Planeta – Menfi DOC Chardonnay 2018

Chardonnay dunque. Di nuovo. Affinato in barrique. Di nuovo. Dopo il Cervaro della Sala 2015 (con saldo di Grechetto, ok, ma le fondamenta, le mura, il tetto e pure le porte del palazzo sono di Chardonnay), il vostro wineblogger feticcio tende la mano ad un altro Chardonnay passato per il rovere. In fondo quest’uva è tra le più diffuse sui filari del globo terracqueo, dunque diventa necessario conoscerne le diverse espressioni da territorio a territorio. 
Globalmente lo Chardonnay è sinonimo di vino chic. Viene inteso in tal senso anche in ambito cinematografico e musicale: per esempio dà il titolo a due brani di Nigiotti e di Biondo (grazie, Google) e Carl Brave lo cita in Chapeau(sul perché io conosca i testi di Carl Brave glisso sapientemente; e comunque è un ex baskettaro, respect). Ordinare uno Chardonnay fa provare al comune avventore una sensazione di charme e signorilità, anche se ordinato in una bettola sudicia e il vino in questione proviene sì da tale uva, ma piantata al lato di un depuratore comunale, alla modica resa di 840 quintali/ettaro da vigne diserbate a napalm.
In questo mare magnum di vinelli bianchi a base Chardonnay, si ritaglia un più che discreto spazio lo Chardonnay Menfi DOC di Planeta. L’azienda è uno dei simboli del vino siciliano, con centinaia di ettari vitati sparpagliati su tutta la Trinacria. Lo Chardonnay in questione proviene da due vigne, Ulmo e Maroccoli, in una posizione fantastica: sulle rive del Lago Arancio, una natura scontrosa, a pochi km dal mare di Menfi e a una ventina di km da un posto, perché non è possibile definirla solo un’opera d’arte, di cui si parla orrendamente troppo poco rispetto l’impatto e la potenza della sua storia: il Grande Cretto di Burri. Un’opera che fa tremare le gambe anche solo guardando le foto; conoscendone la storia non possono che scendere delle lacrime. Planeta mi perdonerà, ma prima di parlare del vino occuperò un po’ del suo post parlando del Grande Cretto.

Fonte: Wikipedia
Gennaio 1968, un sisma feroce devasta la valle del Belice, radendo al suolo, tra gli altri, il paese di Gibellina. Purtroppo la valle del Belice non ha mai vantato un PIL da Isole Cayman, per cui la ricostruzione resta solo un bellissimo concetto astratto, nulla più. Dare nobiltà e funzione di memoria alle macerie di Gibellina fu compito di Alberto Burri. Cementando i resti delle case distrutte dal sisma, Burri ricreò un gigantesco cretto di 8 ettari, stendendo un lenzuolo grigio chiaro sulle pietre informi di Gibellina e legando il suo concetto di arte alla radiografia post mortemdel paesino siciliano che fu, ricreando vicoli, strade e fondamenta. Non ho ancora visto dal vivo il Grande Cretto, ma è nella lista desideri scritto in grassetto.



Lo Chardonnay Menfi DOC di Planeta fermenta ed affina per 10/12 mesi in barriques di primo e secondo passaggio prima di essere imbottigliato. La prima sorpresa alla vista: un colore paglierino tendente al dorato, non il classico giallo oro carico che uno si aspetterebbe da un vino bianco affinato in barrique. Segno che il rovere è stato utilizzato con criterio. 
Al naso è inequivocabilmente uno Chardonnay mediterraneo. La prova è tangibile ed ha un nome ben preciso: pop corn al burro. Ragazzi, c’è il classico burro fuso dello Chardonnay e c’è il mare, una nota salmastra ciclopica. A mio giudizio questo pop corn al burro, pur attenuandosi con il passare dei minuti, svetta un po’ troppo sugli altri sentori, facendo apprezzare lievemente meno gli agrumi, l’albicocca, il tiglio e la ginestra, la nocciola tostata ed una leggera vaniglia. 
La bocca è in linea con le dominanti olfattive: sapidità über alles. L’ingresso è piacevolmente morbido e non manca la componente acida a dar freschezza al palato; sapore più che intenso e persistenza prevedibilmente lunga e complessa, che sfuma su questa forte componente sapida.
Un vino ben realizzato e molto piacevole, ciò è testimoniato anche dal fatto che James Suckling e Robert Parker, con i loro punteggi oltre i 90/100, concordano con il mio giudizio (sì, sono loro a concordare con me. Non ve l’aspettavate, eh?. E lo so, lo so). Però prestate attenzione ad abbinarlo correttamente: tenete conto della sua grande sapidità; il cibo accostato dovrà possedere una quantità di sale ridotta all’osso, una chiara tendenza dolce e non deve difettare di intensità gustativa. Tanto per far nomi, io ci azzarderei una fettuccina ai porcini o al tartufo. 

Stefano Amerighi – Cortona Syrah DOC 2015

La bottiglia in questione è di quelle serie. Il vignaiolo in questione è di quelli seri, con un piano preciso e la determinazione di porlo in essere: Cortona, Syrah del Rodano e biodinamica. Cortona è l’enclave italiana del Syrah, dove quasi ‘Rodaneggia’ (locuzione orribile, lo so, ma è figurativa. Perdonatemi ancora) poiché terreno e clima, fatte salve le differenze latitudinali, sono piuttosto comparabili. Stefano Amerighi però non lascia nulla al caso: attorno ai primi anni 2000 va a selezionare le barbatelle di Syrah direttamente nella valle del Rodano e le mette a dimora in quel di Poggiobello di Farneta sui due poggi aziendali, con esposizione sud e sud-ovest (9 ettari in totale). Ciliegina sulla torta è la filosofia biodinamica che Stefano applica dagli esordi in vigna e cantina: le attività vengono scandite dalle fasi lunari, l’uva viene pigiata con i piedi, ovviamente nessun aiuto farmaceutico, solo lieviti indigeni e assenza di macchinari di pompaggio per i trasferimenti del vino da un contenitore all’altro. La serietà di questa filosofia viene comprovata dalla certificazione “Demeter”, l’associazione privata che certifica il rispetto delle pratiche agricole biodinamiche. E questo è un aspetto che apprezzo molto, dato che buona parte dei produttori che si dichiarano biodinamici poi non esibiscono alcun certificato (e il millantato credito è lì, dietro l’angolo, pronto a fare un fragoroso “bù”). Beninteso, da solo questo attestato non mi aggiunge o toglie nulla al valore del vino. Ma mi fa senz’altro un’ottima impressione vedere che chi dichiara di seguire certi dettami non mostri timore nel farlo certificare.
Avevo timore nell’approcciare questo vino. Sinceramente. Un vino celebre ed un vignaiolo celebrato. Vedevo assai facile la quaglia. Definiscesi ‘quaglia’ la capacità di cannare completamente il giudizio oggettivo del vino, coprendosi di ridicolo ai propri occhi. Come sempre il mio essere pragmatico mi ha tolto d’impaccio: “sono due mesi che sei in clausura, esci solo per andare al lavoro o a fare spesa, hai la fortuna di avere davanti questa bottiglia, non devi renderne conto a nessuno, non hai obblighi commerciali o redazionali con chicchessia, ma vuoi dannazione bertela e basta?”. Sì sergente istruttore.


Nel calice il Syrah di Amerighi è di un rosso rubino mediamente trasparente che nasconde riflessi violacei, i quali si manifestano roteando il calice. Il naso è magnifico. Istintivamente mi dà idea di un dualismo sincerità/eleganza. Mi spiego, prima della querela: sincerità perché mi riporta alla mente il vino del contadino, il vino un po’ rustico che faceva poro nonno; eleganza perché le sfumature odorose sono molteplici, della giusta intensità e per nulla banali. Tutti vi aspettereste una manciata di pepe nero, tipico del Syrah; invece la componente principale del profumo del Syrah di Amerighi è uno splendido fruttato, ciliegie e fragole su tutti, accompagnate da mirtillo e more di rovo. Il pepe nero c’è, non è che lo lasciamo in drogheria, però il suo contributo non è prevaricante, anzi è perfettamente incastonato. Altre note? Quante ne volete: un leggero humus, profumo di bosco, di mirto, di mandorla fresca, di glicine, una balsamicità notevole con note finali di cioccolata fondente e di grafite.
Bocca incentrata soprattutto sulla freschezza, senza scordare i 5 anni sul groppone. La prospettiva di affinamento è interessantissima. Ahimè, io avevo sete. Vino materico, con tannino molto soffice e sapidità moderata. Intenso e persistente il giusto, non è un vino che invade il cavo orale, ci mette le tende e dà pure una mano di vernice alle parti. Predominio netto delle sensazioni fruttate anche in bocca, una bocca anche qui elegante pur non nascondendo la sincerità del vino (nella descrizione di un vino ‘sincero’ può voler dire tutto e niente. Io spero di essermi spiegato adeguatamente). Sensazione da tener presente è l’amarore post-deglutizione, per nulla un difetto e favorevole nell’abbinamento con il cibo. Solo state attenti a non berlo da solo, senza accompagnarlo con cospicue libagioni, altrimenti potreste voi male interpretarlo e la quaglia sarebbe tutta vostra. 
Pensandoci, questo vino lo paragonerei a Pet Sounds, l’album dei Beach Boys. Il Syrah mediamente piace a tutti, così come i Beach Boys. Eppure non sembra che siano gli stessi fratelli Wilson di Barbara Ann e Surfin’ USA ad aver registrato Pet Sounds. Poi succede che lo ascolti, traccia dopo traccia, dedicandogli quel minimo di giusta attenzione, e finisce che ti cattura; e tu ringrazi la dea Amaterasu che quell’album sia così diverso dal surf rock. Ce li ritrovi i Beach Boys, non sono snaturati, ma sono di una complessità magnifica, che non avevi previsto e a cui non vorresti più rinunciare. Come il Syrah di Stefano Amerighi.



Monte del Frà – Veronese IGT Garganega “Colombara” 2015

Non so il perché, ma a me il nome Garganega ha sempre attratto. Forse perché ispira simpatia, dà già indicazioni sulla regione di provenienza (Garganega è un''interpretazione' dialettale di Grecanico; lo si comprende meglio provando a dirlo con cadenza veneta) ed esprime una certa umiltà contadina che i nomi dei vitigni internazionali non trasmettono. E, fintanto che il vino viene fatto dai contadini, reputo giusto che il nome dell'uva rispecchi più l'essenza di chi lo produce rispetto a chi lo beve. 
La persona da ringraziare per avermi fatto scoprire questo vino è Diego Borghese dell'Enoteca dei Principi, Roma. Sarebbe facile fare lo splendido sui social prendendosi la totale paternità di ogni contenuto; mi dispiace ma sono onesto e se conosco questo vino il merito è del buon Diego. Lo scorso maggio, in una delle sue classiche degustazioni del venerdì (assai rimpiante in questo periodo di clausura), ha proposto questa Garganega in purezza a chiusura di una serata incentrata sulle espressioni di questo vitigno.
Il “Colombara” di Monte del Frà è una Garganega proveniente da un vigneto sito a meno di 5 km dal lago di Garda, viti che hanno oltre i 30 anni di età, terreno di origine morenica con quote calcaree ed argillose. La particolarità di questo vino è tutta nella tecnica produttiva: a piena maturazione i tralci di Garganega vengono recisi e lasciati appesi in vigna. Dopo due settimane il vignaiolo riflette: “sono sicuro di essermi scordato qualcosa”, torna nel campo e raccoglie le uve parzialmente appassite. Vinificazione e maturazione per 6 mesi esclusivamente in acciaio, seguiti da imbottigliamento ed affinamento per almeno 10 mesi prima di finire in giro per il mondo.


Il vino in questione scende solido e sicuro nel calice, colorandolo di un lucentissimo giallo limone. Il naso è caleidoscopico: la caratteristica principale è questa nota fissa di cenere di incenso, quasi di lavanda essiccata, su cui si dipanano le altre note olfattive. Ci sono cenni di mimosa e di camomilla, di zucchero di canna, di ananas, nespola e albicocca, di scorza di limone ('zest' per i più sofisticati), di resina di pino, pan di spagna e miele d'acacia. Un naso assai interessante ed inconsueto. Non capita spesso di rilevare una tale complessità in un vino che non abbia neanche sfiorato il legno. La complessità del vino si ravvisa anche in bocca, dove l'ingresso è anche qui definibile come solido, con freschezza apprezzabile anche dopo 5 anni, con una importante componente di morbidezza al palato e con finale di bocca incentrato sulla sapidità, fugando i dubbi su un'eventuale dolcezza del vino che un naso del genere poteva alimentare; un finale di bocca davvero lungo, un'intensità gustativa da competizione.
Ovviamente la cosa più sbagliata da fare con questo vino è accostarci delle linguine alle vongole: verrebbero uccise una seconda volta, povere vongoline. No, questo vino si esalta al fianco di arrosti e formaggi importanti. Un vino corposo, soddisfacente, saporito e che vi accompagna fuori dall'enoteca ad un prezzo interessantissimo.

Michel Redde et fils – Pouilly Fumé AOC “Petit F…” 2018

Era destino che prima o poi anche in questo blog si sarebbe approdati in Francia. Non si può parlare di vino ignorando i nostri simpatici cuginetti. Possiamo e dobbiamo essere nostri tifosi, difendendo con il giusto livore la nostra avogadresca* varietà vitivinicola. Tuttavia non si può far finta che oltre la Val d’Aosta siano capaci solo a non detergersi adeguatamente le pudenda e a fare smorfie per dire la parola ‘acqua’. Avremo anche piantato noi romani le barbatelle lì giù, ma poi, come è stato per gli argentini con gli inglesi riguardo el fùtbol, a un certo punto i francesi hanno cominciato a fare di testa loro (strano comportamento per i francesi…). Gli argentini nel calcio hanno ringraziato gli inglesi degli insegnamenti, ma poi hanno buttato via il libro di testo e ne hanno scritto uno tutto loro, mostrando al mondo come ‘la nuestra’ fosse un modo assai più bello di prendere a pedate una palla. Allo stesso modo, nei secoli i francesi hanno giocato con le viti e masticato letteralmente i loro terroirs, osservando gli effetti di uva e suolo sul vino. Il loro obiettivo è sempre stato non tanto produrre un alimento, ma ambire ad un’alta qualità, puntare al matrimonio perfetto tra territorio, uva e tecnica di vinificazione. Obiettivo centrato, direi. Da quattro secoli. 
Il vino con cui qui espatriamo per la prima volta è un Pouilly Fumè, celebre AOC della Valle della Loira. Il fiume è noto principalmente per i tanti castelli, che hanno regalato alla regione la nomina fra i Patrimoni dell’umanità UNESCO. Per noi enofili però la Loira si collega automaticamente a Muscadet, Anjou-Saumur, Touraine, Sancerre e, appunto, Pouilly Fumé, tutte AOC poste a ridosso del fiume. Siamo abbastanza alti, 47° parallelo, e il clima è piuttosto rigidino a queste latitudini. Se non che ci pensa la Loira a mitigare l’atmosfera e renderla adatta alla coltivazione della vite (“volano termico” tra 3, 2, 1).
Il Pouilly Fumé è un vino ottenuto esclusivamente da Sauvignon Blanc. La particolarità di questo vino, che si intuisce già nel nome, risiede nel complesso terreno in cui il Sauvignon affonda le radici. Esso è un misto di suolo kimmeridgiano (alternanza di marne a banchi di calcare con fossili di piccole ostriche), di argilla e, molto importante, di ‘Silex’, di selce. Si ritiene che sia proprio quest’ultima componente a donare al vino la tipica nota, appunto, fumé. Dato il suo potere caratterizzante, i vigneron spesso vinificano separatamente le uve provenienti dai terreni a più alta densità di selce (e se li fanno anche pagare cari, ma vagli a dare torto). Particolarità: Sancerre e Pouilly-sur-Loire si guardano in faccia dai due lati della Loira, ma a Sancerre di Silex ce n’è poca o nulla. In 15 km la stessa uva dà vita a due vini totalmente differenti. Una cosa simile esiste anche da noi con Ghemme e Gattinara, due paesi separati dalla Sesia, a distanza percorribile da un aeroplanino di carta, eppure uno poggia su suolo morenico, l’altro su suolo vulcanico. Ma questa è un’altra storia.


Il Pouilly Fumè “Petit F…” di Michel Redde è un assemblaggio di uve Sauvignon Blanc provenienti da tre diverse vigne, di età compresa tra i 10 e i 15 anni. Vendemmiate abbastanza precocemente, per mantenere un discreto saldo di acidità, le uve vengono pigiate e  fermentano a 16-18 °C, quindi il vino matura in acciaio per 3 mesi prima di essere imbottigliato. Un vino che punta tutto su freschezza e immediatezza, come espresso anche dall’azienda, che suggerisce di berlo entro 2/3 anni. Potevo io, umile appassionato, non rispettare il loro volere? No, e infatti l’ho stappato e versato con grande spirito aziendalistico.
Il colore del vino è un giallo paglierino scarico. I profumi sono assai intensi ed accattivanti, con esordi floreali di tiglio e gelsomino, seguiti da mela verde e susina, fragranza di lievito, fieno tagliato e l’attesa nota di pietra focaia. Un momento, niente bosso/foglia di pomodoro/pipì di gatto? Nossignore. Lo stereotipo classico del Sauvignon Blanc non è pervenuto sulla Loira. Vuoi il bosso? Esci in giardino e snasa una siepe. Vuoi la foglia di pomodoro? Prego, scarpe adatte e vai all’orto. Vuoi la pipì di gatto? Annusa una lettiera. 
In bocca il vino scorre lasciando sulla lingua una iniziale sensazione di ‘pseudo-dolcezza’, per poi lasciare i riflettori a questa notevole freschezza. Finale di bocca intenso e lungo, caratterizzato da grande sapidità, con un blando ritorno anche della nota fumé in chiusura. Per essere un Pouilly Fumé di ‘basso profilo’ (viti giovani, non da singola vigna su selce, prezzo per normoabbienti) è stata una bevuta molto più che soddisfacente. 

*Avogadresco: che rimanda al numero di Avogadro (6,022 x 10^23). È un numero grande. Molto grande. Arriverei anche a definirlo, senza tema di smentita, grandissimo.

“Questo vino mi ricorda…”, una questione di comparazione tra vino e cultura personale.

Ho vari problemi. Uno di questi è il limite che è oggettivamente devo porre tra il vino e i miei altri interessi. Tenterò di spiegarmi.
Chiunque scriva di vino attinge alla propria cultura personale, alle proprie altre passioni, per raccontare più profondamente, attraverso paragoni e similitudini, l’esperienza di un assaggio o la storia di una cantina o di un vignaiolo. E ci sono dei mostri che scrivono di vino e che è un vero piacere leggere, poiché forniscono un tale apporto di cultura che alla fine il vino risulta paradossalmente la parte meno stimolante del racconto. Persone che realmente conoscono la storia di Roma o la mitologia greca, il dolce stil novo o l’aeropittura futurista, l’architettura gotica o lanovelle vague. Certo, ci sono anche tanti altri personaggi risibili, che sfruttano il vino per parlare, indirettamente e non, solo di loro stessi, facendo sfoggio non di cultura ma di saccenteria (che bello l’effetto dei social su molti 50/60enni…). Ma di loro non ci occuperemo qui ed ora; magari non mancherà occasione in futuro per scatenare il mio biasimo.


Dunque, ricollegandomi al mio problema, io annovero tra le mie passioni lo sport, la musica, la storia, la chimica (e solo per questo sarei passibile di due anni di carcere ogni volta che entro in un’azienda biodinamica), ma soprattutto la cronaca nera. Ora, ci riuscireste voi a comparare l’assaggio di un vino al massacro compiuto da Rina Fort nel 1946 o al sequestro del giudice Sossi da parte delle BR? Vi immaginate: “questo Mosel Riesling del 1997 ha una così forte connotazione olfattiva di idrocarburi e pietra focaia da ricordare gli scontri avvenuti a Piazza Gioacchino Belli il 12 maggio 1977, quando fu uccisa Giorgiana Masi”. La capite la mia difficoltà? Devo impegnarmi molto per trovare paragoni attraenti e sensati, che io possieda realmente e che non allontanino il lettore (volutamente declinato al singolare). Un parallelo tra un vignaiolo e un campione dello sport è facile (anche se i ‘nobili’ disquisitori guardano con sdegno lo sport accostato al vino), così come accostare vino e musica. Già con la storia si rischia di diventare pesanti, mentre con la chimica il fascino della narrazione crolla del tutto. Con la cronaca nera l’abbinamento è oggettivamente inaccettabile, tipo un vino gustato con un’insalata di carciofi crudi condita con succo di limone. 

E voi avete qualche passione che cozza visibilmente accostandola al vino? Che ne so, una passione per le macchine agricole, la termoidraulica, la riflessologia plantare, il minigolf, le canzoni dei dARI, ecc.

Marchesi Antinori, Castello della Sala – Umbria IGT “Cervaro della Sala” 2015

Ecco, ora non è affatto facile. Non lo è per il calibro del soggetto, per la sua storia, per il nome. Ho davanti a me un vino monumentale, giustamente celebrato nel mondo. Ovvio che mi senta piccino picciò nello scriverne, più o meno come credo si sentì David Frost prima di formulare la prima domanda a Richard Nixon. 


Il “Cervaro della Sala” vede la luce nel 1985, annata pregevole anche in materia di esseri umani. I suoi demiurghi furono Renzo Cotarella e Piero Antinori. Il desiderio era di realizzare un vino bianco italiano, o meglio umbro, sul solco dei grandi bianchi francesi affinati in legno. Scelta vincente quella di affiancare allo Chardonnay un discreto saldo di Grechetto, uva umbra che trasferisce magnificamente il terroir al vino. Caratteristica del Cervaro è l’affinamento di 5 mesi in barrique, con conseguente svolgimento della conversione malolattica. Non è stato il primo bianco italiano a sonnecchiare in barrique (e neanche ve lo dico quale è stato il primo! Ha ha, che lenza!), ma certamente negli anni è emerso come uno dei vini più eleganti ed affascinanti prodotti nello stivale. Ancora oggi, dove il gusto generale è orientato verso una differente tipologia di vino, il Cervaro non cede un millimetro in fatto di fascino e carisma.
Sissignore, è un vino carismatico. Solitamente non antropomorfizzo (si può dire?) i vini. Anzi, se leggo caratteristiche umane associate a dei vini mi viene lo stesso sguardo di quando vedo Celentano recitare in romanesco. Eppure ogni tanto mi capita di percepire qualcosa in un vino che posso ricondurre alla sfera umana. E in questo caso il carisma è tangibile. Molto semplicemente: carismatico è qualcuno che entra in una stanza e fa girare la testa ai presenti, anche non conoscendo chi sia. È la stessa sensazione che ho avvertito al mio primo assaggio del Cervaro: terzo livello del corso sommelier FIS, quinta lezione, argomento: antipasti e salse. Vengono serviti due vini alla cieca, un bianco ed un rosso. Il bianco ha fascino, mi cattura, il naso torna sempre nel bicchiere. A fine lezione si scoprirà essere proprio il Cervaro della Sala 2016. Un assaggio memorabile.
Capirete dunque perché, di fronte a questo Cervaro 2015 trovato in sconto al 50% (!!!), non ho esitato mezzo secondo a mettere mano al portafogli, sorridendo istericamente, tipo Klaus Kinski in “Fitzcarraldo”. Tre giorni e il tappo è stato fatto saltare.


Ed eccolo finalmente, dorato brillante nel calice, che libera a poco a poco un bouquet odoroso fantastico. I sentori d’esordio sono di crosta di pane e di tostatura; seguono vaniglia e burro fresco, nocciola tostata, foglia di coriandolo, fiore di mimosa, melone bianco, mango e pesca gialla. A concludere note di pietra focaia, cenere di incenso e sparuti cenni di erbe aromatiche. Un naso ricchissimo e molto fine, non violento, per nulla eccessivo.
Si andrebbe avanti per ore ad annusarlo, ma grazie al cielo il vino si può anche bere, ed è l’apoteosi: la freschezza non paga pegno ai quasi 5 anni di età, una tenue morbidezza, bella intensità e persistenza misurabile in clessidre, con chiusura sapida ed aroma di bocca elegantissimo. 
Un vino stupendo. Le mie parole poco o nulla aggiungono a quanto già è stato detto o scritto sul Cervaro della Sala. Vorrei avere la padronanza lessicale e la cultura di un Armando Castagno per poterne dire cose più interessanti e sicuramente più competenti. Ma certamente, nessuno ha mai citato David Frost, Richard Nixon e Klaus Kinski parlando del Cervaro. Per ora mi accontento di questo primato.

P.S.: il vino rosso degustato alla lezione del corso sommelier era il Sassicaia 2014. E non l’ho compreso, non ho avuto l’epifania che mi aspettavo. Se qualcuno volesse contribuire a redimermi, accetto volentieri bottiglie di Sassicaia offerte in dono. Ovviamente tutto a scopo didattico eh, ci mancherebbe.