Un affaccio, un rosso e un pét-nat


Tre mesi di assenza; me ne dolgo ma tant’è. Tre mesi in cui non si è neanche bevuto molto. A dirla tutta, c’è stato ben poco a cui brindare, e con ben pochi. Sono tappe della vita, dicono: derive naturali di rapporti e becera sfortuna, anche piuttosto cattiva. Ma si va avanti, bisogna farlo. Questa paginetta non deve diventare un angolo del dolore e della rabbia anche se, come intuirete, ce ne sono a scatoloni.


Parliamo di vino, dunque: se ne è bevuto poco, dicevo. “Vabbè, e allora di che ci parli? Di freccette?”. Calma, seppur poco qualcosa sotto l’ugola è scorso, qualcosa anche di piacevole. 



 

Prima fu la volta di un Rosso di Montalcino di Fattoria dei Barbi, A. D. (Annata Divendemmia) 2019. Leggero ma non lieve, limpido e, per ultimare la sequela di aggettivi in L, levigato. Piacevole da bere, non cerebrale, ma ciò non significhi banale e scontato. È un vino che siede a tavola come commensale e non a capotavola: magari è uno di quelli tipi che segue attento i discorsi, annuisce e ogni tanto interviene suscitando consensi. Sì, antropomorfizzo i vini, è vezzo enoico.

 

Cosa di pochi giorni fa invece è la bevuta (non la degustazione: la bevuta) del Bolle di Grotta 2021 de La Torretta, un trebbiano pét-nat prodotto in quel di Grottaferrata, (lo dico, lo dico, lo dico) nella splendida cornice (l’ho detto) dei Castelli Romani. Ma questo è per fare il buffone: in realtà l’azienda ha un affaccio sconvolgente che spazia dal Tirreno a Roma, e beati Riccardo Magno e famiglia, i bravi vignaioli de La Torretta, che si godono quei tramonti ogni giorno. Il vino? Naturale, certificato biodinamico, le avrebbe tutte le caratteristiche del vino “sì… buono, per carità… ma ha qualcosa che stona”. Sfortunatamente, alla Torretta son reazionari: fanno vini praticamente esenti da difetti. Questo trebbiano, finemente torbido e giallo luminoso, è un trionfo di fiori e frutta a pomo. Nessuna scodata acetica, nessun souris. Si finisce in un amen, specialmente accanto a una pizza. Ahinoi, la produzione è lillipuziana e predilige l’export. Dovrete andare a caccia, ma ne vale la pena.

A presto. Forse. Chissà.

Andrea Occhipinti – Vino Rosso “Alea Viva” 2021

Erano anni che ci giravo intorno. Sbirciavo ma poi mi ritraevo sempre dall’acquisto. Vuoi perché è difficilissimo trovare vini di Andrea Occhipinti in enoteca; vuoi anche perché non è che vengano via per un soldo e due goleador (per il vino oggetto del discorrere erano esatti 24 €). Fatto sta che qualche giorno fa mi sono sentito particolarmente euforico da uscire dall’enoteca con l’Alea Viva 2021 al mio fianco, intenzionato a fargli la festa.

Andrea Occhipinti è vignaiolo in quel di Gradoli (VT), ridente località posta sulle rive del lago di Bolsena molto cara allo spirito di Don Luigi Sturzo (per chiarimenti riferirsi ad una seduta spiritica svolta nel 1978). Le sabbie e i limi di quello che è il lago di origine vulcanica più grande d’Europa contribuiscono a marcare il carattere delle uve di Gradoli, dove la parte del leone la fa l’aleatico, con grechetto rosso e procanico nelle vesti di Pumbaa e Timon. L’Aleatico di Gradoli è per tradizione dolce ma Andrea, che dopo un percorso di studi tortuoso finisce su queste sponde nel 2004, intuisce che ci si possa divertire con quest’uva trasformando in alcol tutti i suoi zuccheri. Così, rilevando vigne abbandonate e limitando al massimo il suo intervento, Occhipinti gioca con l’aleatico vinificandolo in bianco, rosato e rosso; le mani in tasca tende a tenerle anche in cantina, con fermentazioni spontanee in cemento, affinamenti in acciaio o legno e nessuna filtrazione o chiarifica. Vogliamo dire ‘vino naturale’? Tutti liberi di farlo.

Focalizzandoci sull’Alea Viva bevuto, bisogna partire da un liquido nel calice che sarebbe oggetto di contestazione da parte di 8 consumatori su 10 se venduto in GDO: rosso porpora torbido. No no, proprio torbido. Tor-bi-do. Questo la dice lunga sul vino? Per niente. Casomai illustra bene l’analfabetismo enologico che ha da essere curato, un sorso alla volta. Un vino torbido non indica nulla se non una mancata filtrazione. Stop. Se qualcosa fosse andato storto ce ne accorgeremmo con gli altri due sensi.

Anzi, chiamiamolo proprio in causa uno dei due: il naso. Un profumo assai seducente, una raccolta di fiori freschissimi e di frutta appena matura: rose, gerani, glicine, ciliegie, fragole… Si aggiungono note di anice, cannella e appena appena di foglie secche e cenere. Qui crollano tutti i pregiudizi sui profumi dei vini ‘naturali’: allora esiste, diamine, un modo per non incappare nelle tremende puzze che attanagliano tanti vini a fermentazione spontanea. Certo, il fatto che l’aleatico sia un’uva aromatica dà una bella mano, il carico terpenico potrebbe nascondere qualcosa; ma a lungo andare il bluff verrebbe scoperto, mentre qui la bottiglia è stata aperta per giorni (seppure chiusa con tappo sottovuoto e conservata in frigo) e non ha ceduto nulla, il profumo è rimasto sempre delizioso.

In bocca invece ho avuto qualcosa da eccepire. Il vino è certo fresco, il tanino è presente ma non eccessivo e la fine del sorso è abbastanza lunga e saporita. Il problema è un eccesso di amarore, segnatamente più la sua diffusione che l’intensità. Un amarore che si percepisce appena il vino entra in bocca e dà l’impressione di diffondersi per l’intero cavo orale e non solo sulla lingua. Un amarore rotondo. Non un vino imbevibile, lo avrei scritto chiaramente o non ne avrei scritto affatto. Ad ogni modo si va oltre il mero gusto personale: un tenore di gusto amaro del genere va obbligatoriamente abbinato al cibo (che, ricordiamo, è scopo ultimo ed altissimo del vino) e comunque non ne esce domato. E se spendo 24 € in enoteca vorrei godermi pienamente il vino, non giustificarlo con dei “sì, però”, se non magari a livello di sfumature gusto-olfattive individuabili comunque fra i canoni della piacevolezza. 

È solo questo importante particolare a frenarmi dal dire di aver bevuto il vino migliore del mio 2022, peccato davvero. Ma riassaggerò i vini di Andrea Occhipinti, poco ma sicuro.




Hyperdecanting: ma insomma, sì o no?

Il mondo si divide fra gli strenui oppositori alle innovazioni proposte (di solito il loro rifiuto è motivato con ragionamenti degni di un esemplare di yak), gli innovatori entusiasti, a prescindere dalla reale efficacia della novità, e gli scettici incuriositi. Pur essendo affine agli yak, mi reputo parte di quest’ultima schiera. E, come anticipato, non mi accontento di giudicare ridicola la pratica dell’hyperdecanting avendoci solo ragionato sopra: ho bisogno di sperimentarla. Poi dopo riprenderò ad insultarla, ma supportato dall’esperienza.

Il progetto prevede di versare lo stesso vino in un calice, in un decanter e, ahilui, nel frullatore, dare loro 10 minuti per fare amicizia con il contenitore e l’aria sovrastante, testare quindi i tre campioni e operare un confronto. Come vittima sacrificale ho scelto un Aglianico Sannio DOP 2019 de La Guardiense, 4,59 € al Carrefour. D’altronde è stato detto che questo metodo rende più classy i cheap wines, no? Che ne sai, magari ti diventa un Taurasi.

Il primo vino esaminato è quello versato direttamente nel calice: il colore è rosso rubino scuro e, come era ipotizzabile, tale nuance è comune a tutti e tre i campioni. I profumi principali sono di amarena, ribes, chiodo di garofano, terra e polvere di caffè. In bocca il vino è aguzzo, con freschezza in auge, tannino scarso, media persistenza e caratteristico amarore finale. Ormai ci sto e, sfociando nel soggettivo, proclamo solennemente che sì, il vino in sé non è spiacevole, ma che vorrete senz’altro spendere una manciata di euro in più per dirigervi verso vini di maggior spessore.

Ok, abbiamo lo standard di riferimento. È tempo di vagliare i caratteri del secondo campione: il quantitativo di un calice versato nel decanter.
Già che ci siamo, ripetiamo un concetto mai troppo ribadito: il decanter non è l’ideale per ossigenare il vino. Decantare è un’operazione che permette la separazione del vino dai propri sedimenti. Questi ultimi, se uno è bravo, restano tutti nella bottiglia, mentre il vino va a finire in un contenitore, che può essere il decanter come una caraffa qualsiasi. Inoltre, ossigenare troppo violentemente un vino anzianotto è deleterio per il suo delicato equilibrio. È come se voi dormiste per 10 anni e vi svegliasse un tizio con una vuvuzela: non auspicabile. Per ossigenare il vino è perfetto il calice.
Ultimato il sermone, procediamo con l’anamnesi: il profumo si fa più gentile, più ‘chiaro’, con qualche cenno di rosa che emerge dalla solita amarena, e con speziatura e sentori terrosi più soffusi. La bocca risulta meno aguzza rispetto al gemello in vetro minore, sebbene sempre molto fresca, identico l’effetto del tannino e accentuata la sensazione di amaro.
Don’t try this at home (or anywhere else)


E veniamo allo strazio del vino frullato. L’idea alla base di chi ha ideato la tecnica, ripetiamolo, è di ammorbidire le asperità del vino, operando un contatto repentino e potenziato con l’ossigeno. Andrebbe detto che, d’accordo la levigatura tannica, ma quest’ossigenoterapia sotto tornado avrebbe almeno due effetti collaterali facilmente prevedibili: uno è la perdita aromatica, dato che massimizziamo con violenza la superficie di contatto tra aria e vino, e ciao ciao ai profumi più delicati; l’altro è l’innalzamento della temperatura del vino, perché se frulliamo una cosa questa aumenta di temperatura (e questo esalta l’effetto collaterale numero uno. Una pratica a prova di bomba s’è inventato l’informatico cuciniere, eh?).
Dunque, dopo venti secondi di sevizie ho stoppato il frullatore, chiesto perdono a varie divinità vigenti e versato il vino nel calice per l’esame. Il profumo ricorda un frullato alcolico di fragole e gerani. Stop. Volendo proprio fare i lagotti, sullo sfondo si percepisce qualche cenno speziato, ma proprio volendo scandagliare con ostinazione. Il sorso di questo vino è liscio, piatto, inconsistente. La freschezza risulta appena percepibile, ma già dopo che il vino ha preso la galleria sud, con l’amarore sempre pimpante. E, sorpresa delle sorprese, il tannino è perfettamente sovrapponibile agli altri due campioni. Cioè, “frullate i vini così sono più morbidi” e poi mi rimane proprio la componente da moderare?! Ma dai! Ma vergogna!

La conclusione dell’esperienza vede come vincitore il calice: il decanter ha reso forse più accattivante il vino al naso, ma solo superficialmente. A lungo andare la maggiore soddisfazione la regala il calice, con variazioni a livello olfattivo che avvengono con la giusta lentezza e con il gusto che evolve a poco a poco.
E l’hyperdecanting? Fareste meno danni a bere il vino con i cubetti di ghiaccio. La scienza ha parlato.

Hyperdecanting… ma perché?

Era partita come una domenica sera qualunque: 19:30 circa e voglia di muovere un muscolo pari a zero. Siedo sul divano guardando L’Eredità (ma beati voi che avete voglia di una vita sociale più attiva; io sono un ometto semplice, punto al risparmio dei battiti cardiaci e la sera mi guardo L’Eredità). Arriva la domanda “a quale azione ricorre chi fa decantare il vino con il metodo dell’”hyperdecanting”?’ e il buon Flavio Insinna snocciola le 4 opzioni:

Lo passa attraverso garze

Lo frulla con un frullatore

Lo riscalda con aria calda

Lo travasa minimo tre volte

Ok, domanda sul vino, non so la risposta ma proviamo a ragionarci: la prima è una semplice filtrazione, quindi no; la terza è oscenamente impossibile; la quarta potrebbe essere plausibile, mentre la seconda, penso, è roba da malati di mente. 

Vi risparmio righe di suspense: la risposta esatta era la seconda.


Al disvelamento della risposta corretta m’è partito dalla punta dei polmoni un sonoro “MA CHE SO’ SCEMI?!”. Mia figlia, due anni, mi ha guardato come uno storico dell’arte guarderebbe uno che, di fronte alla Crocifissione di san Pietro del Caravaggio, bofonchiasse “caruccio questo quadro”. Povera bimba, lei non può capire.

Anni di nozioni tramandate solennemente dai più saggi ai discenti, in cui l’ammonimento era “il vino è materia viva, e va sì rispettato: urge adunque evitare qualsivoglia molestia tellurica al prezioso liquido, sia nei trasporti che nella conservazione”. Anni ad apprendere come il decanter non facesse proprio bene al vino, che un’ossigenazione troppo violenta sfibra i vini più invecchiati, che la cantina non deve confinare con i binari della Metro A altrimenti il vino si stressa, che niente di meno per gli scaffali deve essere usato il legno, poiché assorbe meglio le vibrazioni al contrario di plastica, ferro e mattoname vario. E ora ce ne usciamo con il frappé di Cabernet? 

Una foto del sottoscritto al momento della risposta

Il tradizionalista annidato in me è ovviamente disgustato da cotanto affronto alla bevanda eletta. Ma ho pur sempre una formazione scientifica; inoltre devo ammetterlo, anche se con un brivido: dopo il ribrezzo iniziale mi sono chiesto “e se fosse vero? E se il vino davvero ne uscisse migliorato?”.

Prima di tutto un minimo di ricerca: chi l’ha messa in giro ‘sta roba? Gli anglosassoni, e come ti sbagli. La pratica sarebbe stata codificata negli anni 2000 da Nathan Myhrvold, un seattleite precedentemente CTO presso Microsoft ed oggi cuoco e co-autore di Modernist Cuisine, un’enciclopedia della cucina del 3000 [link informativo]. E mi sembra pacifico che uno con le lettere del cognome passate per un frullatore volesse riservare stessa sorte al vino.

La teoria alla base della pratica è piuttosto immediata: il vino con l’aria migliora, vero? Si apre, i tannini smussano le loro asperità, diventa più facile da bere; perché mai dovremmo aspettare dei lunghi minuti in attesa dei capricci della natura, quando con 30 secondi di frullatore, aumentando esponenzialmente il contatto tra vino ed aria, otteniamo un risultato perfino migliore (dicono loro)? Il trattamento speciale migliorerebbe il gusto dei cheap wines, mentre non viene caldeggiato per vini di un certo livello. Sfido: trovatemi voi uno che maltratti in questo modo uno Château Haut-Brion e vada in giro a vantarsene; come guidare una Ferrari sullo sterrato: certo che puoi farlo, ma perché mai dovresti volerlo?


Il fatto che la tecnica provenga dalla cultura anglofona dà ancora una volta la misura di come noi, vecchio mondo, consideriamo il vino sacro ed intoccabile; per loro è solo una bevanda, dunque che male c’è a sperimentare? Io trovo che non abbiano affatto torto. Certo, frullare un Syrah resta sempre un crimine per me, ma comprendo la loro visione: nessuna innovazione è nata restando fermi. Questo sempre se ci si ricorda che sperimentando si possono anche prendere delle sontuose quaglie, o peggio: Franz Reichelt, che nel 1912 volle sperimentare il suo giaccone-paracadute lanciandosi dalla Tour Eiffel, ottenne solo una ripresa della sua morte e l’imperituro titolo di ”scemo”. Poveraccio.

In conclusione, poiché prima di dire che una cosa non ci piace dobbiamo quantomeno assaggiarla, sacrificherò qualche cl di vino per la causa, frullandolo malamente e cercando di capire cosa accade, in positivo e in negativo. Attendete fiduciosi.

Casale del Giglio – Lazio Bianco IGT “Antinoo” 2019

 Io, o non c’ho mai capito niente, ed è verosimile, o lo faccio apposta. Boh. Non scrivo qui da mesi (eh, la vita signora mia, sa…) e come ti rientro? Con un vino di Casale del Giglio. Nel 2022. E allora lo vedi che sono io? 

Vabbè, ma che c’è di male a bere un vino di Casale del Giglio?” si domanderanno alcuni di voi. Teneri innocenti. Allora, proviamo a fare una cosa difficile, tipo un backflip sul ghiaccio alla Surya Bonaly: riassumiamo in poche righe 40 anni di tendenze enofile in Italia.


Cominciamo dal 1986 e dallo scandalo del vino al metanolo (ne ho già parlato quiquo e qua). Il vino italiano ha un sussulto e sceglie l’evoluzione: vigna e cantina diventano più tecnologiche, mettendo nel mirino il bersaglio ‘qualità’. Al contempo girava voce che il pollice dritto di un avvocato americano sul proprio vino avrebbe fatto da agente lievitante per le vendite. L’avvocato, al secolo Robert Parker, era diventato famoso per aver battezzato da sacerdote solista l’annata 1982 a Bordeaux come magnifica. Da allora un giudizio sopra i 95 punti del Wine Advocate fa miagolare di gioia le cantine. Un effetto simile, casalingo, lo si otteneva alla cattura dei tre bicchieri della guida Vini d’Italia del Gambero Rosso, prima edizione targata 1988. E come rendere indulgenti naso e palato dei critici? Pulizia, concentrazione e intensità gustativa, non come i vecchi vini dei contadini, scialbi e smilzi. Come ottenere tutto ciò? Igiene in cantina, lieviti selezionati e barriques. 

Va da sé che per un bel periodo si è barricato anche il Gatorade. Tuttavia, negli anni a seguire il tecnicismo esasperato avrebbe suscitato in molti la nostalgia di un vino passato, sincero e spontaneo. Giovani vignaioli rilevarono le vigne dei nonni per provare a fare vino secondo una nuova coscienza, una nuova filosofia. Esplose così negli anni 2000 il fenomeno del vino naturale, con l’intervento dell’uomo limitato magari alla potatura e all’esclusivo trasporto delle uve in cantina, e stop.

Arriviamo ad oggi, dove il vino naturale da nucleo di resistenza e rivoluzione è diventato moda e marketing, con tutto ciò che ne consegue: grandi cantine che cavalcano l’hype producendo bianchi macerati, affinati in anfora, senza solfiti aggiunti, etc., vignaioli improvvisati che imbottigliano aceto frizzante spacciandolo per vino di territorio ed ultras di questa corrente enofila, che se poco poco sei entrato in cantina più di una volta a settimana il tuo vino non lo vogliono neanche per sfumarci il polpettone.


E qui ci ricolleghiamo a Casale del Giglio, intuendo come non sia certo di gradimento dei detti ultras: è una cantina perfettamente convenzionale, coltiva uve internazionali e produce una milionata di bottiglie l’anno. Per dei lustri è stato il biglietto da visita del Lazio nelle carte dei vini romane ed italiche, con l’eccezione di poche altre bottiglie (non aziende, bottiglie). E finché la corrente era quella dei vini ben pettinati nessuno ha avuto da ridire: fosse esistito Instagram ai tempi sai i reel con le secchiate di Mater Matuta tirate addosso? Con l’avvento dello spontaneismo enologico, Casale del Giglio è assurto a simbolo del vino industriale, costruito, il male insomma. Esagero? E allora andatevi a rivedere le dolci paroline che ha riservato loro Jonathan Nossiter su GQ 10 anni fa (LINK su Percorsi di Vino di Andrea Petrini). Fortunatamente questa ‘battaglia’ ha perso lo slancio iniziale, ma comunque difficilmente oggi vedrete nel vostro feed wine-influencer che si immortalano brandendo un calice di Satrico.


Io invece sono totalmente sprovvisto di senso pratico, e me ne esco con l’“Antinoo” 2019, un blend di 2/3 chardonnay e 1/3 viognier affinato in tonneaux e barriques. Ed andando subito al sodo, sapete che c’è? È buono. Ho speso 15 € in enoteca e ho bevuto un vino buono. Magari non emozionante (nota: le emozioni sono soggettive), magari non un ‘vino buono’ per come lo intende Sandro Sangiorgi, ma indubbiamente piacevole da bere, non pernicioso. La giusta maturità della frutta (pera, pesca e papaya), una bella nota iodata, nocciole tostate, cenni di origano, buccia di limone e miele, ed in bocca una decisa sapidità, un piacevole allungo e la giusta intensità gustativa, con ritorni tostati ed agrumati in fin di bocca. Piacevole e non invadente, nulla da eccepire.


Eh, ma è un vino convenzionale, usano prodotti chimici”. Premesso che per avere la mia attenzione dovete far vostro il concetto che ogni sostanza è chimica, diciamo che roba tipo il solfato di rame e lo zolfo non è che siano acqua fresca per uomini e terreni (e il biologico li consente).

Eh, ma non ha la sincerità di un vino naturale”. Sincerità, che parola abusata in campo enologico (e anche qui l’oggettività del concetto la si vede col drone). Confesso che vengo da mesi in cui ho assaggiato molti vini, la maggior parte dei quali naturali, volendo anche ‘vini sinceri’. Vini che tutto mi hanno lasciato tranne la voglia di berli nuovamente. Vini che ho pagato quanto se non più di questo Antinoo. E restando sulla sincerità, se un tizio vi dicesse la verità ma in modo brusco, scontroso e maleducato, certamente sarebbe sincero, altrettanto sarebbe stronzo.

Eh, ma il gusto è omologato, non è territoriale”. Se bevo uno chardonnay/viognier prodotto su suolo sabbioso ed ex paludoso di Aprilia non vado certo a cercare il territorio. Inoltre, sfugge a molti che l’80% dei consumatori di vino (e mi tengo stretto) ignora totalmente il concetto di territorialità e cerca solo un vino che appaghi il proprio gusto? Ed è sbagliato questo? Ci piace talmente tanto ‘sta bevanda qui, ne abbiamo letto, abbiamo studiato, ci accapigliamo per essa (beati voi che potete farlo senza le pinzette), ma ignoriamo l’elefante nella stanza: la maggior parte dei bevitori di vino se ne frega di terroir, fermentazioni spontanee ed affinamenti sur lie. Queste persone vogliono solo e legittimamente bere del vino privo di difetti, che gli lasci un buon ricordo e che non costi come un paio di Air Jordan usate dal medesimo bipede volante. E Casale del Giglio a loro si rivolge, e nessuno può dire sia sbagliato.


Ribadisco: la qualità principale di un vino sta nella piacevolezza nel berlo (unita all’assenza di difetti, ma quella più che una qualità è proprio un requisito minimo). La naturalità, i lieviti indigeni, la conduzione biodinamica sono degli enormi valori aggiunti, ma solo se il punto di partenza è che il vino sia esente da difetti e piacevole da bere.

E ora che ho minato la mia prestigiosa reputazione vi saluto e ci risentiamo tra altri cinque mesi!


Marco Antonelli – Cesanese di Olevano Romano Superiore DOC “Il Fresco” 2020

 

Mi piace l’estate, non il freddo porco di questi giorni.

Mi piace il rumore della retina di basket.

Mi piacciono le morbide colline dell’Umbria, specialmente quelle della zona di Montefalco: dolci, rotonde, pacifiche.

Mi piace un giorno di pioggia che arrivi dopo dieci giorni di sole. E mi piacciono dieci giorni di sole consecutivi.

Mi piace camminare per Roma; senza meta, senza obiettivo: solo camminare. E osservare.

Mi piace il “clic” del vasetto di confettura nuovo.

Mi piace annusare il barattolo del caffè ogni volta che lo apro. Ogni singola volta.

Mi piacciono mia moglie e mia figlia. Mi piacciono da morire. Mi piace la vita che mi regalano ad ogni istante.

Mi piace chi ha pensato “scriverò un libro” e poi lo ha fatto davvero.

Mi piace parlare alla maniera di Guido Notari.

Mi piace il profumo dei libri e delle matite appena temperate.

Mi piace l’uso che Mike Portnoy fa di bacchette e pedali.

Mi piace il colore dell’alba.

 


Mi piace il Fresco di Marco Antonelli, Cesanese di Olevano leggiadro e compagnone.

Mi piace il suo colore: una lastra di vetro color carminio.

Mi piace il profumo che ha: rosa canina, viola e ciliegie croccanti, marzapane e zenzero, pepe e cardamomo, cenni di ruggine e di macchia selvatica.

Mi piace berlo, sentire come rinfreschi la bocca, come si distenda in lungo e in largo; mi piace l’aroma che lascia per lunghi istanti: fiori, spezie e un leggero amarore.

Mi piace il Fresco di Marco Antonelli, mi piace sempre.


P.S.: per chi volesse saperne di più, magari in maniera meno teatrata, rimando a quanto ho scritto dei vini di Marco Antonelli qui e quo.

 

Verticale, un nuovo magazine a tema enoico


Siamo di fronte ad un periodico semestrale cartaceo. Immaginato da tre trentenni. Stampato in bianco e nero. Unica concessione al colore il rosso della copertina. Copertina che è, tra l’altro, inspiegabilmente tagliata a metà. Invitanti come premesse? 

E poi di cosa parlerebbe questo periodico? Degustazioni verticali di vino. Il nome dell’assassino è già nel titolo, ma per i non avvezzi al linguaggio degustatorio: dicesi ‘degustazione verticale’ una serie di assaggi di annate differenti dello stesso vino.

 



Dunque, tre ragazzi nel 2021 investono per dare alle stampe un magazine che esce ogni 6 mesi, ordinabile solo on line, e che parla di bevute che i tre caballeros, eventualmente coadiuvati da un manipolo di sodali, hanno operato andando a zonzo per lo stivale. Anacronistico? Beh, certamente non molto in linea con i tempi. Ma a parte il fascino infinito della lettura su carta, va detto che i tre moschettieri possiedono una solida credibilità in ambito enoico, oltre a tre notevoli criniere e gusti musicali encomiabili.


• Jacopo Cossater: veronese trapiantato in Umbria (ottimo arrocco), scrive di vino su un’ottantina di testate internettiane, tra le quali Intravino, Linkiesta, Dissapore, Piacere Magazine, Cavalli e segugi, Motori agricoli, ecc. (anche se sulle ultime due non ci giurerei). È anche l’ideatore e conduttore di un podcast eccellente, “Vino sul Divano”, che disgraziatamente è fermo alla seconda stagione. Si occupa di marketing digitale, di e-commerce, e va dicendo in giro che ha anche del tempo libero.

• Matteo Gallello: calabrese trapiantato a Roma, per circa undici anni è stato una colonna portante di Porthos. Cosa è Porthos? Porthos è una sorta di monastero, un tempio al centro di Roma, dove il vino viene celebrato, pensato, discettato. Il demiurgo è Sandro Sangiorgi, e non servono presentazioni. Matteo si è occupato di redazione e didattica fino allo scorso anno. Oggi gira l’Italia proponendo la sua idea di vino; pensieri che valgono la pena di essere ascoltati.

• Nelson Pari: romagnolo trapiantato a Londra (non è un magazine: è un reparto di chirurgia): ci arriva a circa 20 anni, consegue un Master in chitarra jazz, frattanto si interessa di vino e mi diventa wine buyer per il club 67 Pall Mall (non proprio l’osteria di compare Benetti Rodolfo detto Cantuccio a Prossedi). 

 

Ogni numero è composto da sei degustazioni verticali di vini che hanno visto la luce negli anni 2000. Facile fare un pezzo su una verticale di Sassicaia, si scrive da solo: prova a farne uno sul Falistra di Podere il Saliceto (un Lambrusco di Sorbara di una bevibilità sconcertante). E i ragazzi sono abbastanza fuori di testa da averla non solo fatta, ma messa anche nero su bianco. Le degustazioni sono precedute da una presentazione seria e dettagliata del vino, dell’azienda produttrice e del territorio da cui proviene. Poi parte la rassegna delle annate, partendo dalla più vetusta per finire con l’ultima disponibile in commercio; di ogni annata i commenti dei tre degustatori di turno. Commenti, badate bene, anche discordi. Ed è proprio questo, io credo, il valore aggiunto della pubblicazione: il fatto che ognuno dei degustatori abbia il proprio parere sul vino che sta assaggiando. Il vino è materia oggettiva fino ad un certo punto, poi decollano le sensazioni soggettive. Poter confrontare tre pareri differenti dà modo anche di capire il proprio modo di intendere il vino, magari lo stesso vino se si ha la fortuna di averlo a disposizione. 

 

Concludendo: a me il progetto piace, la carta piace, gli argomenti piacciono e gli autori godono della mia massima stima. Non c’era un singolo motivo che mi trattenesse dal dar loro fiducia, ed ho fatto bene. Bravi.

 

VERTICALE.WINE


[In realtà, col senno di poi, uno ce ne sarebbe stato: la spedizione. Ma per quale diamine di motivo nel 2022 si affida la spedizione di un periodico alle Poste Italiane?! Se non si valuta il cambio del corriere, chiedo ufficialmente la spedizione entro la prossima settimana del mio numero di maggio, così forse arriva per tempo.]