Europa che parla di vino e testate che parlano di questo: preparate i popcorn.

 Attenzione, l’Europa vuole vietare vino e birra!!1!uno!!”. Questo è il tono dei commenti meno deliranti trovati su Facebook alla notizia dell’approvazione del rapporto del Comitato Speciale BeCa (Beating Cancer) nei confronti delle bevande alcoliche. Rapporto, va detto, già diffuso in prima stesura a febbraio 2021. Il comitato è composto da alcuni eurodeputati, con lo scopo di supportare il trattamento dei vari tipi di cancro e diffondere studi e raccomandazioni per contenerne le fonti di rischio. In quest’ottica si inserisce l’ormai famoso report, che andrà all’esame dell’Europarlamento nei prossimi mesi. 

Esso, in estrema sintesi, riporta che “Il consumo di alcool è un fattore di rischio per molti tipi di cancro […] alla cavità orale, alla faringe, alla laringe, all'esofago, al fegato, al colon e, nelle donne, al seno”. L’incoraggiamento proposto da questo report è di non incentivare il consumo di alcol, con conseguente adozione di provvedimenti come, ad esempio, divieto di pubblicità per le bevande alcoliche.

Analizziamo insieme, con tutta la calma residua: ci stanno dicendo che il consumo di alcol, anche se moderato, è comunque rischioso; che non c’è una quantità “sicura”, che è l’assunzione di alcol in sé a comportare un rischio, il quale è tanto maggiore quanto è l’aumento della dose. La parolina magica è ‘rischio’: non è matematico, non è certo, ma è rischioso consumare alcol; più se ne consuma, più il rischio aumenta. 

Non va mai dimenticato che l’alcol etilico è categorizzato come cancerogeno di classe 1. Cosa è la classe 1? È il gruppo in cui sono comprese le sostanze per cui esistono sufficienti prove scientifiche della loro capacità di influenzare l'insorgenza dei tumori. E tanto per non creare appigli polemici, in questo gruppo ci è finita anche l’acetaldeide, ossia ciò che diventa l’alcol etilico quando viene “digerito” dal nostro corpo. Mi sembra tutto abbastanza chiaro, non trovate?

 

La pacatezza con cui si affrontano questi argomenti: rischio morte.

Torniamo al report, che dice che più alcol bevi più chances hai di vincere un cancro, quindi sarebbe meglio non pubblicizzarne troppo il consumo. Apriti cielo! Molte testate hanno esordito con titoli del genere: “L’Europa vuole vietare vino e birra”, oppure “Vino, produttori in allarme per la proposta di stretta anti-alcool alla UE”.

Nessuno si offenda, ma li trovo solo titoli clickbait, che si inseriscono perfettamente nella marmellata disinformativa del giornalismo versione internet degli ultimi dieci anni (almeno). Titoli che parlano alla pancia dell’individuo, parole messe insieme non per informare, non per sintetizzare la notizia, solo per generare una reazione (il più delle volte l’indignazione e la rabbia). Poi uno l’articolo lo apre anche e, prevedibilmente, non trova i toni apocalittici del titolo; trova la notizia così come è, senza poteri occulti che vogliono la nostra forzata sobrietà oppure orde di islamici che si fanno beffe di noi, miseri occidentali costretti a pasteggiare solo a cedrata Tassoni.

Io non sono un giornalista, non è il mio mestiere e non so come si faccia, ma come utente so che un’informazione del genere è sbagliata; peggio ancora: è dannosa. Glisso sui commenti beceri letti su Facebook a questa notizia, come sul mio commento riguardo queste persone (ricordiamo che il 59% degli utenti di Facebook ha tra i 25 e i 54 anni: tecnicamente, hanno tutti potuto frequentare le scuole. Hanno ricevuto una decente istruzione e possiedono gli strumenti per far funzionare il cervello, non solo la pancia. Che si adoperino), ma è sintomatico del modo in cui le notizie vengono date.

 

Io che (sbagliando clamorosamente) leggo i commenti

Concludo con il mio personale commento alla notizia: “ “.

Se l’UE stabilisce che non esiste soglia sicura per il consumo di alcol, io sono d’accordo. Non perché amiamo il vino possiamo ignorare che l’alcol contenuto, per poco che sia, non faccia male. Ci fa piacere considerarci quelli che venerano la bevanda più nobile, il sangue di Gesù, ecc., ma ciò non elimina la quota di alcol in esso contenuta e le sue possibili malefatte. Io amo il vino ma odio profondamente l’alcol: conosco i danni che fa. 

Detto questo, sono consapevole che tutto un comparto potrebbe avere una flessione economica negativa se questo rapporto avesse seguito legislativo, e ciò coinvolge tanto noi quanto i nostri cuginetti francesi, i tedeschi e chiunque abbia una vigna. Certo che ciò non è positivo, ma avrà comunque più peso la salute generale che non gli introiti aziendali (altrimenti cosa dovrebbe dire l’industria del tabacco? E anche le sigarette facevano parte della nostra cultura, anche se mi riesce difficile accostare le parole ‘cultura’ e ‘fumo’, ma quello è un problema mio).

Inoltre, il vino è radicato nella nostra cultura da millenni: non sarà certo un’avvertenza su un’etichetta a farci smettere di bere il classico bicchiere a pasto, o sbaglio? Potranno aumentare i prezzi di un tot, vorrà dire che direzioneremo con più attenzione i nostri soldi. Quelli che hanno sempre comprato il boccione da 5 litri di Castelli Romani DOC Bianco (dal colore quasi verde, altro che bianco…) e ci annaffiavano le cene a colpi di un litro alla volta, magari finiranno col bere mezza bottiglia al giorno (che sempre 3 bicchieri sono, eh) ma spendendoci qualche euro di più, cercando la bottiglia più soddisfacente. Pensate, magari assisteremo al drastico calo di quei boccioni da 5 litri; magari le aziende penseranno “devo rientrare di quegli introiti: facciamo che produciamo meno ettolitri, facciamo un vino più che decente e lo vendiamo a un tantino di più”. 

Ok, sto sognando, ma sono uno di quelli che spera sempre che alla fine il Titanic lo schivi quell’iceberg traditore. E, per inciso, Jack su quella maledetta porta poteva starci.

Failure management, o “come scrivi che il vino assaggiato è una ciofeca?”

 Come gestire un assaggio andato male? Come gestirlo se si scrive, e se i propri scritti non vengono gelosamente tenuti sotto chiave (USB) ma diffusi a mezzo social? Che fare, infine, nominare vino e produttore? O tenerlo candidamente celato?

L’antefatto: stappo un bel rosso, annata 2013, un Chianti Classico Riserva che può reggere alla grande gli 8 anni sulle spalle. Verso nel calice, rosso rubino tendente al granato. Tutto nella norma. Naso: sentore fungino, sottobosco, poi ciliegie sotto spirito, humus, lieve nota di peperoncino, cuoio, liquirizia. Ok, siamo ancora in carreggiata, nessuna avvisaglia di pericolo. 

Lo assaggio. Diamine! Ma quanto diavolo è amaro? No no no, aspetta: cioè questo parte amaro, prosegue amaro e ci finisce pure amaro?! È amaro come una cattiveria. A-ma-ro. Tannino ce ne è, freschezza hai voglia, sapore moderato, ammesso di riuscire percepirlo in mezzo a tutto questo fiele (ve l’ho già detto che ‘sto vino è amaro?), ma scema anche di corsa per un vino di questo calibro, lasciando in bocca un sapore erbaceo e di mela rossa neanche troppo matura. Oltre all’amaro.

Va bene, reazione iniziale comprensibile anche se poco politically correct. Poi penso: “lascio il calice all’aria. Ma sì, magari ha bisogno solo di respirare un pochetto. Forse con un po’ d’aria si riprende. Si riscatta. Me lo immagino che si toglie questo mantello polveroso e ci regala suggestioni impressioniste. Ecco, ci riprovo, va. Anche una bella rotazione del calice, magari lo aiuta. Pure due. Ma sì, facciamogli proprio una centrifuga, che gli fa, tutta salute. Vedi che al naso è più aperto ora; magari al sorso, che ne sai, quasi quasi… Eh no, maledizione! E ‘sto vino fa veramente schifo, è imbevibile!”. Fine della scena, con il contenuto di calice e bottiglia che va a controllare come stiano messe le tubazioni domestiche, accompagnato da parole mai udite in una pagoda buddhista.

 


Esposta la nuda cronaca, possiamo proseguire con le riflessioni. La prima indagine è verso la bottiglia. Potremmo metterne in dubbio la conservazione, ma un difetto gustativo del genere ha poco a che vedere con la conservazione del vino, e ce ne saremmo accorti già al naso.

Si può pensare ad una vinificazione riuscita male, qualcosa sarà andato storto in cantina. Ok, è quello che ho pensato io in effetti. Ma mettiamo che voi siete un produttore, vi viene male un vino e che fate, lo vendete lo stesso? Mica sarete scemi. Oltretutto questo vino si è beccato pure una medaglietta da Decanter: non che sia per forza un attestato di indubbia qualità, ma avrebbero mai potuto quelli dare un premio ad un estratto di artemisia? 

Allora il problema è nella mia bocca? Beh, no. L’apparato orofaringeo funziona egregiamente. Ma per mettermi in dubbio l’ho fatto anche assaggiare a mia moglie, senza anticiparle niente: è ancora lì che cerca di riaprire gli occhi dallo schifo. Due su due comincia ad essere un campione rappresentativo.

Non so davvero cosa altro pensare. Mancherebbe solo il tappo fra gli indagati; tuttavia non so se esso, oltre a regalare al vino quel traditore del TCA, sia in grado anche di tramutare il vino in cicuta. 

 

In conclusione, il dubbio finale: lo dico o non lo dico di quale vino si tratta? 

No. Non lo dico. Non è il caso. 

Questo è stato un assaggio di una singola bottiglia comprata in enoteca. Se volessi abbozzare un’indagine dovrei recuperare lo stesso vino da diversi distributori, aprire le bottiglie in contemporanea e confrontare l’esito degli assaggi. Solo allora avrei abbastanza dati per poter dire “il vino X è buono ed era la mia bottiglia ad essere sfigata, vai a capire il perché”; oppure “a seguito di tot assaggi possiamo dire che il vino Y non è buono, e voi non dovreste nemmeno toccare la bottiglia sullo scaffale”. 

Un pretestuoso ‘diritto di dire la propria opinione’ sui social può essere un motivo allettante per fare comunque nomi e cognomi: la critica negativa porta sempre ad una maggiore visibilità e maggiori interazioni. Ma è utile? No, non lo è; non nei termini di un assaggio singolo. Prima di dire che un’azienda vende vini imbevibili e difettati bisogna esserne più che certi. Neanche tanto per paura degli avvocati, semplicemente per rispetto. Per cui niente gogna mediatica, avrete solo le impressioni personali di un assaggio che mi ha lasciato con… l’amaro in bocca.

[ba-dum tiss]

Travaglini – Gattinara DOCG 2016

Ci risiamo. Candidamente ammetto che l’intento era farlo dormire in cantina per almeno un lustro. Invece, vuoi la curiosità, vuoi il braccino corto che impedisce di spendere soldi per altre bottiglie di vino, che insomma la cantinetta è anche piena, sì però è piena di vini che vorrei far maturare, sì però oggi ci siamo domani chi lo sa… insomma, vuoi per questi motivi, un velo di malinconia novembrina da lavare via, e si finisce ad aprire anzitempo una delle due bottiglie di Gattinara di Travaglini (l’altra speriamo riesca a campare di più).

Bottiglia celebre, surrealista, ideata dal fondatore Giancarlo Travaglini. Comoda nella presa, arreda bene la tavola, non molto pratica invero nella torsione anti-goccia del polso (nota: l’autore ha sì un diploma da sommelier, ma riesce nella titanica impresa di far cadere gocciole vinose anche a bottiglia ferma in verticale. Che dire, il talento non si sceglie). 

Gattinara è un paesucolo lontano dalla ribalta delle Langhe; sta su una collina alla destra della Sesia, e l’omonima DOCG è il ‘numero 10’ di quella macroarea definita Alto Piemonte. Qui il nebbiolo (localmente chiamato spanna) indossa altri abiti, meno chic rispetto alle Langhe ma indubbiamente di alta sartoria. Una diaspora svuotò le campagne alla metà dello scorso secolo (lo abbiamo visto parlando del Boca [LINK] e del Lessona [LINK]), con i contadini mutati in cittadini salariati. La fama del Gattinara non bastava per tutti a colmare pance e portafogli. Una fama certificata, fra i tanti, dalle parole di due cultori (chiamarli ‘scrittori’ è riduttivo) come Paolo Monelli e Mario Soldati. Uno scrisse “[…] il Gattinara, vino compatto, profumato, di gioioso colore, di severi propositi”; l’altro diede alle stampe qualcosa di irraggiungibile: “Ha un colore limpidissimo: rosso marroncino, che tira al giallo: ma quando ce ne resta soltanto una goccia in fondo al bicchiere, e lo guardi contro il bianco della tovaglia, ha il colore rosa scuro, rosa oro, rosa antico; la luminosità, a notte, dei portici di Gattinara. […] Un sorso, a fior di labbro, sulla punta delle labbra. Isolarsi, intanto, concentrarsi, restare immobili, lasciare che il sapore salga al cervello, lo spirito si faccia spirito e si possa, tranquillamente, pensarlo. […] Un sorso di Gattinara. Purché vero, s’intende. Non chiedo di più”. Meglio di così è difficile fare.

 


Travaglini detiene praticamente la metà del vigneto gattinarese (52 ha aziendali), imbottigliando vino dal 1958. Per il Gattinara di Travaglini la spanna, cresciuta su suoli di porfido vulcanico e ricchi di ferro, viene fatta fermentare in acciaio per poi farsi un sonno di circa 3 anni in botte grande e di 3 mesi in bottiglia. 

Nel calice la 2016 è un rubino vero e proprio, un magnifico vetro rosso. Al naso un profumo dalla moderata intensità, di frutti di bosco rossi su cui svetta il lampone, aroma di geranio, ruggine, cardamomo e vaniglia, tabacco da sigaro.

In bocca il Gattinara 2016 è ancora bizzoso, con le durezze in evidenza: tannino e freschezza dettano legge, particolarmente la massima sensazione di astringenza la si prova sul retro del palato e della lingua. Il sapore del sorso sfuma con un ciccinino di fretta in più rispetto le mie aspettative, che ricordiamo sono irrilevanti. Credo che prima dei 10 anni dalla vendemmia questo vino non debba essere aperto, è il terzo assaggio a consigliarmi questa tempistica: i tannini hanno bisogno di morigerarsi e un po’ di evoluzione non può che giovare al sapore. Detto ciò, se lo trovaste al supermercato mettete pure una bottiglia nel carrello (sì, è uno dei pochi vini che potete trovare negli scaffali tra i sottaceti e le farine di cui consiglio l’acquisto).

Scala - Cirò Rosso Classico Superiore DOC 2018

Che poi uno non vorrebbe fare classifiche, confronti tra vini di diverse regioni. Che poi però ci caschiamo tutti e, assaggiato un vino, è un attimo a cercare il paragone, la comparazione per valori ‘assoluti’, così da trovare il ‘vincitore’ e l’eventuale distacco dei ‘contendenti’. Ci vorrebbe mezzo secondo a sentenziare che il Cirò è il Barolo/Brunello/Richebourg della Calabria, che il gaglioppo di quella terra è il suo nebbiolo/sangiovese/pinot noir. Ne sarei tentato, quello delle somiglianze è un gioco divertente, ma non è cosa. 

Lasciamo stare i paragoni insensati e prendiamolo da solo: il Cirò è un vino di tutto rispetto, soprattutto se proveniente da gaglioppo in purezza, barattando un po’ di intensità cromatica con anni di vita a schiena dritta. E mai come negli ultimi anni questa DOC si sta facendo largo fra gli scaffali delle enoteche. 

In zona è in corso da ormai una decina di anni la cosiddetta Cirò Revolution: diversi produttori si sono accordati sull’idea di Cirò rosso (e rosato, il vero traino della denominazione), in risposta al nuovo disciplinare che consente tagli anche con merlot e cabernet sauvignon. Uno il dettame principale, come gli dèi del luogo hanno sempre comandato: “per cortesia, usate solo il gaglioppo. Fidatevi che vi conviene. Sì, Sì, il colore scarico e tutto, ma date retta che va bene”.

 


In effetti il Cirò Classico Superiore 2018 di Scala (100% gaglioppo, solo cemento per un paio di anni) è bello scarico al colore, un rosso rubino trasparente bordato di granato. Tempo addietro un colore scarico e una texture trasparente pare non rendessero l’idea di vino di qualità all’omino della strada. Sarà che sono stato ‘battezzato’ in epoca recente, ma a me un colore del genere dice solo “c’ho pochi antociani, che ce posso fa’?”.

E bisogna fidarsi di questo vino debolmente tinto, perché è al naso che i cavalli di quest’uva gaglioppano (questa era davvero tremenda): spezie e frutta, terra e cenere, e tante belle cosine. Tra i mille sentori svettano amarene e chinotto (agrume, non bibita), foglie secche e humus, rabarbaro, cannella e cardamomo, note affumicate e di macchia mediterranea, chiusura di caffè in polvere. Il profumo invita all’annusata reiterata, con qualche sfumatura diversa colta ad ogni respiro.

Per chi fosse intimorito dal colore, per chi avesse avuto paura di trovare nella bordura granata tracce di mortalità, bevesse un sorso di questo Cirò: freschezza, parecchia; tannino, generoso. Il sorso è giovane e vitale (avrei voluto dire ‘imbizzarrito’, ma restavamo su un tema equino già sfidato prima), con una bella intensità e lunga persistenza. Soprattutto, è imbarazzante la facilità con cui questo Cirò si fa bere, anche a discapito dei 14% di alcol. 

Menzione d’onore per l’etichetta retro. Io la trovo bellissima poiché assurda e fuori contesto. La grafica rimanda agli anni ’60, a scatoloni di detersivo in polvere. Mai pensereste sia l’etichetta di un vino. E qui è il bello, la sfida alla logica e alle tradizioni, che vogliono etichette di vino sobrie, con caratteri sottili, con raffigurazioni stilizzate di casali contadini, di filari collinari, di stemmi nobiliari. Che poi, molto francamente, i rimandi all’araldica ci avrebbero anche smerigliato le… sinapsi.

04/10/2021, lezione numero uno

 

Oggi non si scrive di vini assaggiati. Oggi questa porzione di internet verrà utilizzata a mo’ di diario. Perché? Perché è successa una cosa molto bella, una cosa che vorrò ricordare. E dato che la mia memoria è a guisa di Emmenthal, con lacune sparse qua e là (ricordo tutte le battute di Pulp Fiction, ma provate a chiedermi cosa abbia fatto tre ore fa e vi si materializzerà davanti un lemure), questo post mi aiuterà a ricordare quando sarò vecchio e caduco.

Secca secca? Lunedì 04/10/2021 ho tenuto la mia prima lezione a tema vinicolo, la quarta lezione del ciclo di cinque appuntamenti del Corso di avvicinamento al vino organizzato dalla Vineria Bonelli di Via delle Cave 138/140, Roma. Quattordici persone sono state a sentirmi pontificare ed ironizzare (quando se scherza bisogna esse seri) sul servizio del vino ideale in casa propria, di quali calici usare e perché, dell’importanza della temperatura di servizio, ecc.

Ed è stato splendido. Intimorente e splendido. 

 

Confesso che quando iniziai il corso sommelier non ero certo su cosa fare dopo il diploma. Dopo qualche lezione ecco la risposta: poterne scrivere e poter insegnare. Provare a trasferire, a trasmettere questa mia passione anche ad altri. Ok, questo è il desiderio: ce la facciamo a fare l’una e/o l’altra cosa? Beh, non è facile. Serve dedizione, ed avere un imprescindibile lavoro a stipendio fisso intralcia un po’ il percorso (signori, più che ‘l dolor poté ‘l digiuno). Inoltre, non credo di essere mai stato sullo scouting report delle principali testate editoriali vinicole (che Iddio le perdoni). “Pazienza” mi son detto, “io continuo a scrivere e studiare”.

 Il film potrebbe finire qui, se non si affacciasse sul proscenio la deuteragonista, docente delle altre quattro lezioni, che un giorno mi chiede se fossi stato disponibile a mettere i miei talenti al servizio della causa enoica. La mia risposta è stata più o meno: “sicura di non aver sbagliato numero?”. Oh, era sicura: ho accettato saltellando. Così arriviamo al 04/10/2021, e a quello che i miei occhi vedevano prima di cominciare. E che bella sensazione.

 


Ma perché, in definitiva, ne sto scrivendo qui ed ora? Innanzitutto perché è successa una cosa bella, che mi ha reso felice; una cosa che da tempo fantasticavo di poter fare (un Daruma mi è testimone) e che ho avuto l’opportunità di fare. Be’, mi dà gioia poterlo condividere.

Altra cosa che mi dà gioia, e che questo spazio mi permette, è dare il giusto credito alle persone che hanno avuto fiducia in me. Fiducia. È una parola apparentemente innocua, ma dietro c’è un oceano pauroso. Amo dare il giusto peso alle parole, cerco sempre di selezionarle per bene, senza esagerazioni; ‘fiducia’ ha un peso enorme, come un blocco di marmo. Significa che qualcuno ha pensato, magari rischiando qualcosa, “vai tu, fai tu. Andrai bene”. Io ne sono consapevole, è merce rara la fiducia. 

È per questo che non mi basta averlo detto loro a parole, devo mettere nero su bianco la mia gratitudine. Verso Marco, per avermi accolto e permesso di tenere la mia prima lezione nella sua vineria. Ma soprattutto verso Sara, per tante cose: per le lezioni al corso; per l’inoculo del pensiero di voler chiacchierare di vino; per questo regalo grande, la mia prima lezione enoica; soprattutto per la fiducia incondizionata: dai, non ha mai sentito questo cristiano conferire di vino davanti ad una platea di bipedi; sa solo che al corso si impegnava e che scrive ben… decentem… sa solo che scrive. Ciò non le ha impedito di pensare “vai, che andrai bene”, senza alcun “però” a corredo. Capite la potenza di un gesto simile? Io sì. Per cui, per l’ennesima (e non garantisco ultima) volta: Sara, grazie.

 

P.S.: la lezione è andata uno schifo. 

 

 

Scherzo. 

 

[ba-dum tss]

Lo scandalo del vino al metanolo – parte III; le conseguenze

 

Prima parte

Seconda parte

 

Scandagliata la storia dello scandalo nelle scorse puntate, qui siamo alla parte riflessiva: cosa ci ha lasciato in eredità questo scandalo?

 

Credo che non si possa non partire dalla prima e più grave delle sue conseguenze: 23 persone sono morte, un numero assai maggiore di persone sono state gravemente lesionate. Ecco, credo si debba sempre partire da questi dati se si parla di questo evento; da queste persone, che non vanno mai dimenticate. Lo dico perché spesso ho sentito citare con leggerezza questa tragedia, anche sottolineandone gli involontari risvolti positivi. Può darsi, ma va sempre premesso che a causa di esso 23 persone non ci sono più.

 

Un altro aspetto, che io stesso sottovalutavo ma su cui ho potuto riflettere grazie ad una recente discussione su Facebook: molti onesti piccoli vignaioli non hanno più lavorato per colpa del metanolo. Il vino lo facevano, ma non lo riuscivano più a vendere. Pensateci: siete in Piemonte ed è il 1987; andreste a cuor leggero a comprare una Barbera sfusa dal vignaiolo di turno? 

Per gli anni a venire il vino è stato venduto col contagocce, un intero comparto si è trovato d’improvviso senza entrate. Gente finita sul lastrico per colpa di un gruppetto di criminali che si credevano furbi. Un altro aspetto di questa tragedia oggi ignorato ma che ha avuto un impatto potente su tante famiglie.

 

Veniamo a quello che si sente dire più spesso dell’eredità del vino al metanolo: ha fatto bene al vino italiano, ha costretto a produrre vino di qualità.

Dunque, innanzitutto il vino di qualità non nasce nel 1986, ma ha radici ben più profonde. Certo, nella cultura contadina italiana il vino era un alimento aggiuntivo, grazie al potere calorico dell’alcol etilico, e quindi contava più la quantità della qualità; tuttavia una moltitudine di viticoltori italiani già vinificava secondo i dettami delle scuole enologiche francesi ed italiane. Per dire: nel 1986 erano già vini affermati il Sassicaia, il Tignanello, il Monprivato di Mascarello, il Fiorano Rosso, ecc. Quindi non è che in epoca pre-metanolo si bevesse solo aceto; semmai, dopo quell’episodio e la conseguente penuria di vendite, tanti viticoltori impostarono il loro lavoro su basi differenti: produrre meno vino ma di qualità superiore. Ci volle tempo, ma negli anni ’90 il vino italiano cominciò la sua risalita, le vendite aumentarono fino a prendere il volo; al contempo diminuì il volume di vini da tavola in favore di vini DOC o IGT. Anche per i consumi pro capite si registrò un progressivo calo, che faceva scopa con un aumento del prezzo speso per il vino. Il tutto è riassumibile dalla famosa frasetta da recitare in piedi sulla sedia la sera della vigilia: “oggi si beve meno ma si beve meglio”. 

 

Fonte: lafillossera.com


Resta il fatto che per bere meglio, per avere un innalzamento della qualità globale dei vini italiani, per educare al consumo consapevole di vino di qualità, è servito un evento tragico. Cosa per nulla infrequente in Italia. Prima di mettere un semaforo in un incrocio aspettiamo la carambola; per fare manutenzione ad un ponte c’è sempre tempo, finché quel traditore non decide di crollare. “Se non ci scappa il morto non siamo contenti”, un maledetto mantra. 

Dopo lo scandalo le analisi sul vino, dal fermentino alla bottiglia, vennero potenziate ed ampliate (dopo eh, mai prima, guai). Oggi possiamo dire che il vino, tranne per l’alcol etilico (che è scientificamente accertato essere dannoso; bevete con moderazione, disgraziati!), è uno degli alimenti più sicuri, e certo fra i più controllati. 

Questo vuol dire che sia solo succo d’uva? Piano. Va bene che è diventato svantaggioso manipolare il vino in modo truffaldino, ma ciò non toglie che si possano usare tutta una serie di minute, innocue e legali molecoline per aggiustare qua e là i connotati organolettici della bevanda di Bacco (per maggiori informazioni dare un’occhiata al fascicolo “cisteina nei Sauvignon Blanc friulani”, A.D. 2017). 

 

È cosa attuale la nutrita schiera di viticoltori che aborriscono l’uso della chimica di sintesi in cantina (occhio a parlare di chimica con me in termini troppo generici. Mozzico), il che ci conduce all’immane successo dei vini cosiddetti naturali dell’ultimo decennio. Siamo in un momento in cui quasi ogni cantina propone un proprio vino “d’impostazione naturale” al fianco dell’affermata pattuglia convenzionale, con irata avversione da parte dei vinnaturisti della prima ora; o tempora, o mores.

Riannodiamo un momento le fila: oggi spopolano i vini naturali; questi (ri)nacquero in risposta all’eccessivo interventismo dell’enologo in cantina, reo di snaturare il vino rendendolo una bevanda artefatta e non più sincera; bene, ma queste attenzioni maniacali in cantina derivano da quello scandalo, dalla sensazione generale che in cantina si facessero solo manipolazioni illegali e schifezze. Gli enologi lavorarono per dare dimostrazione che tutti i vini sul mercato erano perfetti, erano affidabili, si potevano e si dovevano bere. Poi vennero i vini naturali, ma solo dopo che il mercato riprese fiducia nel vino in generale.

 

Tutto torna maledettamente a quello scandalo. Mi domando “e se non ci fosse mai stato”? 

Probabilmente ci sarebbe voluto più tempo per arrivare a vini di maggior qualità; forse ci si sarebbe arrivati per colmare di un gap sempre crescente con altri paesi produttori; forse il movimento dei vini naturali da noi avrebbe avuto meno slancio.

Forse tutto questo. Certo molte persone sarebbero ancora vive o sane. Mi sembra evidente quale sia il piatto della bilancia più pesante.

Lo scandalo del vino al metanolo – parte II

 

Prima parte


Narzole (CN) nel 1986 contava 3000 abitanti e 120 aziende vinicole. Un parallelo: oggi Montalcino di abitanti ne ha 5000 e le aziende iscritte al consorzio del Brunello sono 201. Insomma, numeri molto alti per un comune che sì confina con Barolo, ma che non rientra nell’areale della prestigiosa DOCG e che rivendica anche pochi ettari vitati. Non importa, a Narzole il vino veniva commerciato, fatto per essere venduto a terzi. E secondo una vecchia usanza, figlia se si vuole della fame, delle sofferenze contadine, ma anche di scarsa lungimiranza, veniva fatto con tutti gli acini disponibili in vigna. Rese da Guinnes dei Primati che portavano a vini di scarsa qualità e basso tenore alcolico, tanto da rischiare di mancare l’appellativo stesso di ‘vino’.


Fonte: welcomelangheroero.com


30 anni fa il riscaldamento globale non aveva ancora effetti evidenti come ai nostri giorni: oggi è raro che un vino non raggiunga l’11% di alcol. All’epoca poteva invece capitare che un’uva coltivata (male) e vendemmiata (peggio) conducesse ad un vino che faticava ad arrivare al 10% in alcol necessario per poter essere commercializzato con il nome di ‘vino’. Chi avrebbe mai comprato un vino così povero di alcol, debole, smunto? Ci voleva un tocco dell’artista, un “Pimp my Wine”; tocco che ad ogni modo sarebbe rientrato sotto gli articoletti del Codice penale relativi alle frodi e alle sofisticazioni.

 

Si sarebbe potuto aggiungere al mosto il comune zucchero, azione sì illegale in Italia ma consentita ancora oggi in Germania e in Francia (chaptalisation è il termine per questa pratica); azione soprattutto innocua dal punto di vista della salute, poiché lo zucchero sarebbe diventato null’altro che alcol etilico. Il problema dello zuccherò è che ha un certo costo, non facilmente ammortizzabile da chi avesse voluto produrre vini da due lire. Andavano esplorate altre strade. 

 

Sfortunatamente alcuni produttori, ignoranti a livello di metabolismo umano, considerarono vantaggiosa la strada del metanolo. Il metanolo nel vino è indistinguibile dal fratello maggiore, l’etanolo: è inodore ed incolore, non altera il sapore del vino, ne aumenta il grado alcolico e si può individuare solo attraverso una gascromatografia (non di uso routinario nel 1986). Ad involontario coronamento del tutto aggiungiamoci la legge 408 del 28 luglio 1984, a seguito della quale la detassazione del metanolo portò il costo da 5000 lire a 500 lire al litro. Ecco l’affare criminale: aggiungere metanolo al vino per pomparne il grado alcolico. Come dite? La salute dei consumatori? Paesaggio.

 

Fonte: intravino.com

Giovanni (pardon, il cavalier Giovanni) e Daniele Ciravegna, padre e figlio, fecero così nella loro prestigiosa cantina in quel di Narzole: aggiunsero al vino litri e litri di metanolo puro, per poi venderlo ad aziende imbottigliatrici come la Vincenzo Odore. E sì che i due signori erano già noti per i loro magheggi: 500 milioni di multa per zuccheraggio comminata dal tribunale di Alba già prima del 1986, condanna poi revocata in appello; in quei giorni il coordinatore del servizio repressione frodi di Torino parla anche di una vasca sigillata già da due anni nella cantina dei Ciravegna; ma anche solo il fatto che il signor Giovanni fosse soprannominato in paese “dudes e mes”, dodici e mezzo, era indicativo: il riferimento era alla gradazione alcolica sempre raggiunta dai suoi vini, più frutto di Ciravegna padre che di madre natura. 

 

Nelle vasche dei Ciravegna vennero trovati 9ˈ000 ettolitri di vino avvelenato, non ancora piazzato sul mercato. 

9ˈ000 ettolitri. 

900ˈ000 litri. 

1ˈ200ˈ000 bottiglie da 0.75 l. 

Per dare un’idea dell’ulteriore danno scampato. 

I due ribaldi imprenditori furono arrestati e condannati nei tre gradi di giudizio, pena definitiva rispettivamente di 14 e 11 anni, più un sostanzioso risarcimento alle famiglie delle persone uccise o permanentemente lesionate che, come era prevedibile (ed ingiusto), non videro mai un centesimo. 

Il cavalier dudes e mes, dopo essere uscito dal carcere tornò nella sua Narzole e continuò a definirsi innocente fino al 2013, anno della sua dipartita (“Sofisticatore sì, assassino no […] Mica sono pazzo ad avvelenare i miei clienti”. No, pazzo no. C’è un’altra parola. Comincia per ‘s’), il figlio vende macchine agricole da un’altra parte. 

 

La storia sarebbe finita qui, ma il terremoto generato è stato intenso. L’onda d’urto si è propagata per tutti gli anni successivi, con una serie di spunti di riflessione che credo siano ancora piuttosto attuali. Ma ne parleremo la prossima volta.  

 

[continua]

 

P.S.: un doveroso ringraziamento va agli autori delle fonti dalle quali ho attinto:

https://www.intravino.com/grande-notizia/narzole-io-ci-passavo-30-anni-fa-lo-scandalo-del-metanolo/

https://it.wikipedia.org/wiki/Scandalo_del_vino_al_metanolo_in_Italia

https://www.unionemonregalese.it/2021/03/18/35-anni-fa-lo-scandalo-del-vino-al-metanolo/

https://www.lastampa.it/blogs/2010/11/16/news/il-silenzi-e-le-preghiere-br-del-cavaliere-metanolo-1.37194955

 

Lo scandalo del vino al metanolo – parte I

 

Marzo 1986, Lombardia, un qualsiasi comune della Brianza. Fuori c’è un freddo porco e a sera giusto la minestra messa a tavola può dare conforto a chi vive con poche lire, accompagnata dal vecchio e caro bottiglione di vino. Magari una Barbera di Vincenzo Odore, ditta di Incisa Scapaccino (AT). Due litri in cambio di poche migliaia di lire. Vino dozzinale, che Carlo e Maria (nomi puramente inventati) bevono una sera di quel marzo 1986. La vita è quello che è, il vino nemmeno è buono ma ha l’alcol, che lenisce le pene di chi non sa scuotersi da solo. I bicchieri di Barbera sono due, sono tre, quattro a testa. A letto si va presto, che domani sarà un’altra giornata balorda. Eh, non si ha idea di quanto.

L’indomani Maria si sveglia, apre gli occhi. Non vede niente. Buio. Nero. Ma a Carlo va peggio: gli occhi li ha chiusi e non li aprirà più. Arriva prima l’ambulanza, seguono i carabinieri. Essendo tutto in ordine, zero tracce di violenza, l’indagine principale la si effettua in cucina. Si pensa ad avvelenamento, ma da cosa? Resti di minestra nella pentola, piatti vuoti nel lavello, frigo e dispensa scarsi ma in ordine. Un boccione da due litri quasi vuoto sul tavolo. Immobile, innocuo.

 

Fonte: associazioneacu.org

La scena si replica in altre case, sparse tra Piemonte, Lombardia e Liguria; sulle tavole sempre lo stesso boccione, sempre della stessa ditta. Facile fare 2+2 ed andare a vedere cosa c’è in quelle maledette bottiglie. Si scoprirà qualcosa che va oltre la causa di 23 morti e decine di lesionati in maniera irreversibile. Si scoprirà che avidità e incoscienza vanno di pari passo. E si scoprirà che, contro ogni logica umana, in una bottiglia di vino può starci un terremoto, un tornado, che fa piazza pulita e definisce un punto zero da cui ricominciare. 


Chi è avvezzo già ha capito dalle prime due parole del racconto introduttivo (una parola e un numero) di cosa si sta parlando. Per chi non lo fosse, e nonostante l’aiuto dato dal titolo non ha ancora ben capito, vi metto subito in carreggiata: il racconto di prima non è altro che l’inizio un po’ romanzato del più grande scandalo del vino italiano (forse più di ‘scandalo’ calza meglio il termine ‘tragedia’, date le morti e i danni provocati a persone vere, come me e voi): lo scandalo del vino al metanolo.

 

Fonte: Wikipedia


Collegando i numerosi casi di intossicazione e di morti sospette, avvenute nelle tre regioni nominate in una manciata di giorni di quel marzo 1986, si giunse presto ad individuarne la causa: assunzione di metanolo. Ora, non è che il metanolo lo si compri al supermercato, oppure di straforo dal tabaccaio. E poi per farne cosa, che in cucina non deve entrarci neanche per sbaglio?

Perché il metanolo, enogastronomicamente parlando, è un gran bastardo. È un sottoprodotto naturale della fermentazione del mosto d’uva e in caso di assunzione viene trasformato dagli enzimi digestivi del corpo umano in formaldeide ed acido formico, due molecoline che è preferibile tenere quanto più possibile alla larga dall’organismo, data la loro estrema tossicità. E nel vino noi ce lo troveremo sempre, ma molto al di sotto della soglia letale di assunzione: i limiti sono fissati in circa 0,25 ml per 100 ml di vino rosso e 0,20 ml per 100 ml di vino bianco. La soglia letale è invece individuata tra i 0,3 g e 1 g per kg di peso corporeo: in soldoni, per un ometto di 80 kg basterebbero già 30 ml di metanolo per andare a stringere la mano a San Pietro. Questa è la soglia letale, ma assumendo comunque dosi minori di metanolo i regali che ci si concede vanno dai dolori sparsi ai danni neuronali e renali, alla cecità e infine morte. 

 

Quelle morti nella primavera dell’86 diedero il via ad un terremoto di proporzioni omeriche: sequestri di bottiglie di vino nei supermercati, analisi di laboratorio a campione sui vini di tutta Italia, camion cisterna bloccati e sigillati, ettolitri di vino “ritoccato” riversati nel fiume Tanaro, la Germania che stoppa i tir con i vini italiani alla dogana per giorni, un crollo dell’export del 25% rispetto l’anno precedente. Una reputazione enologica da ricostruire ex novo

Nell’immediato, quegli eventi portarono ad una visita degli inquirenti alla ditta Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino, per chiedere loro da dove fosse nato il visionario progetto di avvelenare buona parte del nord Italia. 

Risposta degli Odore: “ma mica è colpa nostra. Noi il vino lo imbottigliamo solo”.

“E da chi vi rifornite?”

“Dai Ciravegna, a Narzole”.


[continua]

Boland Cellar – WO Coastal Region Shiraz “Five Climates” 2015


Lo so, lo so, ho un po’ trascurato il blog, avete pienamente ragione. È che serve la giusta ispirazione per scrivere qui, altrimenti per le brevi note di degustazione c’è Instagram (se non mi followatefollowatemi ora, brutti lazzaroni). E l’ispirazione non è che te la vai a cercare con il lanternino; deve cascarti addosso, quasi casualmente, con la minima variabile di essere almeno predisposti all’epifania.

Per questa bottiglia ha giocato il caso: non era previsto che entrassi in enoteca quel giorno, e oltretutto stavo curiosando su altri vini. Poi abbasso lo sguardo, “Shiraz sudafricano… e proviamolo”.

In Sudafrica non si sono messi a fare vino 2 settimane fa: i primi viticoltori furono di origine olandese e impiantarono le prime vigne attorno al 1650, in quelle che poi sarebbero diventate le storiche denominazioni (Wine of Origin, WO, l’equivalente delle nostre DOC) di Constantia e Stellenbosch. Purtroppo la grande idea del vino non riscosse molto successo nell’immediato; d’altra parte cosa aspettarsi da gente che ha la brillante idea di mettere la marmellata sulla pasta? Ci vollero i francesi per evitare una finaccia alla viticoltura sudafricana. E sì che i francesi nemmeno si sarebbero sparati di loro sponte 15000 km in nave alla fine del XVII secolo. Ma un motivo c’era: 1685, il Re Sole Luigi XIV promulga l’Editto di Fontainebleau, in cui si dichiara illegale il protestantesimo in Francia (che cara persona, il parruccone). Con l’alternativa di rimanere in Francia ed essere convertiti o in cattolici o in concime, alcuni ugonotti, protestanti perseguitati in patria, impacchettarono quello che c’era da impacchettare e mollarono gli ormeggi alla volta del Capo di Buona Speranza. Tra le cose caricate in nave c’erano anche tante belle barbatelle. Perché ok andare via dalla Francia ma il vino andava fatto, ovunque fosse stato. Dopo lunghe settimane approdarono a Città del Capo, guardarono le vigne in degrado degli olandesi e gli dissero “ma che è ‘sta roba? Spostatevi va, che ci pensiamo noi”.

Il vino Sudafricano conobbe poi alterne fortune fino ad arrivare ai giorni nostri, dove il Sudafrica è riconosciuto come una zona vitivinicola ad altissimo potenziale.

 


Uno dei vitigni che eccelle a quelle latitudini è lo shiraz (syrah per gli europei. Vai a capire perché mai sudafricani ed australiani gli abbiano dovuto cambiare nome. Mah…). Ovviamente non incontra le condizioni per rodaneggiare, si esprime su note diverse, ma mantiene comunque un fascino e personalità.

Lo Shiraz di Boland Cellar è uno Shiraz sudafricano entry level. La vendemmia viene effettuata in cinque diversi climates, come abbastanza pomposamente proclama l’etichetta, con una francofilia forse fuori luogo (d’altra parte l’etichetta è la loro e ci fanno quello che vogliono). Affinamento per un annetto parte in botte nuova e parte in botte usata. Tappo stelvin, per mia grande soddisfazione.

Nel calice il vino si presenta (“piacere”) di un luminoso ed impenetrabile rosso rubino, il violaceo dello Shiraz è ormai impercettibile.

Al naso salgono piacevoli aromi di frutti di bosco maturi, il protagonista pepe nero, cardamomo, mirto, un nonnulla di violetta, cacao e caffè.

Beva molto agile, il sorso è di gusto intenso e di medio corpo, fresco e tannico, con una buona sapidità e con un gran bell’allungo, che conduce ad un lungo finale di bocca chiuso su sensazioni di pepe e spezie.

  

Agricoltura Capodarco – Vino Rosso “Xenia”

 

Dal greco antico “ospitalità per lo straniero”

Questo è il vino di chi non si arrende alle ingiustizie e alle disuguaglianze. Questo è il vino dei Sognatori che credono nell’impegno comune per restituire felicità alle nostre comunità.

 

Quanto appena scritto è ciò che questo vino riporta in etichetta. Politico? ‘Orca miseria, certo che lo è. Tenendo presente che, volenti o nolenti, qualsiasi vostra azione è politica, qui il messaggio politico è forte, non dico urlato ma certo sbandierato senza rossori alle guance. 

La cooperativa Agricoltura Capodarco di Grottaferrata è da sempre per il coinvolgimento delle cosiddette ‘minoranze’, non solo straniere, nelle usuali attività lavorative. Ne avevamo parlato qui e qua. Giova ricordare che il futuro di questa cooperativa è assai incerto e, dato che chi fa del bene andrebbe aiutato, chi avesse la possibilità può ancora dare una mano nella campagna di crowdfunding ancora attiva. Non me lo hanno chiesto loro, sono io che voglio insistere nel parlarne. I tempi sono quelli che sono, pare che riusciamo a detestarci l’un l’altro sempre meglio. Un’isola di inclusività e di positività come Capodarco merita di esistere e resistere. Nel caso vi servisse un’altra scusa pratica, producono dei gran bei vini.

 


Lo Xenia è il vino-manifesto di Agricoltura Capodarco. Le etichette di questo vino sono tre e rappresentano due mani che dapprima sono lontane, poi quasi si sfiorano, fino all’ultima etichetta dove arrivano a stringersi e sostenersi a vicenda. Non sappiamo chi vada da chi, non si sa quale delle due mani sia in difficoltà, non ne conosciamo nemmeno sesso o colore della pelle. Ad una serve un aiuto e l’altra arriva in soccorso, chiunque essi siano, il prossimo o noi stessi. Beh, senza che diventi un’orazione Gandhiana, date una mano sempre se potete, senza fare calcoli o ragionamenti.

Terminata la lezione spirituale passiamo allo spirito, inteso come alcol. Come avrete letto, il vino è classificato come Vino Rosso, il vecchio Vino da Tavola. Secondo legislazione non è obbligatorio indicare in etichetta origine delle uve ed annata, ma parlando con i ragazzi di Capodarco sappiamo che il vino, biologico certificato, è un blend 80% sangiovese e 20% merlot, che l’annata è la 2015 e che il vino affina 18 mesi in inox e 30 mesi in bottiglia al chiuso di una delle grotte di cui il territorio dei Castelli Romani è disseminato.

Nel calice è di un rosso rubino piuttosto compatto. Al naso la prima cosa che impressiona è il potente effetto balsamico; mentolo, vostro onore. Man mano che il vino si apre nel bicchiere sale un intenso profumo di mirto, bacche e foglie, seguito da sentori di more e prugne in confettura, fiori secchi, cera d’api, noce moscata e cannella, tabacco dolce, cuoio e caffè. Un profumo attraente, non sussurrato ma per nulla volgare.

Al palato il vino si presenta con la parte acida ancora viva ed arzilla ed un tannino morbido. L’intensità gustativa è fenomenale e il sapore resta in bocca lunghissimi secondi, a ricordare che quello appena bevuto è un vino di tutto rispetto; che oltre alla storia della cooperativa, oltre all’interpretazione dell’etichetta, oltre al messaggio, c’è la concretezza della bevanda che quel messaggio deve consegnare e, se possibile, lasciare ben incastrato nelle sinapsi di chi beve. E se il vino è buono il messaggio difficilmente verrà dimenticato.

Ultimo avviso: le bottiglie sono solo 2000. Meglio affrettarsi.

Frescobaldi, Castello Pomino – Pomino Bianco DOC 2020

 

C’è un parametro della scheda degustativa della FIS che non ho mai del tutto digerito: la tipicità del vino, la quale si può definire esemplare allorquando il vino è, cito, un “perfetto esempio di unicità e tipicità che riesce a fondere i caratteri del vitigno con la massima espressione del terroir”. Ho una formazione scientifica, mi riesce molto difficile socializzare con parametri poco empirici, ma se è su una scheda di degustazione ufficiale di un’associazione nemmeno poco importante, un suo senso lo avrà.

Eppure il Pomino Bianco DOC di Frescobaldi è un bel bug per tale parametro. Dunque, carte in tavola: l’uvaggio è in prevalenza chardonnay e pinot bianco, più un saldo di uve di zona, probabilmente trebbiano. Se non lo sapeste, siamo in Toscana, Pomino è una frazione del comune di Rufina. Beh, con questi dati possiamo già azzardare un giudizio: vino poco tipico. 

Giusto?

Mmm…

Potreste affermare “Be’, diamine, da quando in qua chardonnay e pinot bianco sono tipiche della Toscana?”. Difatti nulla da eccepire, tranne che in quella minuta frazioncina dove lo chardonnay e il pinot bianco stendono i panni da quando lì era ancora Granducato di Toscana.

Era il 1855, l’Italia era ancora un bel sogno risorgimentale e Camillo Benso Conte di Cavour, forte dell’alleanza con la Francia, cercava disperatamente di provocare gli austriaci anche a sputi e pernacchie pur di farsi dichiarare guerra. Proprio in quello stesso anno i Frescobaldi piantavano barbatelle di chardonnay, pinot bianco, pinot nero, cabernet sauvignon e merlot nella tenuta di Castello Pomino. 1855. 

Lo vedete anche voi il parametro della tipicità che qui mi si va a fare un giro in monopattino cantando “Favorite Things” degli Incubus? Ah, se proprio non vogliamo farci mancare nulla, il Pomino Bianco è stato anche il primo bianco italiano a fermentare ed affinare in barrique. 

 


Oggetto di questo post è la versione ‘base’ del Pomino Bianco, costituito come già accennato da chardonnay, pinot bianco e un saldo minoritario di altre uve tipiche bianche toscane. La fermentazione avviene in acciaio, salvo una piccola parte in barrique. La maturazione la svolge in bottiglia, entro pochi mesi è già fuori dalla cantina. Qualche altra settimana e finisce nel calice di questo energumeno.

Il colore è un giallo paglierino scarico. Al naso detta legge la frutta tropicale (mango, ananas) e una sventagliata di fiori. Completano il corteo lime, un leggero sentore di erba appena tagliata e cenni di salvia.

In bocca è leggero, scorrevole, di buona freschezza e sapidità con un accenno di morbidezza al palato. Persistenza dignitosissima e fin di bocca che oscilla tra sapidità e sensazioni di agrumi.

Cristian Senez – Champagne Brut “Rosé de Saignée”

 

Certo signore e signori, qui si è bevuto dello Champagne. Rosé per giunta, acquistando così un bel mucchietto di punti charme. L’arrivo di questo Champagne alla mia magione è stato possibile grazie all’intercessione dell’amica Federica Benazizi, che di vino ne sa, e anche parecchio. E se qualcuno che di vino ne sa, e anche parecchio, ti propone una cordata per l’acquisto di vini, se sei saggio ed hai due lire da investire tu ubbidisci.

Due righette sul produttore credo siano doverose: l’azienda, a conduzione familiare, annovera la sua prima vendemmia orientata alla spumantizzazione in proprio nel 1973. Gli attuali 30 ettari della Maison sono localizzati nella Côte des Bar, più a sud rispetto le zone di maggior blasone della denominazione; quasi quasi siamo più vicini alla porzione settentrionale della Côte d’Or, e difatti i suoli sono argilloso-calcarei, con rare tracce della craie che caratterizza le tre zone storiche dello Champagne. Il padrone del territorio è il pinot noir, con il suo nome sul citofono di circa l’85% degli ettari vitati locali. 

 


Espletate dunque le minime formalità, tuffiamoci in questo Rosé de Saignée ottenuto da un 80% di pinot noir e un 20% di chardonnay. Risalta violentemente il colore di questo Champagne: un rosso a metà tra il corallo e la fragola, luminosissimo ed attraente; non amo il termine ‘sexy’ accostato al vino (anche perché spesso viene usato ad minchiam), ma in questo caso non avrei nulla da obiettare.

Il profumo del rosé in questione è soffuso, sfaccettato ma non chiassoso. Le note principali sono di lampone e fragola, di cenere, di arancia sanguinella e lime, con una leggerissima punta speziata. Stessa atmosfera in bocca, dove il vino fluisce leggiadro e brioso (sembra una prosa da settimana Incom). Perfettamente dosata la componente sapida ed ottima la persistenza, chiude il sorso una sensazione agrumata di lime.

Uno Champagne rosé dal magnifico rapporto qualità/prezzo. So che molti storcono il naso riguardo il coinvolgimento di questo rapporto nelle questioni di vino. Pazienza. Credo che solo alle opere d’arte tale rapporto non possa essere applicato (e neanche sempre: provate a disquisire con l’uomo qualunque sui prezzi delle opere di Pollock o di Fontana). 

Nota di colore, perché i francesi qualcosa su cui ridere ce lo regalano sempre: la retroetichetta indica come perfetto l’accostamento di questo Champagne rosé brut con dessert ai frutti rossi. Brut e dessert. Ah, i francesi, che sagome…