Le Piane – Vino bianco “βιαηκΩ” 2018

L’Italia ha un patrimonio viticolo che conta più di 300 vitigni autoctoni differenti. È fondamentale per un sommelier, o chiunque si spacci per divulgatore di vino, assaggiarne il più possibile. Magari anche registrandone le caratteristiche principali nei dendriti, in modo da poterne parlare con cognizione di causa e senza ricorrere ai trucchetti del mestiere. Ed io, avendo voglia di conoscere il vino, di scrivere di vino e, voless’Iddio, di parlare un giorno di vino sotto lauto compenso davanti ad una platea commossa ed osannante (ok, anche meno), giocoforza dovrò assaggiarne il più possibile di questi vitigni. Ed era troppo ghiotta l’occasione delle feste natalizie per non sfruttarla a tale scopo.
Dato che ci troviamo in pieno nel periodo “il vino lo porti tu, che sei sommelier” (tecnicamente non ancora, ma spiegaglielo), la gita in enoteca era più scontata di una schiacciata di Kobe Bryant in campo aperto. Da lì sono uscito, oltre che con il vino necessario al pasteggio, con altre prede. Tra queste figurava il “βιαηκΩ” di Le Piane. Completa diarchia tra bene e male, tra pulsione e repulsione, tra sfortuna e fortuna. Sfortuna, perché non è il classico Erbaluce di Caluso che stavo cercando, quello didattico, paradigmatico, da far conoscere ai novellini come me per avere idea di come un vino da uve Erbaluce possa essere. Fortuna, perché senza saperlo ho avuto accesso ad un gran vino. 


Riporto le caratteristiche di vinificazione: “Le uve del Le Piane Bianco vengono vendemmiate attraverso una raccolta manuale. A seguito di una morbida pigio-diraspatura avviene la fermentazione in vasi diversi (cemento, amphora rivista, botte di acacia) e una prova di macerazione lunga sei mesi. Il vino subisce un affinamento in acciaio” (fonte: vinodalproduttore.it).
Questa vinificazione così particolare potrebbe dare un’impronta molto marcata al vino, con il rischio di renderlo più complicato che complesso. Invece il vino è ben agile, nonostante non manchi di carattere. Nel bicchiere risulta di un bel paglierino intenso tendente al dorato. Appena stappato e versato si percepisce subito una forte componente minerale, a ricordare la pietra calcarea e il granito. Leggendo della pedologia del territorio di Boca, apprendo che il suolo è di natura alluvionale, detriti provenienti dai ghiacciai del Monte Rosa e trasportati dal Toce e dal Sesia. Questi suoli alluvionali, caratterizzati da un pH decisamente acido, sono adagiati sulle sabbie, ghiaie ed argille lasciate a Boca dal mare un tempo lì presente. Per cui è più che normale che il vino sia caratterizzato da questa imponente mineralità calcarea. Rimettendo poi il naso nel calice si apprezzano le profonde note fruttate e floreali, con fiori d’acacia e di tarassaco, con un’importante albicocca matura, pera e cenni di lime. Intenso è il profumo di miele, unito a crosta di pane ed orzo tostato. In bocca ha grande sapore ed è molto fresco, con l’equilibrio assicurato da una apprezzabile morbidezza, e con una notevole persistenza gusto-olfattiva, che chiude su note di pera e mandorla. Un vino notevole, che si fa bere molto volentieri. 

Dato che questo sarà l’ultimo post del 2019, permettetemi di augurare a tutti voi un felice 2020. Ci rivediamo a gennaio, bevete poco ma bevete bene!

Antonelli San Marco – Spoleto DOC “Trebium Trebbiano Spoletino” 2018

Il Trebbiano Spoletino è una bestiolina strana. È multiforme, non ha ancora uno stile ben definito. I vignaioli umbri lo vinificano in bianco, in rosso (prossimamente su questi teleschermi), in anfora macerato sulle bucce, con affinamento in acciaio o in legno. Il vitigno è di recente riscoperta, e meno male. A mio parere i vini da Trebbiano Spoletino sono di grande bevibilità, con una spalla acida decisa, grande capacità di proporre nel calice la mineralità del terreno ed infine ampie prospettive di invecchiamento in bottiglia. 
Come detto però, chi acquista un vino da Trebbiano Spoletino deve conoscere lo stile del produttore, nel caso voglia abbinarlo correttamente a tavola. A tal proposito io voglio farmi carico di questo disagio degli avventori: vedrò di bere più Trebbiani Spoletini possibili, in modo da mettere sulla mappa le caratteristiche di ognuno e farvi fare un figurone alla prossima apericena (termine questo orribile, quasi quanto la pleonastica locuzione “sincera verità”). Benintesi, qui è tutto autofinanziato: o contribuite anche voi o vi armate di pazienza e continuate a leggermi! Che tanto so che mi leggete con vivo trasporto anche se non me lo dite [faccina che ammicca].


Di Antonelli San Marco non c’è molto che io possa aggiungere per arricchire il patrimonio informativo al riguardo: 170 ettari totali in Località San Marco, Montefalco (PG), di cui 50 circa vitati; azienda a conduzione biologica, un nome storico nel mondo del vino umbro: il titolare Filippo Antonelli è l’attuale presidente del Consorzio Tutela Vini Montefalco. Antonelli mi vinifica il Trebbiano Spoletino in due modi: macerazione pellicolare, pressatura soffice, chiarifica statica a freddo, fermentazione in botti di rovere da 25 hl, affinamento sulle fecce per 6 mesi e imbottigliamento per il “Trebium” (come da scheda tecnica); 8 mesi di macerazione sulle bucce e al chiuso di un’anfora invece per il vino “Anteprima Tonda”. Stavolta nel mio calice c’è finito il primo, il Trebium. 
Di un giallo oro brillante, il Trebium appena versato ha profumo di cenere e sale, con un leggerissimo sentore di idrocarburo. Pur non essendo un Riesling o un Timorasso, lo Spoletino con gli anni sviluppa questo sentore; la 2018 adesso è ancora un pulcino ma farebbe ben sperare per il futuro, se si avesse la pazienza di attenderlo (cosa che, evidentemente, non posso insegnarvi io). Dopo la mineralità sono i profumi fruttati e floreali che passano al comando: tanta frutta esotica, agrumi ed una intensa mimosa. Seguono quindi note di erbe aromatiche, mentuccia, salvia e maggiorana, un cenno vegetale di fieno tagliato ed una delicata vaniglia.
In bocca si apprezza immediatamente la freschezza di questo vino. L’anno appena di età fa prevalere ancora la parte acida, che comunque non tiranneggia, dando modo di apprezzare una tenue morbidezza, percepibile a fine sorso. La lunga persistenza sfuma su un ricordo di agrume amarognolo. Per coloro i quali si trovassero smarriti di fronte a quest’ultima affermazione, leggete: “pare che hai appena morso un chinotto” (un “aho” finale consoliderebbe il concetto).

La Casa dei Cini – Umbria Rosso IGT “Borgonovo” 2013

Io sono curioso di tutto. Sono anche scettico, tuttavia non chiudo la porta allo stupore. Questo preambolo perché? Per introdurre il mio personaggio nello scenario del “VAN Vignaioli Artigiani Naturali”, lo scorso 9 novembre a Roma. È in quel contesto che faccio la conoscenza di Clelia Cini, titolare assieme al fratello Riccardo dell’azienda di famiglia “La Casa dei Cini”. Casa loro è a Pietrafitta, 10 km a sud del Lago Trasimeno, sui terreni a connotazione argilloso-arenacea della Valle del Nestore. Clelia e Riccardo, laureati rispettivamente in Scienze Agrarie ed Ambientali e in Viticoltura ed Enologia all’Università degli Studi di Perugia, nel 2005 rilevano l’azienda di famiglia. Forti già delle conoscenze tramandate, i due fratelli si concentrano sulla modernizzazione degli impianti, aumentandone l’efficienza, ed impostando la loro attività su criteri di sostenibilità ambientale, forgiandosi alfine della certificazione biologica sia per l’oliveto che per il vigneto. Tutto questo giusto per dare una brevissima infarinatura sulla Casa dei Cini. 
Torniamo a Roma, torniamo al VAN: intercetto e punto il banchetto della Casa dei Cini. Non li conosco, ma a casa ho studiato: so che sono umbri (caratteristica già di per sé attraente) e che il loro bianco “Filara” è un blend di Grechetto e Manzoni bianco, vitigno quest’ultimo che mi interessa conoscere. Il loro banchetto è posto in posizione angolata; non una bella posizione in una sala piena di gente che si muove al rallentatore, tutta assorta a cercare il pepe di Sichuan in ogni singolo liquido versato nel calice, fosse anche l’acqua per il risciacquo. Sgomitando nella tonnara, mi avvicino, faccio la conoscenza di Clelia e chiedo finalmente di poter assaggiare il Manzoni Bianco. Semaforo rosso: in degustazione ci sono solo i tre rossi. Provo mestizia ma, consapevole che una sconfitta è un’opportunità di crescita, accetto l’invito di Clelia ad assaggiare la truppa esposta, chiedendole di parlarmi di loro. Clelia è vulcanica, è energica, è magnetica. Mi parla delle vigne, dell’oliveto, del nonno Bonaventura, di babbo Aristide e di mamma Adriana, che prima di lei e Riccardo se ne presero cura. Ha occhi determinati e parla con chiunque si presenti al suo banco, il che non è affatto scontato. Nello stesso giorno in cui ho visto servire vino con gli occhi fissi sul cellulare ed ho dovuto estorcere informazioni top secret a qualche vignaiolo, come “che uvaggio è questo vino?” o “da dove venite?”, incontrare vignaioli come Clelia dà un senso alle spallate date e prese (si nota molto la mia velata critica alla spaziatura dell’evento?). Ammiro molto persone come Clelia e Riccardo. Sarà perché avranno suppergiù la mia età, gestiscono un’azienda vinicola, lavorano nella natura ed hanno tanto entusiasmo; io invece ho appena fatto il test per sapere quale uva sono. 
Senza divagare ulteriormente (ma tanto voi pochi sventurati che leggete sapete che qui ”si sta come / d’autunno / sulle montagne russe / i barattoli di ceci”), dei tre vini rossi della Casa dei Cini assaggiati, tutti uvaggi inconsueti, interessanti e di una bevibilità impressionante, ho deciso di portare a casa con me il “Borgonovo” 2013. Giusto un mese di tempo per fargli conoscere casa ed eccolo sacrificato in nome della conoscenza. Ed è stato un bel conoscersi.


Il “Borgonovo” 2013 è 85% Cabernet Sauvignon, 7,5% Ciliegiolo e 7,5% Sangiovese. Sì ma non è il Cabernet che ti aspetti da una manifestazione di vini naturali. Il colore sì, ci sta, rubino con unghia granata bello carico e compatto, stante anche l’assenza di filtrazione del vino. Ma il profumo no, quello non rimanda subito ad un Cabernet Sauvignon. È intenso, è equilibrato ed è fine, sa di humus e di spezie, quali pepe nero, cannella e liquirizia. Uno poi si aspetterebbe il classico peperone verde, e invece il vino è fatto assai bene: la quota vegetale è molto contenuta e preceduta da un’intensa ciliegia matura (danke dir, Ciliegiolo), prugna, mora, una violetta appassita ed una grande balsamicità. Chiudono la sfilata odorosa note terziarie di cuoio, legno e cacao. Bocca equilibrata, giustamente tannica e fresca, agile, persistente e con chiusura di cioccolato fondente. Un gran bel vino, sorprendente e invitante. Menzione d’onore per le bellissime etichette disegnate da Sualzo e per la targhetta di presentazione che accompagna la bottiglia. Clelia e Riccardo Cini, bravi ancora una volta.



Scacciadiavoli – Metodo Classico Brut Rosè

Il problema è il retaggio culturale che ancora oggi resiste: gli spumanti si bevono negli aperitivi, con gli antipasti o con i dolci; quasi nessuno ha l’ardire di metterli a tavola durante un pasto qualsiasi. L’impressione che ancora viaggia spedita è che siano vini solo per momenti preziosi, soprattutto i metodo classico (o metodo champenoise, per chi ha un cestino di escargots al posto del cuore). Probabilmente ciò è dovuto ai nobili natali che questa tipologia di vino può vantare: 1670, il cellario dell’abbazia di Hautvillers corre fuori dal suo ‘posto di lavoro’ esclamando: “presto, venite fratelli! Sto bevendo le stelle!”. Quel frate era Dom Pierre Perignon, il vino lo Champagne e la frase un lasciapassare verso la leggenda. Vedendo la luce in questa maniera, chi avrebbe l’ardire di bere un metodo classico insieme alla pizza? Io. Senza paura. Per tre motivi. Motivi del tutto arbitrari, che sto elaborando or ora:
  1. Il vino va bevuto ed onorato. E il maggior onore per il vino è amministrare la tavola durante tutti i pasti.
  2. La scoperta di Dom Perignon, più che un’intuizione, fu uno spettacolare caso di serendipity: il buon frate cercava di eliminarle quelle bollicine dallo Champagne, perché il vino frizzante non era così in voga all’epoca; oltretutto quelle disgraziate gli facevano esplodere le bottiglie in cantina per l’eccessiva pressione (e i francesi non ringrazieranno mai abbastanza gli inglesi, in particolare re Giacomo I, per le bottiglie champagnotte dal vetro più spesso). Poi lo assaggiò e successe tutto quello che sappiamo, ma fu quasi più un caso fortuito che un’operazione ragionata.
  3. Nel 1570 il medico bresciano Girolamo Conforti pubblica il “Libellus de vino mordaci”. Lì viene elogiato il vino di Franciacorta: in questa microregione sotto il lago d’Iseo trovarono dimora secoli prima abati cluniacensi e cistercensi, affrancati dal pagamento delle tasse (appunto ‘francae curtes’) e dediti, fra le altre attività, alla produzione appunto di vino. Questo vino che, per dirla con le parole di Conforti, era “brioso, spumeggiante, mordacissimo”. Ora rileggete la data: era un secolo prima della scoperta di Dom Perignon. Ci sarà un motivo se ‘marketing’ non è un termine italiano…
Ad ogni modo, eccomi a stappare, gaudente e senza vergogna, il Metodo Classico Brut Rosè di Scacciadiavoli per accompagnare supplì e pizza. E devo dire che si è comportato magnificamente, ma era una facile previsione.



Lo spumante oggetto del nostro disquisire è prodotto in quell’angolo di paradiso che è Montefalco, in località Scacciadiavoli, che è anche il nome della cantina. Località così chiamata in quanto fu la dimora di un vero ‘scacciadiavoli’, un esorcista. Leggenda narra che riuscì ad estirpare il maligno da una donna per mezzo di un bicchiere di vino. Trovatemi voi una storia simile che abbia come protagonista del latte di soia, perché io non ne sono capace. 
L’uvaggio di questa bolla fantastica è 100% Sagrantino. Date le 10 ore appena di macerazione, l’uva cede al vino solo i suoi splendidi profumi e qualche antociano fuggitivo, trattenendo nella buccia la componente tannica. Segue fermentazione, imbottigliamento con liqueur de tirage e sosta sui lieviti per almeno 24 mesi. Infine sboccatura, aggiunta di liqueur d'expédition e lo spumante è pronto. Ecco, a voler fare i pignoli, scostumati e maledetti, il mio unico e minuscolo rammarico è di non vedere riportate in etichetta le date di imbottigliamento e sboccatura. Ma fidatevi che ciò non mi ha causato alcun tipo di problema nello stappare la bottiglia e nel goderne appieno.
Il vino nel calice è di un bellissimo rosa ramato, con perlage fino e persistente. Il naso è di un’eleganza e di una complessità stupende, un corredo olfattivo assai vasto, che si presenta subito con la componente fruttata, lamponi, more e fragoline di bosco, ad accompagnare la classica crosta di pane dei metodo classico, nota quest’ultima molto fine e non sovrastante gli altri profumi. La carrellata continua con note di rosa e glicine, un sentore ferroso ed appena terroso, cenni lievi di nocciola tostata, di cannella e di noce moscata: un profumo veramente magnetico.
In bocca lo spumante è una crema, con ingresso molto morbido nonostante la quota di carbonica, fresco e sapido, con un’elegante e profonda persistenza gusto-olfattiva, persistenza perfettamente corrispondente con i profumi percepiti al naso. Un vino terribilmente invitante. Bisogna sapersi dominare, ché a finirsi la bottiglia è un attimo.

Alberto Giacobbe – Cesanese del Piglio Superiore Riserva DOCG “Lepanto” 2016

Regola aurea dell’enogastronomia: con gli abbinamenti regionali difficilmente si sbaglia.
Regola argentea della ristorazione: privilegiare il consumo di vino locale, o quantomeno regionale. Soprattutto in una regione come il Lazio, dove è ancora molto in pasteggiare con etichette griffate, e quindi quasi mai di zona. Facendo miei questi preziosi dettami, affronto la difficile, meravigliosa, terribile sfida della scelta del vino al ristorante, nello specifico da “Sora Maria e Arcangelo” ad Olevano Romano, luogo scelto per il festeggiamento del mio primo anniversario di matrimonio. Non ho titoli sufficienti per tessere le lodi del ristorante, è stato già fatto da tanti altri, molto più bravi di me (ad esempio da Andrea Petrini sul suo blog Percorsi di Vino). Posso solo dire che è stato un pranzo memorabile, che sono rimasto sorpreso dalla bontà dei singoli ingredienti oltre che dal loro assemblaggio a formare i piatti veri e propri. E che, in definitiva, vale certamente la pena prendere la macchina ed andare a mangiare ad Olevano Romano. Già che ci siete andate anche a trovare i viticoltori di zona, poi con comodo mi ringrazierete.



In materia di vino, avendo scelto dal menu i cannelloni e le pappardelle al ragù bianco, cavalli di battaglia del ristorante, voglio ingaggiare per il ruolo di fido scudiero il Cesanese del Piglio Superiore Riserva “Lepanto” 2016 di Alberto Giacobbe. La scelta è ricaduta sul “Lepanto” perché ancora non conoscevo vino né azienda. La curiosità è stata acuita anche dal premio “Vino Slow” assegnatogli dalla guida Slow Wine 2020.



Dalla scheda del vino leggo che il “Lepanto”, dopo fermentazione in acciaio, mi va a sostare per un annetto in barrique e per un ulteriore anno e mezzo in bottiglia. La pazienza è la virtù dei forti e questo bel Cesanese forte lo è. Nel bicchiere è rubino compatto. La catechizzazione ad opera della barrique leviga notevolmente il classico attacco speziato del Cesanese, virando più su profumi di frutta a maturazione, more soprattutto. Poi però tranquilli che le spezie arrivano (e che facevamo un concerto degli U2 senza Bono?): il pepe nero fa da capofila, seguito radice di liquirizia, mirto, ginepro e un lieve sentore vanigliato; percettibili sentori di terragno ed ematico. La bocca risulta corposa ma al contempo agile, moderatamente tannica, elegante e piuttosto persistente. L’uso della barrique non è stato per nulla invasivo, ingentilisce ma non snatura completamente questo straordinario vitigno. Infine notevole è anche il rapporto qualità/prezzo. Insomma, si capisce che ho abbastanza apprezzato questo vino?

Azienda Agricola Vinica – Terre degli Osci IGT Riesling “Lame del Sorbo” 2017

Se si leggesse solo superficialmente il titolo di un libro, grande sarebbe il rischio di finire fuori strada. “Dieci piccoli indiani” potrebbe sembrare una fiaba per bambini, “Uno studio in rosa” un libro sull’emancipazione femminile, il vino in questione un classico Riesling italiano del nord… un momento, osserviamo per bene: il ‘sorbo’ è un albero che vegeta soprattutto nel mezzogiorno d’Italia. E già questo è un indizio. La denominazione poi parla di ‘Terre degli Osci’. E chi mai saranno questi Osci? Gli Osci furono un’antica popolazione indoeuropea che abitava il meridione d’Italia. Vennero poi inglobati dai Sanniti i quali, prima di subire la colonizzazione ad opera dei Romani, si tolsero la soddisfazione di comminare a questi ultimi una epocale bastonata alle Forche Caudine. Ebbene sì, questo Riesling Renano viene coltivato al sud, in quella regione che ancora oggi scatena cervellotici dibattiti sulla sua reale esistenza: il Molise. 
Vinica è un’azienda agricola molisana a conduzione biologica, 22 ettari vitati disposti al centro della regione, tra i 650 e i 750 m d’altitudine. L’azienda è poliedrica, con una moltitudine di vitigni messi a dimora: Tintilia, Sangiovese, Merlot, Aglianico, Pinot Nero, Riesling Renano, Sauvignon Blanc, Trebbiano e Moscato. Notevole il lavoro sulla Tintilia, che viene proposta in più versioni, tutte connotate da grande facilità di beva e pregevole longevità. Tuttavia oggi qui non si parla di Tintilia (non ancora, quantomeno), ma dell’uva a bacca bianca che sta alla longevità come la salamella sta ai fumetti di Jacovitti.


Banale ma necessaria premessa: non siamo sulle rive della Mosella, con quel meraviglioso suolo di ardesia; siamo 1500 km più a sud, terreno marnoso e calcareo, clima mediterraneo, al netto dell’altitudine. È quanto mai ovvio che cercare qui la finezza e la leggiadria dei Riesling tedeschi vuol dire perdere tempo. Quindi sto dicendo che questo vino non è buono? Tutt’altro, il Riesling “Lame del Sorbo” è molto buono. Dobbiamo solo relativizzare la posizione delle vigne, in modo da capire ed apprezzare le diverse sfumature di questo Riesling rispetto ai cugini teutonici. Perché il vino, realizzato solo tramite fermentazione rigorosamente spontanea e affinamento in acciaio, a mio modesto parere è fatto molto bene. 


Di un bel giallo dorato nel calice, il naso rimanda chiaramente ad un Riesling: si apprezza il classico ‘odore di canotto’. Certo, un paio di anni sono assai pochi per un Riesling, ma già danno modo a questo vino di esprimere un qualche cenno evolutivo. Si nota inoltre una mineralità pirica, cenere di camino, su cui insistono note di ananas, frutto della passione e una bella cesta di agrumi. Notevoli anche i profumi di ginestra, di fieno, di timo e di salvia. Anche solo leggendolo, il pattern olfattivo rimanda già ad un clima mediterraneo, introvabile in Germania. In bocca il vino è bello fresco e con una persistenza gusto-olfattiva deliziosa e lunghissima. Lo so, a volte uso degli orribili tecnicismi: ‘bello fresco’ vuol dire che si gode in modo distinto del contributo dato dall’acidità fissa ancora presente nel liquido, acidità già di per sé elevata stante la tipologia di uva. Attenzione, la bocca è sì bella fresca, ma non è tagliente, non porta alla contrazione dei muscoli masticatori. Data la tipologia di vitigno, si è già vicini ad un buon equilibrio gustativo, fermo restando che altri anni di affinamento avrebbero completato mirabilmente l’opera. Ahimè, questa volta più che la pazienza poté la sete.

Riflessioni sul famigerato video di Fanpage + Trebbiano Rubicone IGT Eurospin

La colpa è vostra. La colpa è tutta e solo vostra. Vostra, dei vostri dibattiti e delle vostre opinioni espresse a seguito del famigerato video di Fanpage.it. Breve sintesi: Fanpage.it pubblica una decina di giorni fa un video dove tre esperti, Alessandro Pipero, Andrea Gori e Luca Gardini, somministrano a degli ‘aspiranti sommelier’ (sic) quattro vini, indicando loro che uno dei quattro è Tavernello e gli altri tre sono ‘vini costosi’ (sic. ‘Costoso’ rispetto a quale prezzo?). La cosa divertente/irritante/umiliante è che tutti e quattro i vini sono dei Tavernello. 


Bene, questo video, anche abbastanza divertente, ha scatenato un vespaio. C’è stato chi ha bollato gli esperti come professionisti al soldo della Caviro, chi ha invece difeso ed elogiato tale ditta e i posti di lavoro che dà a tanta gente, chi punta il dito sulla standardizzazione del gusto del vino, la mancanza del terroir nel calice, ecc. Come al solito in Italia, è finito tutto in caciara, come dicono ad Eindhoven. Io sono totalmente d’accordo con il concetto di non bere etichette, di non partire da preconcetti e di concentrarsi solo in quello che staziona nel calice, indipendentemente dal contenitore da cui è stato spillato. È vero altresì che un sommelier dovrebbe saper riconoscere alla cieca un vino di qualità superiore da uno di qualità inferiore (non me ne voglia la Caviro, ma credo sappiano anche loro che, anche se privo di difetti, il Tavernello è oggettivamente inferiore al Pergole Torte di Montevertine; e sono certo che neanche vogliano tentare una competizione con questo tipo di vini). Per cui, ragionandoci (poco, altrimenti mi viene il mal di testa), più che di standardizzazione del gusto il problema palesato è una sorta di riprova sociale: sono un aspirante sommelier, ho davanti a me due sommelier e un ristoratore stellato, mi viene detto che dei quattro vini che ho di fronte solo uno è Tavernello, gli altri tre sono vini costosi. Molto probabilmente il primo vino degustato verrà subito etichettato come Tavernello. A quel punto chi avrebbe il coraggio o l’incoscienza di affermare che gli altri tre vini, che ora sono sicuramente i vini costosi, hanno le stesse caratteristiche del Tavernello? Chi sono io per andare a dire ai tre competenti inquisitori di fronte a me che quei vini sono economicamente sopravvalutati? Farei una figura da peracottaro (termine di origine gaelica), no? Per cui dal secondo vino io mi pongo in uno stato mentale per cui quel vino, che mi dicono essere costoso, nella mia mente avrà per forza caratteristiche organolettiche superiori. Invece di usare solo i sensi, inconsciamente uso soprattutto il pensiero per giudicarlo. Questo è il problema: se mi dicono che un vino è costoso subito penso che sia di una qualità superiore, direttamente proporzionale al suo prezzo, anche quando organoletticamente non mi parla. Il problema non potrà mai essere il vino. Saranno il mio naso e il mio palato a non funzionare bene. Sarò io a non essere in forma.
Tutto questo papiro per arrivare a cosa? Ad una confessione: non ho mai bevuto il Tavernello, o vini simili. E in che modo posso io giudicare un vino senza averlo mai degustato? Bene signori, quel momento è arrivato. Qui io mi gioco tutta la mia credibilità. [il pubblico ride]


Trebbiano Rubicone IGT Eurospin, brick da 250 ml, alcol 11%. 
Il vino si presenta più bianco opaco che giallo paglierino. Il naso e poco intenso, una piccola complessità però la possiede, con del gelsomino e del tiglio, con note di agrumi, una mineralità di grafite, un sentore dolciastro che immagino sia donato dall’alcol. La bocca è impietosa: il vino è monodimensionale, è fin troppo fresco, ha un accenno di sapidità che tuttavia si converte in un sapore finale non piacevole ed amaricante. La persistenza è sotto i 10 secondi, permane solo la salivazione dovuta alla quota acida. No, un vino del genere purtroppo non è piacevole. Certo, se il limite di resa della IGT Trebbiano Rubicone fosse stato inferiore ai 290 q/ha, magari un pizzico più di finezza questo vino poteva anche possederla, ma tant’è. 
Ecco, se il contenuto fosse stato trasferito in una bella borgognotta con un’etichetta griffata, il mio giudizio sarebbe dovuto restare inalterato. Per questo motivo io adoro le degustazioni alla cieca, nonostante ti espongano facilmente a delle magre figure: conta solo il vino nel calice, senza alcuna informazione a supporto; la mente si deve concentrare solo sul liquido, senza aspettative. 
In conclusione posso dire che questo vino non è molto piacevole, non ha grande finezza, ma allo stesso modo non ha nemmeno difetti. Resta il fatto che, per un prezzo al litro attorno ai 2€, mi faccio molte domande sui metodi di coltivazione delle uve, di raccolta e di vinificazione. E alla fine penso sia sempre meglio spendere almeno attorno alla decina euro per una bottiglia di vino, premiando il lavoro di un piccolo viticoltore.

Marco Antonelli – Cesanese di Olevano Romano DOC Riserva “Kósmos” 2015

Giungo da una cocente delusione. Un vino, acquistato tempo fa con entusiasmo, mi ha lasciato piuttosto interdetto: si è rivelato un infuso di rovere, stancante, per nulla piacevole. Ovviamente non dirò mai il nome del vino e della cantina, non sono qui per parlar male di nessuno. Tuttavia dovevo riprendermi dallo sconforto vissuto. Ho rivolto lo sguardo verso un amico sicuro. Il conforto è stato anche maggiore di quanto aspettato. Perché già sapevo che questo vino fosse buono ma, diamine, è buono vero!
Torniamo ad assumere una minima parvenza di professionalità (mai richiesta da nessuno, tra l’altro). Già avevo parlato di Marco Antonelli lo scorso agosto, esprimendo la mia ammirazione per il suo lavoro su questo straordinario vitigno che è il Cesanese. Avevo concluso buttando lì uno spunto sui profumi del Kósmos, con la promessa di parlarne al momento della stappatura. Ebbene, eccoci qua. 
L’uva del Kósmos nasce sul monte Scalambra, vigneto della Morra Rossa, 450 metri s.l.m. Vigneto gestito in regime più che biologico (è in arrivo per Marco Antonelli la certificazione ufficiale), pochi trattamenti con zolfo e solo se si è in odore di oidio, altrimenti è tutto nelle mani della natura. Le vigne hanno tra i 50 e gli 80 anni, ben salde sul terreno ricco di scheletro e composto da marne argillose e calcare, con una resa per ettaro sotto i 20 q. Tutte prerogative adatte ad un vino di qualità. Vino che si ottiene tramite fermentazione spontanea, 12 mesi in acciaio, 18 mesi in botte grande e almeno 6 mesi in bottiglia (ma potete lascarcelo anche degli anni; ha una longevità potenziale di tutto rispetto)


L’assaggio del vino conferma tutte le più rosee aspettative. Rosso rubino che vira appena al granato sul bordo del liquido, il Kósmos ha un corredo olfattivo di splendida complessità. Alla prima annusata si percepiscono, perfettamente in armonia tra loro, frutta, spezie, fiori e balsamicità. Emergono nettamente amarena, mora e ribes, pepe nero, cardamomo e mirto, viola appassita ed eucalipto. Successivamente si aggiungono leggere note di cuoio e di asfalto, supportate da un altrettanto leggero sentore di terra bagnata. Il sorso è deciso e, al contempo, di grande finezza, con un’esplosione di sapore a riempire il cavo orale. Istantaneamente si apprezzano le durezze, sotto forma di un tannino vellutato e di una buona freschezza, segno che questo vino può maturare ulteriormente, per poi avvertire la morbidezza a riportare tutto in equilibrio. La persistenza del Kósmos è eccezionale, con gli aromi di bocca a richiamare con coerenza le note fruttate e speziate già percepite al naso. 
Mi espongo volentieri: per me è un vino imprescindibile, da avere sempre a disposizione in cantina pronto all’uso.


Cantina Ribelà. Vini naturali dei Castelli Romani.

Piove. Sono settimane che piove. È sotto questa pioggia che ci ritroviamo domenica 16 novembre con gli amici di Incontri Di Vite (pagina Facebook), ospiti di Chiara Bianchi e Daniele Presutti, i fondatori di Cantina Ribelà. La loro storia è in qualche modo condivisa con molti altri vignaioli di ultima generazione: nessun contatto diretto con la lavorazione della terra, studi universitari ed un impiego cittadino; ad un certo punto scatta la scintilla che innesca l’incendio: si abbandona la città e si ritorna in campagna a vinificare. 


Parlando della vita lasciata alle spalle, Daniele ha lavorato come architetto, mentre Chiara possiede una laurea in filosofia, un diploma da sommelier e dieci anni di esperienza nella ristorazione. Un giorno, forse uno più plumbeo degli altri, decidono di cambiare vita, di ritornare alla natura, di trovare lì le soddisfazioni che la città stenta a dare. Quanti di noi ogni tanto se ne escono con “ora basta, mollo tutto e cambio vita”? Ecco, loro lo hanno fatto. Se ne sono stati un annetto ad Assisi, sul Subasio, a collaborare con un’azienda biodinamica per farsi le ossa. Prendono contatto con la fatica quotidiana della viticoltura (giornate interessanti le potature a gennaio, in mezzo alla neve e al vento gelido). L’impatto è provante, eppure questi due ragazzi ne escono ancora più stimolati a proseguire con questa vita.


Chiara e Daniele vorrebbero stare vicino Roma, così battono palmo a palmo i Castelli Romani in cerca del terreno ideale. Lo trovano: la valletta denominata “Pentima dei frati”, a Monteporzio Catone. I figli del vecchio proprietario non hanno modo di gestirla. Chiara e Daniele nel 2014 rilevano terreno e viti bianche, viti che oggi hanno dai 40 ai 60 anni, impiantano le viti rosse, costruiscono la cantina nel 2017 e la casa nel 2018. Alla cantina servirebbe un nome: scelgono Ribelà. Dal dialetto Monteporziano: ‘Ribelare’ vuol dire ‘ricoprire con la terra le radici della pianta’. Il logo della cantina è una mongolfiera. La spiegazione è molto poetica: la mongolfiera consente di alzarti in volo ma allo stesso tempo non ti permette di fare come vuoi, è il vento che decide dove tu possa andare. Una bella metafora del lavoro dell’uomo nella natura. Tra viti vecchie e nuove, Chiara e Daniele decidono di puntare sulla tradizione locale: Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino, Bellone, Cesanese e Sangiovese. 


La scelta dell’allenamento nell’azienda biodinamica umbra non è stato casuale. Chiara e Daniele danno un senso molto più profondo al loro lavoro: non vogliono soltanto sfruttare la terra ma attuare una sorta di scambio, fare in modo che il guadagno sia bilaterale. A noi il vino, alla terra più vita possibile. È pacifico il rifiuto di qualsiasi composto chimico di sintesi per bombare le piante, anche rame e zolfo sono esclusi o comunque contingentati. Gli unici trattamenti in vigna sono operati con preparati biodinamici, cornosilicio e cornoletame. Per il resto viene data piena fiducia alla terra, questa terra magnifica che il Vulcano Laziale ha messo a disposizione e che non è mai stata pienamente valorizzata. Domanda: “ok voi trattate la terra in biodinamica. E tutti i trattamenti che il vecchio proprietario ha fatto in vigna? Eh? Eh?” Risposta: “innanzitutto calma. E poi, i figli del proprietario hanno reso disponibile il suo diario della vigna. Zero trattamenti. Anche perché accanto alla vigna c’erano l’orto ed alberi da frutto. E lui non voleva rendere immangiabili frutta ed ortaggi”. Quando ogni tanto la casualità dà una bella mano agli audaci. 


La cantina è ordinata e ben pulita, con una vasca in cemento per l’affinamento futuro dei rossi appena arrivata, una botte troncoconica in castagno e tre botti classiche in ciliegio e castagno locale, fabbricate da un bottaio del posto. Completano il parco serbatoi alcuni silos in acciaio e un paio in vetroresina. Ah, dimenticavo il set di damigiane per l’affinamento del rosato. Fermentazioni spontanee, nessuna filtrazione, nessuna chiarifica, solforosa totale attorno ai 20 mg/l. E ciò che ha detto Daniele mi trova pienamente d’accordo: “se fai vini cosiddetti naturali ed escono palesemente difettati, non puoi dire che il vino va bene così che il difetto è un valore aggiunto della naturalità, quindi diventa magicamente un pregio del vino. Hai fatto semplicemente un vino difettato”. Pulizia ed attenzione costante permettono ai vini di Cantina Ribelà di non avere difetti. Il gusto è sempre questione soggettiva, ma di difetti in questi vini non ne troverete.


E visto che stiamo parlando dell’organolettica del vino, parliamo dei quattro vini degustati durante la visita. Lo so, è un compito gravoso, ma non mi sottrarrò.


Lazio IGT Frizzante “Ribolie” 2018. Un rifermentato in bottiglia da uve Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino e Bellone. Il vino è ovviamente torbido per la presenza di lieviti, come indicato anche dal gioco di parole nel nome. Lieviti che si notano anche al naso, creando uno sfondo odoroso su cui si inseriscono cenni notevoli di frutta a polpa gialla in maturazione, come ananas, limone, mela, fiori di acacia, una notevole vena minerale, di pietra focaia. La bocca è cremosa e l’impatto è secco, con la mineralità del suolo che si manifesta nell’incredibile sapidità di questo vino, caratterizzandone la persistenza gusto-olfattiva. 


Lazio IGT “Ribelà Bianco” 2018. Malvasia, Trebbiano e Bombino in parti uguali, senza macerazione sulle bucce, affinamento in acciaio. Giallo dorato nel calice, i primi cenni olfattivi li ho definiti, con grandissima padronanza lessicale, ‘strani’. Vado a spiegarmi (sì, pare facile): solitamente vini provenienti da fermentazioni spontanee danno luogo a  profumi inusuali, più o meno solforati. La cosa può essere dovuta a semplice bisogno d’aria, a solfitazione spinta o a guai capitati in fase di fermentazione. Nel mio caso non si può assolutamente parlare di ‘puzza di vino naturale’; infatti con un minimo di aria fresca il signorino ha cambiato completamente pattern olfattivo, facendo emergere una notevole mimosa, cenni di cera d’api, la solita mineralità nera, pesche e susine gialle, cenni fini di salvia e rosmarino. Il sorso è ben sapido e aromatico, con persistenza sensibile e grande corrispondenza tra naso e aromi di bocca.


Lazio IGT Bianco Macerato “Saittole” 2017. Malvasia 60% e Trebbiano 40%, 3 giorni di macerazione. Signori, che gran vino. Gradevolissimo color ambra nel bicchiere (lo potremo anche definire ‘orange wine’ se fossimo dei gggiovani uòzzamerica yessorrait!), il naso è complesso ed assai attraente: solita pietra focaia, notevoli i profumi di frutta esotica, come mango, papaya e frutto della passione, pompelmo, una lievissima foglia di pomodoro, camomilla e tanta ginestra, miele, addirittura sottili cenni di pepe e terra secca. La bocca è elegantissima, molto aromatica e molto persistente, con una quasi impercettibile trama tannica. Un gran vino veramente.


Lazio IGT “Ribelà Rosso” 2019. Cesanese 80% e Sangiovese 20%, campione di botte.
Un mese e mezzo di età, è ancora un pupetto in fasce. Ed infatti i profumi sono ancora in piena fase evolutiva. Dominano un sentore vinoso e di fermentazione. Ciò nonostante si percepiscono molto chiaramente profumi di ciliegia, di humus, di pepe, di erba tagliata. La bocca è ancora ‘verdina’ ma già si fa notare un’importante persistenza.


Il pensiero finale resta quello che ho avuto modo di dire a Chiara e Daniele (che ancora ringrazio per aver pazientemente sopportato le impressioni non richieste di uno strano tizio barbuto): l’obiettivo principale di un viticoltore dovrebbe essere dare vita ad un vino prima di tutto buono da bere e che riporti nel bicchiere le particolarità di uno specifico terroir. Se il viticoltore ci riesce senza avvelenare il pianeta, non può che essere degno di ulteriore stima. Da chimico sosterrò fino alla morte che non è la chimica ad essere malvagia (anzi, la chimica ha fatto e continuerà a far progredire il mondo. Tutto è chimica, ricordatevelo sempre), malvagi sono gli abusi dei prodotti chimici, soprattutto se inutili, e chi li perpetra. Persone come Chiara e Daniele dimostrano che è possibilissimo produrre vini buoni e sani senza l’ausilio di prodotti chimici di sintesi. Certo, servono capacità, pazienza e anche buona sorte, ma se i risultati sono vini come questi si può essere orgogliosi del proprio lavoro. Anche se Chiara e Daniele non si sentono affatto arrivati, hanno voglia di continuare a sondare le grandi potenzialità di questo terroir magnifico e di affinare ulteriormente la loro tecnica. Chiaro che sarò presente per seguire la loro traiettoria ascendente.

Centopassi – Terre Siciliane IGT Rosso “Pietre a Purtedda da Ginestra” 2015

Questa storia vede il vino solo come aspetto marginale. È una storia che parte da lontano. Il nome della cantina dirà qualcosa a molti, il nome alla cui memoria il vino è dedicato e intitolato dovrebbe invece essere ben scolpito nelle nostre teste. Centopassi, chiaro riferimento al film di Marco Tullio Giordana su Peppino Impastato. Purtedda da Ginestra (Portella della Ginestra per noi continentali), a una trentina di km da Palermo, è indissolubilmente legata ad una festa dei lavoratori finita nel sangue: 1 maggio 1947, ore 10:15, migliaia di contadini siciliani si ritrovano per festeggiare la vittoria del Blocco del Popolo alle elezioni regionali di pochi giorni prima e manifestare contro il latifondismo. Ve la immaginate la festa: al fianco del comizio politico si accendono fuochi, si comincia a cucinare, i bimbi giocano. Fino a quando partono raffiche di mitragliatori dal monte Pelavet. 
Sparano sulla folla. 
Sparano su dei contadini; muoiono in 14. 
Sparano su dei bambini; ne uccidono 4. 
I carnefici sono Salvatore Giuliano e la sua banda, i mandanti sono vari, incerti e tutti plausibili (mafia, estrema destra, servizi segreti americani; i mitragliatori erano armi d’assalto, non certo le classiche lupare siciliane). Ricordo bene il senso di gelo nelle ossa la prima volta che ascoltai questa storia, raccontata in una puntata di Blu Notte dall’immenso Carlo Lucarelli. Una strage atroce, per la modalità e per l’umiltà e l’età delle vittime.
Voi capite bene che, di fronte a questa bottiglia e al suo significato, il vino passa decisamente in secondo piano. 
Riporta la retroetichetta: “Centopassi è l’anima vitivinicola delle cooperative Libera Terra che coltivano terre siciliane confiscate alla mafia”. In Italia, soprattutto negli ultimi anni, vanno per la maggiore dietrologie, maldicenze, sospetti, insomma tutto ciò che si portano appresso ignoranza ed idiozia, saltellando tutte allegre. Io, piccolo e sciocco, voglio ancora pensare che queste terre, una volta proprietà della mafia, vengano lavorate da gente onesta, gente che riconosca il valore del proprio lavoro in questi posti specifici. Voglio pensare che questa gente, con questo lavoro voglia solo guadagnarci, non speculare. Magari sarò un innocente fessacchiotto, preferisco così; non fa male a nessuno avere ancora speranza in qualcosa di buono. E apprezzate anche che non abbia banalmente citato ‘Imagine’ di John Lennon per esprimere il concetto.


Il vino, alfine. Il blend è 70% Nerello Mascalese e 30% Nocera, quest’ultimo è un autoctono siciliano dai natali illustri: era alla base del Mamertino, vino tanto apprezzato dai Romani; oggi ancora ne fa parte ma solo come ‘accompagnatore’ del Nero d’Avola. I 950 m d’altezza conferiscono all’uva tutta una gamma di profumi che catturano con decisione le narici dell’avventuriero di turno.
Il vino, color rubino cristallino, si presenta all’inizio con sentori di terra, terra rossa, ruggine, per poi liberare un’ondata di frutta e fiori: ciliegia potente, melograno, ribes e mirtillo, molto glicine e rosa selvatica. Quindi si fanno vive le spezie, portate in dote dal buon Nerello, con cenni di noce moscata e anice stellato. Chiusura finale di cuoio e leggero marzapane. In bocca il vino è fresco, lievemente tannico, di medio corpo e con una finissima persistenza gusto-olfattiva. Un vino notevole, da un posto che nessuno dovrebbe mai dimenticare.

Principe Pallavicini – Frascati Superiore DOCG “Poggio Verde” 2018

Si ritorna a giocare in casa. Ma proprio davanti l’uscio di casa. 
Il vino in questione è un Frascati Superiore prodotto da Principe Pallavicini in quel di Colonna. L’etichetta orgogliosamente riporta ‘Viticoltori dal 1670’, e in effetti Pallavicini non è un cognome ignoto nell’Agro Romano, tanto per rimanere nel solco dei nobili signori con la passione per l’arte agricola. Attualmente la Tenuta è presieduta da Sigieri Diaz Della Vittoria Pallavicini, 80 ettari divisi tra Castelli Romani e Cerveteri. Quello che a noi interessa adesso è la cinquantina di ettari vitati a uve bianche, localizzati nell’areale della DOCG Frascati Superiore. È proprio dal blend di 70% Malvasia del Lazio, 15% Bombino e 15% Greco che si ottiene il Frascati Superiore “Poggio verde”.


Di un giallo paglierino con riflessi verdolini, il naso del “Poggio Verde” colpisce per l’intensità dei profumi. La prevalenza è di fiori bianchi e gialli, quali gelsomino, ginestra, tiglio e mimosa, generosamente offerti dalla Malvasia del Lazio. La frutta è tropicale, di ananas e papaya. Mineralità scura presente (e vorrei ben vedere, siamo sulle pendici di un vulcano) assieme a timo e maggiorana. Sorso intenso anch’esso, sapido e con un moderato finale amaricante. Un vino che si fregia della Silver Medal della rivista Decanter e che, soprattutto, si fa bere assai volentieri. 
Date una chance ai Frascati Superiore, ce ne sono di ottimi e ad un rapporto qualità/prezzo magnifico.

Degustazione vini Azienda Agricola Adanti, 26/10/19

Dopo aver raccontato la bellissima, ancorché parziale, storia di Alvaro Palini, Domenico Adanti e della loro idea meravigliosa di vinificare in secco il Sagrantino, credo sia giusto parlare anche di cosa io abbia bevuto da Adanti durante la mia visita dello scorso 26 ottobre. Visita e degustazione sono state magistralmente condotte dal buon Alessandro Albergotti, perfetto cantore di cantina e vini. Molto inopportunamente ho domandato di poter vedere il mitico Sagrantino in appassimento. Alessandro, che è persona buona, mi ha accontentato, ed io ho assaggiato l’acino d’uva più buono di tutta la vita.

Grappoli di Sagrantino Adanti in appassimento
La degustazione stava per cominciare, quando lo squillo del telefono interrompe il normale scorrimento della faccenda. Benedetta telefonata: all’altro capo c’era la vera Umbria, personificata per l’occasione dal signor Alessandro di Torre del Colle, frazione di Bevagna, il quale voleva parlare con l’agronomo di Adanti per metterlo al corrente di una discreta quantità di letame pronta per loro. “È più pecora che vacca. Oh, è maturo. Così gli diamo da mangiare a ‘ste pianticelle”. Immensa la chiosa finale: “Ah, anche tu ti chiami Alessandro? Se troviamo il terzo gli facciamo paga’ da be’”. A me sembrava più che giusto. E ancora dovevo cominciare a bere.
Riportando il tutto sui binari della serietà (per quanto possibile), la degustazione ha coinvolto praticamente tutta la gamma proposta dalla Cantina Adanti (due bianchi, un rosato e poi rossi fino alla fine).


Umbria Bianco IGT “Arquata Bianco” 2018; 70% Grechetto, 30% Chardonnay. Connotato da mineralità salmastra e note di mela Golden, accompagnano note di gelsomino, di fieno e una lieve nocciola tostata. Un bianco delicato e molto piacevole.
Montefalco Grechetto DOC 2018. Un profumo più ‘denso’ rispetto all’Arquata Bianco, più fruttato e floreale, con frutta esotica, agrumi e ginestra a condurre. Si apprezzano note di foglie di coriandolo (le riconosco bene queste note perché io, il coriandolo in foglie, non lo apprezzo proprio!).
Umbria IGT Rosato “Amanter” 2017; 100% Sangiovese, 10 giorni di macerazione sulle bucce. Assaggiato già qualche mese fa, colpisce per la forte connotazione agrumata, a guisa di arancia rossa, tanto al naso quanto in bocca; una mineralità ferrosa, ematica, sostiene olfatto e gusto. Piccoli cenni di rosa e fragola ancora resistono allo scorrere del tempo.


Montefalco Rosso DOC 2015; 70% Sangiovese, 15% Sagrantino, 5% Merlot, 5% Barbera, 5% Cabernet Sauvignon. 18 mesi di botte grande poi affinamento in bottiglia. Signori, uno dei miei preferiti. Un vino di un’agilità e di una bevibilità incredibile. Naso di frutta rossa croccante, fragoline, ribes e more. C’è un soffio di vegetale, una nota intensa di mirto e di pepe, un ché di agrume rosso e di terra bagnata. La bocca è fresca e succosa, ben equilibrata da un tannino vellutato. Non se ne berrebbe mai abbastanza (sempre occhio alle quantità! Bevete bene ma bevete poco, scellerati!).
Montefalco Rosso Riserva DOC 2014; 70% Sangiovese, 15% Sagrantino e 15% Merlot. 30 mesi di botte grande, età media delle viti attorno ai 20/25 anni. La Riserva è più opulenta della versione ‘base’, con un carattere più deciso. Naso di frutta rossa matura, prugne e more, di cuoio, di spezie scure, liquirizia e vaniglia. Al sorso anche è meno immediato del Montefalco Rosso ‘base’, più morbido e ‘saporito’. Vino che si apprezza di più abbinato a qualche pietanza che in degustazione isolata.


Umbria Rosso IGT “Arquata Rosso” 2012; 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 20% Barbera. 30 mesi in barrique di rovere, un’altra cinquantina di mesi in bottiglia in bottiglia. Il ‘vino matto’, la creatura di cui Alvaro Palini andava tanto fiero (sempre senza darlo a vedere a nessuno, siamo comunque umbri). L’annata è stata caratterizzata da un’estate piuttosto fresca per le medie stagionali. Il vino rispecchia l’andamento della stagione donando una freschezza ben in mostra, non proveniente esclusivamente dalla Barbera, con una bocca piuttosto centrata sulle durezze. Profumi di frutta rossa ancora croccante, di ribes, more, rosa, con nota vegetale del Cabernet apprezzabile, humus e china. Vino ottimo ma che vedrà premiata un po’ di pazienza.
Umbria Rosso IGT “Arquata Rosso” 2011; 40% Cabernet Sauvignon, 40% Merlot, 20% Barbera. Tutt’altro discorso per l’Arquata Rosso 2011, annata con primavera piovosa ed estate calda. Il vino in questione è magnifico già ora, con i suoi finissimi profumi di frutti di bosco, di glicine, di noce moscata e chiodi di garofano, di pelle conciata, con una balsamicità mentolata, con la nota vegetale molto sottile, con un finale di liquirizia e cacao. Bocca che ‘inganna’, partendo lievemente abboccata (grazie, Merlot) per concludere su un gentile amaricante di cacao. Un vino davvero grande.


Montefalco Sagrantino DOCG 2012. 60 giorni sulle bucce, 3 anni di botte grande e 3 anni (almeno) di bottiglia. L’uva più tannica d’Italia ha fatto tesoro dell’annata fresca e gli anni di affinamento pare non abbiano scalfito le durezze, che entrano in bocca ancora a gomiti alti. Il Sagrantino in generale richiede pazienza, la quale viene sempre premiata con un profumo e sapore grandiosi. Fatto oggettivo è che questo vino non difetta di eleganza. Anzi, questa caratteristica accomuna tutti i vini di Adanti: l’eleganza sarà sempre presente nel calice, a prescindere dal vino. Tornando a bomba su questa 2012, il naso è ancora giovane. Si sente la terra, la frutta croccante (ciliegie e fragole), spezie scure e accenni di terziarizzazione ancora in divenire (cacao e un leggero cuoio). Dategli tempo, saprà ripagare.
Montefalco Sagrantino DOCG 1999. Qui debbo doverosamente ringraziare Stephanie Johnson, Italian Wine Editor per la rivista  ‘Wine & Spirits’. No, non ho conoscenze così importanti, non millanto credito. La ringrazio perché è grazie alla sua visita della sera precedente che io ho potuto trovare questo capolavoro sul mio tavolo. Non ho mai bevuto niente di più emozionante. Io per primo parlo di longevità del Sagrantino, ora ne ho però avuto la splendida riprova. Signori, mi auguro che tutti voi possiate un giorno bere un Sagrantino del genere, sinceramente. Andando sul concreto, il vino nel calice è granato pieno, di virare all’aranciato non ci pensa nemmeno (ricordate: 20 anni). Il naso è, ripeto, emozionante: visciole e prugne mature, mora e fragolina di bosco ancora viva, carne cruda (moderata mineralità ferrosa, per gli impressionabili), humus, pepe nero e noce moscata, balsamicità ancora notevole, poi scatola di sigari, cuoio, cioccolata… In bocca entra con soave grazia, senza pungenze. Il tutto è molto equilibrato, il tannino c’è ma è più tenue, la freschezza ancora è presente e si nota di più la morbidezza. Vino stratosferico, grazie ancora Mrs. Johnson.
Come bonus track avrei altri due vini, assaggiati lo scorso giugno. Già che ci sono…


Montefalco Sagrantino DOCG “Il Domenico” 2007. Si tratta di un cru, un vigneto di circa 40 anni piantato a 400 metri d’altezza sulle colline di Colcimino. La morfologia del terreno è differente dagli altri ettari vitati dell’azienda, e si caratterizza per una maggiore percentuale di carbonati e un’importante presenza di scheletro nel suolo. Queste due caratteristiche contribuiscono a dare maggiore finezza e longevità al Sagrantino dedicato a Domenico Adanti, il fondatore dell’azienda (ricordate? ne avevamo parlato qui). “Il Domenico” in effetti è connotato da note più fruttate che terragne, con una notevole profondità olfattiva, sempre riconducibile ad un Sagrantino ma con sfumature più ‘gentili’. L’effetto si replica in bocca, una grande complessità aromatica che si affianca ad una persistenza notevole. Ecco, provare questo vino dopo 20 anni di affinamento potrebbe essere un’esperienza ancor più emozionante.
Montefalco Sagrantino Passito DOCG 2010. Il Sagrantino come è sempre stato, un vino passito da gustare durante il periodo pasquale. La versione di Adanti è semplicemente stupenda. La concentrazione di profumi del passito di Adanti lascia stupefatti. Frutti di bosco e visciole in confettura affiancati dalla terra bagnata, spezie dolci, mirto, cuoio e tabacco da pipa. Bocca fresca e dolce, ma con la presenza dell’immancabile tannino che eviterà sempre il rischio di stucchevolezza, rischio che molti altri vini dolci corrono. A sua volta la dolcezza modera il tannino, ovviamente qui più concentrato (e potenzialmente più percepibile) rispetto alla versione secca. Persistenza misurabile con una meridiana. Non ho aggettivi che non siano banali per dirvi quanto questo passito mi piaccia.
Il tratto distintivo di tutti i vini della Cantina Adanti è una finezza riscontrabile ad ogni singolo assaggio, la non scontata capacità di trasmettere le caratteristiche della propria annata, senza che vari il costante piacere nel berlo. Complimenti ragazzi.
Alessandro (a destra), un simpatico ed appassionato degustatore di vini (a sinistra) ed un vino meraviglioso (al centro)