dal perlage sottile, è stato una felice scoperta. Il profumo è, come ipotizzabile a priori, molto intenso ma non dà affatto noia. Non è una sventagliata di mitra carico a boccette di aromi, è un profumo molto equilibrato, dove a dominare sono fiori e frutta: rosa, gelsomino, glicine, litchi, ananas, papaya, frutto della passione, agrumi… In questo frutteto si fa notare anche una nota di salvia e una mineralità calcarea. Assaggiando il vino si apprezza una bella cremosità, evidente e piacevole freschezza, equilibrata da una certa morbidezza, forse portata in dote da un minimo di residuo zuccherino non del tutto convertito ad alcol (la gradazione è 11%). Tuttavia il vino è certamente secco, non arriverei a definirlo abboccato, ed è piuttosto persistente. In ultimo, ho molto apprezzato l’aver tenuto sotto controllo l’amaricante finale, che uve così ricche di terpeni portano con loro, lasciando nel filane di bocca solo un leggero sentore ammandorlato.