Sciornaia 2018. Il vino che non esiste.


La storia dello Sciornaia, il vino che non esiste, era già stata raccontata su Instagram tempo fa, in epoca pre-blog. Sfrutto l’occasione del mio viaggio nelle terre dello Sciornaia per raccontare nuovamente (e senza il maledetto limite dei 2200 caratteri) la sua storia. Ne vale davvero la pena, soprattutto per l’idea che ha portato a questo vino. Comodi? Perchè è lunghetta eh. Bene, partiamo.


San Giovanni delle Contee è una frazione del comune di Sorano, provincia di Grosseto. È posto su un blocco di tufo, regalo del vicino vulcano oggi inattivo, conosciuto come Lago di Bolsena. Attorno a San Giovanni il terreno tufaceo si interseca con l’argilla delle crete a nord-est e il calcare del Monte Penna ad ovest, con il Monte Amiata ad osservare da nord. Dunque un’invidiabile variabilità geologica. E ce ne fosse uno, uno solo di questi terreni dove la vite cresca male.
San Giovanni è il classico paesino del centro Italia: 194 abitanti, nello scontro diretto il cimitero è in vantaggio in tripla cifra. Una manciata di case rovesciata su quattro strade, la chiesa a vegliarle dal punto più alto. Arriviamo un sabato mattina di fine agosto, ad accoglierci odore di bosco e di ragù bianco. Tommaso arriva subito dopo. Tommaso Ciuffoletti, figlio di Zeffiro (nei paesi come San Giovanni la migliore fonte di informazioni è la genealogia), è un entusiasta, lo si percepisce bene. L’entusiasmo è il suo carburante, è mosso da curiosità e da voglia di fare. Ci porta a vedere la famosa Cantina del Rospo, dove lo Sciornaia nasce e si affina. Una cantina scavata nel tufo, con andamento discendente, con nicchie ai lati dove sono riposte le damigiane di vetro ed una ‘stanza’ per l’affinamento delle bottiglie pronte. Qualcuno dirà “Cantina del Rospo? Mai sentita”. La risposta è perfetta: questa cantina non esiste. Lo Sciornaia non esiste. Perché lo Sciornaia, prima ancora che un vino, è un concetto. È un progetto sociale. Sto filosofeggiando troppo? Lo capisco, vado ad approfondire.


 Tommaso ed altri due amici (Olmo e un altro Tommaso) amano San Giovanni delle Contee, è il loro paese e non vogliono stare a guardare il declino che colpisce queste piccole comunità. L’età media del paese è in costante aumento, la cultura contadina c’è ancora ma le forze vengono via via meno. Il vino qui si è sempre fatto (frase cult del blog, immagino. La ripeto sempre), ma oggi molte vigne sono incolte perché i proprietari sono troppo vecchi e stanchi oppure sono proprio passati a miglior vita. I tre ragazzi vogliono che San Giovanni resti vitale e che venga conosciuto anche al di fuori, che finisca sulla mappa. Decidono che avrebbero badato loro a quelle vigne. 
Cominciano quindi a tirar via le erbacce, a mettere a posto i pali, a potare le vigne. A San Giovanni la cosa viene accolta con bonarie risa ed i tre vengono definiti ‘Sciorni’, matti. In Sud America quando ti danno un soprannome ti hanno fatto un regalo niente male, e questo è il primo che il paese fa ai tre ragazzi. Il secondo regalo se lo fa il paese stesso: la novità di questi tre sciorni finisce per animare gli abitanti, tanto che ognuno li aiuta come può. Un signore gli concede l’uso della cantina, che diventerà la Cantina del Rospo per l’amichevole presenza di un vero rospo abitante del cunicolo, altri prestano loro le attrezzature e la manodopera per la vendemmia.
Alla fine il vino viene fatto e seriamente: tutti lieviti autoctoni, nessun filtraggio, per l’imbottigliamento si riutilizzano le bottiglie già ‘bevute’: trovatemi un vino più agricolo tra quelli in commercio. Serve un nome: “noi siamo tre sciorni e questo è il nostro vino. Chiamiamolo ‘Sciornaia’”, il regalo di cui parlavo prima. Si lancia anche un chiaro guanto di sfida agli altri ‘-aia’ regionali (Ornellaia, Solaia, Sassicaia, etc.).


Vista la prima luce, ora bisogna diffondere il liquido verbo e il concetto che porta con sé. Il buon Ciuffoletti ne parla a mezzo telematico e varie bottiglie lasciano i confini comunali, provinciali, regionali. Una bottiglia, Poste Italiane permettendo, raggiunge i Castelli Romani, dove viene rispettosamente accolta da un bel fessacchiotto, grande appassionato di vino. Costui adora l’incartamento, legge la romantica retroetichetta e si appassiona, poi beve il vino e si innamora del tutto. Sì perché finora non è stato detto ma il vino, porca miseria se è buono! Ne ho la riconferma davanti alla Cantina del Rospo, dove in tre ne finiamo una bottiglia parlando del paesino, di storia, di calcio, di politica, e di vino. Lo Sciornaia 2018 è di un bellissimo rubino cristallino. Il naso è principalmente vinoso, poi si apre su note di ciliegia e lampone, rosa e geranio e finisce tra incenso e spezie dolci. La bocca è fresca e la beva è agilissima, difficile posare il bicchiere.


Una delle vigne dello Sciornaia è la Vigna dello Stridolone, così nominata per la vicinanza con il fiume Stridolone, un corso d’acqua il cui letto è disseminato di ciottoli. Solitamente il suo flusso è torrentizio, una sorta di Piave in scala ridotta, ma quando l’acqua lo invade la sua forza fa collidere tra loro i massi del letto che, appunto, producono stridore. La vigna è subito al di qua del fiume, sei filari da un centinaio di metri ciascuno, tutto Sangiovese, con viti di Trebbiano qua e là a giocare a nascondino. Tommaso ci porta a visitarla: la vigna è bellissima nel suo ‘disordine’, le viti sono anzianotte e fanno ciò che vogliono, diramandosi senza seguire alcun playbook. 

Vigna dello Stridolone
Uve nel pieno dell’invaiatura, bisogna solo evitare che diventino nutrimento per i cinghiali. La cosa viene caldamente suggerita a Tommaso dai dirimpettai, una coppia di giovani ottantenni intenti a circondare con il filo elettrificato la loro vigna. E quando dico ‘giovani ottantenni’ non voglio prenderli in giro: lavoravano in vigna sotto il sole di agosto ed erano sorridenti; io non avrò mai la loro energia.
Torniamo infine in paese a prendere la macchina, dopo una giornata immersi in questo angolo di Toscana. Ma prima di salutare Tommaso siamo ulteriormente testimoni della bontà della loro sciornata: Tommaso saluta i sangiovannesi lungo il cammino e, con nutrito orgoglio, dice loro che io e Fabio siamo venuti da Roma a San Giovanni delle Contee proprio per lo Sciornaia. E tutti reagivano con grandi risate, che però non erano di scherno o dileggio: come a dire “questi due sono venuti da Roma a San Giovanni apposta per qualcosa che facciamo tutti noi qui a San Giovanni”. E negli occhi di quelle persone si vedeva una scintilla felice.
Ok, forse mi sono fatto prendere un bel po’ la mano nella scrittura, se qualcuno ha letto fino a questo punto è un eroe e lo ringrazio. Ciò che ho scritto resta comunque vero e verificabile. Basta contattare Tommaso. Lui non vede l’ora di ricevervi a San Giovanni delle Contee, tanto più che si avvicina il momento della vendemmia e qualche paio di braccia in più fa sempre comodo. Il fatto è che una storia così bella e romantica dà tutto un altro senso ad una semplice bottiglia di vino, il fulcro della mia curiosità iniziale. Anzi, il vino potrebbe anche passare in terzo piano, se non fosse così assurdamente buono anche lui.

Grazie Tommaso, arrivederci San Giovanni delle Contee.



Marco Antonelli, viticoltore in Olevano Romano

Non ero mai stato ad Olevano Romano prima. Male. Per fortuna ci pensa il vino ad arricchire la mia cultura geografica. Olevano Romano se ne sta bello arroccato sui Monti Ernici, tra ripidi pendii e panorami difficilmente descrivibili. 
Olevano Romano ha anche una tradizione vitivinicola secolare, in quei posti si è sempre fatto vino. Vino che Roma gradiva molto e che richiedeva in grandi quantità. Quantità che crescevano anno dopo anno, di pari passo con gli ettari vitati. Andò bene fino a quando la richiesta del vino “bòno e dòrce” di Olevano non crollò. Si cercava vino di maggiore qualità e complessità e Roma, invece di esigerne dal territorio laziale, si rivolgeva altrove. Così, a partire dagli anni ’80, le vigne vennero via via espiantate o direttamente abbandonate. Questo quadretto non molto allegro me lo ha raccontato Marco Antonelli, orgoglioso viticoltore in Olevano Romano. Dalla sua terrazza mi ha indicato i terreni dove prima c’erano viti di Cesanese, vitigno imperante della zona, ed ora c’è solo sterpaglia. Oggi per fortuna la situazione è sensibilmente diversa, grazie all’opera di viticoltori come lui con una precisa idea in mente: il Cesanese in questi luoghi si esprime in maniera commovente, lavoriamolo come si deve; magari avremo poche bottiglie ma saranno di qualità eccellente.
Marco Antonelli nella Vigna di Morra Rossa
Marco e Bianca hanno cominciato a fare sul serio dal 2007, con circa tre ettari di terreno a disposizione, diviso in due zone distinte. La prima zona è Colle Amici, a 300 m di altitudine, un ettaro di viti di Cesanese piantate proprio di fronte casa. Il terreno è tufaceo, dolce lascito dell’attività del Vulcano Laziale. Qui nascono i vini Cesanese di Olevano Romano DOC Superiore “Il Fresco” (quando l’annata è, appunto, fresca) e “Tyto” (quando invece l’annata è più calda). La seconda zona è la Morra Rossa, a 450 m di altitudine, sul versante sud-occidentale del Monte Scalambra. Marco reputa lo Scalambra il vero territorio vocato per il Cesanese, con un terreno composto da marne argillose e calcare e ricco di scheletro. Osservando la mappa si nota che lo Scalambra è equamente ripartito tra i territori di Olevano Romano, Affile e Piglio; non sarà un caso che le tre denominazioni del Cesanese  provengano da questi tre comuni. Sulla Morra Rossa Marco e Bianca curano viti di Cesanese di età tra i 50 e gli 80 anni, disordinatamente intercalate da viti a bacca bianca (Malvasia, Trebbiano e Ottonese, dalle quali nasce il vino “Le Nuvole”). 


Il sistema di potatura delle viti? Ah boh! Sono venute su in questo modo, le si asseconda e basta. Il diserbo è rigorosamente manuale, effettuati quest’anno solo 4 trattamenti con zolfo contro l’oidio: il massimo rispetto della natura è questione fondamentale. La resa delle uve, da cui nasce il vino di punta, il Cesanese di Olevano Romano DOC Riserva “Kòsmos”, è tra i 18 e i 20 quintali per ettaro. Logico fantasticare sui profumi del Kòsmos con una resa così bassa; tranquilli, quando lo stapperò vi racconterò.
La giornata passata con Marco e Bianca mi ha dato modo di conoscere due persone straordinariamente gentili, che hanno accolto questo tizio strano e fin troppo curioso con il calore che si riserva agli amici. Ed è evidente come siano animati entrambi da grande passione. Amano la natura, amano il Cesanese ed amano alla follia il loro territorio. Amano parlare del loro territorio, vogliono far sì che si conosca e che cresca sempre più. Il tramite è la loro gamma di vini Cesanese di Olevano Romano DOC, un gran bel biglietto da visita.
I vini di Marco Antonelli (Special guests: Cirsium e Silene di Damiano Ciolli)


Les Crêtes – Valle d’Aosta DOC Pinot Nero 2018. Il Pinot Nero di montagna.

Per questo vino mi sento di chiamare sul banco degli imputati uno dei miei Maestri del corso sommelier FIS, Antonio Abbate. Tenne la lezione sulla Valle d’Aosta, nominò il Pinot Nero tra i vitigni locali e disse che quelli valdostani sono tra i migliori Pinot Nero in Italia. E io, con un’indicazione del genere nel cervello, non ti vado ad indagare? Quindi eccomi che sottraggo allo scaffale dell’enoteca un Pinot Nero di una delle aziende più note della Valle d’Aosta, Les Crêtes. 25 ettari vitati con varietà locali (Fumin, Petit Arvine, Prié Blanc, etc.) ed internazionali.
Certo, ogni recriminazione sul Pinot Nero fuori dal terreno elettivo di Borgogna è compresa e comprensibile. Eppure lo stesso vitigno piantato alle altitudini valdostane, su terreni di origine morenica, dà luogo comunque ad un vino ottimo, dove è soprattutto il profilo olfattivo a catturare l’attenzione. 
Les Crêtes – Valle d’Aosta DOC Pinot Nero
Questo Pinot Nero, dopo 8-10 giorni di fermentazione a contatto con le bucce, viene affinato 6 mesi in acciaio e poi imbottigliato. Dunque nasce come vino immediato, tutto e subito. Non chiede di essere aspettato, non promette vita eterna e non vuole rivaleggiare con il Romanée-Conti. Rosso rubino-porpora, il naso è di un fruttato intensissimo, come ci si può aspettare da viti che fanno la nanna in posti freschini come la valle della Dora Baltea. Protagonista assoluta è la fragola, con cenni di frutti di bosco a corredo. Presenti anche cenni di noce moscata e di china, con un sottofondo costante che il mio linguaggio forbito non ha esitato a definire “di friccichino”, una sensazione minerale dovuta certamente all’origine granitica del suolo valdostano (se così non fosse, lasciatemi sognare per favore). Beva agile, bocca fresca e persistente e tannino praticamente assente, finale lievemente amaricante. Ottima bevuta estiva.

Nino Negri - Rosso di Valtellina DOC 2017. Il Nebbiolo delle Alpi, AKA Chiavennasca

Tanta, tanta ammirazione per chi ha la voglia e la caparbietà di coltivare viti su terrazze a strapiombo vista-baratro. Gente lodevole, che come degli stambecchi pesta terreni vitati situati ad esempio in Liguria, sull’Etna e lungo la Costiera Amalfitana. E in Valtellina. Poi, siccome in Valtellina amano le sfide e non bastava loro dover vendemmiare su dei terrazzamenti accessibili solo a piedi, i valorosi viticoltori valtellinesi hanno deciso di piantare su quei costoni una tra le uve più capricciose: il Nebbiolo. Germoglia presto, matura tardi e ha resa scarsa. Però i valtellinesi sono furbi: lo hanno chiamato Chiavennasca. L’uva è la stessa ma così fa meno paura. Ad ogni modo io ho scherzato ma il fatto acclarato è che i valtellinesi con un’uva così ostica riescono a fare dei vini freschi, eleganti e profumati. Le tipologie più prestigiose sono il Valtellina Superiore e lo Sforzato (o Sfursat) di Valtellina, quest’ultimo ottenuto da uve portate ad appassimento. Due DOCG fantastiche, ma non è affatto da sottovalutare la loro DOC “minore”, il Rosso di Valtellina. Quest’ultimo ha una bevibilità innata. Il Nebbiolo di solito dà vini austeri, che vanno attesi, mentre il Rosso di Valtellina, appena appena fresco di frigo, va giù che è una bellezza (è una terminologia un po’ tecnica, mi perdonerete).

Nino Negri - Rosso di Valtellina DOC 2017
Nino Negri è una delle aziende di punta della Valtellina. Il Rosso di Valtellina 2017 in questione (comprato al grido di “ho bisogno di Nebbiolo”) è di uno splendido rubino trasparente. Naso tipico di violetta e di rosa, seguiti da una mineralità violentemente ferrosa, sanguigna. Altri cenni che si fanno strada via via sono spezie piccanti, concentrato di pomodoro, arancia rossa e cacao amaro. Sì, c’è tutto questo e ancora di più, un naso spaziale per essere un vino di categoria “minore”. Bocca moderatamente tannica e assai fresca, con una chiusura di cacao amaro. Sete di Nebbiolo soddisfatta alla grande. Poi un giorno parleremo anche di Sassella, Grumello, Inferno, Valgella e Maroggia, le 5 sottozone della Valtellina. Perché incontreremo ancora i vini di Valtellina. Varie volte. Oh sì. 

Castel De Paolis - Muffa Nobile 2016. Ovvero: come ti faccio il Sauternes nei Castelli Romani.

Amo i vini dolci. In un’enoteca i miei occhi spaziano da un lato all’altro del locale ebbri di gioia, ma davanti al piccolo angolo dedicato ai vini dolci si fanno grandi come il gatto di Shrek. E, come per tutti gli aspetti del vino, è il fascino ad entrare in gioco. Perché è affascinante il rischio che corre un viticoltore aspettando l’appassimento delle uve in pianta o nei fruttai, la scarsa resa, la speranza che non vada tutto a rotoli con il passare del tempo. Cioè, è affascinante per me che compro il vino ma lui, il viticoltore, si fa ogni volta un fegato come un’oca, poveretto. Per non parlare dell’attesa e del controllo della Botrytis cinerea, per ottenere un vino muffato. Lì, oltre a quanto elencato prima, serve anche un’umidità regolare ma non eccessiva, altrimenti è un attimo a passare da muffa nobile a muffa infame e a dover buttare via tutto. Serve un clima mediamente caldo e una ventilazione costante, ma non eccessiva, altrimenti non si forma la muffa e con cosa lo facciamo il muffato, con il Brie? Insomma, per fare un vino dolce, ancor di più se muffato, ci vuole davvero il cuore di Dorando Pietri.

Acini d’uva attaccati dalla Botrytis cinerea (da Wikipedia Commons)

Castel De Paolis è un’azienda storica di Grottaferrata (RM), areale dei Castelli Romani, 16 ettari vitati condotti magistralmente dalla famiglia Santarelli. Squisita gentilezza di Fabrizio e di suo figlio Giulio nell’accogliere in pieno agosto un tizio strano che chiede informazioni sulla loro cantina. Con la promessa di tornare a dar fastidio e a prendere anche gli altri vini, mi sono congedato da loro depauperandoli di un “Donna Adriana” (Viognier e Malvasia Puntinata) e del “Muffa Nobile” 2016 (Semillon e Sauvignon Blanc), che ho assaggiato per amore di scienza.

Castel De Paolis - Muffa Nobile 2016

Il mio primo muffato della vita è stato il meraviglioso Orvieto Classico Superiore DOC “Calcaia” di Barberani. Innamorato perso. Poi è stata la volta del Sauternes, un deuxiéme cru Chateau Lamothe Guignard, ottimo e “didattico”. Tuttavia questi sono pur sempre stati assaggi da corso sommelier, in cui mi ponevo il dubbio della “correttezza” delle mie sensazioni. Qui mi sono trovato da solo, faccia a faccia con il Muffa Nobile di Castel De Paolis. Sensazione iniziale da corsista: e se liscio qualche sentore particolare? Sensazione messa subito da parte, il vino buono comunica sempre. E questo vino altroché se è buono. Stesso uvaggio del Sauternes, uve vendemmiate attorno a novembre, quando la Botrytis le attacca, raccolte acino per acino. Ottenuto il vino quesi riposa un anno in legno, poi acciaio e bottiglia. Nel calice si apre su sensazioni di noce, frutta secca, miele e cocco. Poi a seguire si fanno avanti sentori di legno di cedro e smalto, accompagnati da una note salmastre, tipiche delle uve botritizzate. In bocca è assolutamente rotondo: è molto morbido, grazie a glicerina e zucchero, ma al contempo non manca mai una valida spalla acida a corredo. Che vino splendido.

Colle Pichioni - Donna Paola 2017


Come forse già sapete, un iscritto al corso sommelier entra in un pericoloso vortice. Parte timido, assaggiando ciò che già conosce, fino ad aumentare gradualmente l’ampiezza di vedute. Dal “Prosecchino” (a proposito, non usatelo mai questo termine. Mai. No no, mai.), comincia a puntare sempre più in alto e in fuori. Ed è lì che il vortice lo inghiottisce. Accade grossomodo durante il secondo livello (che è forse la parte più bella del corso, il giro d’Italia. Ma a me manca ancora la terza parte, abbinamento cibo/vino, per cui il mio giudizio è drammaticamente parziale). Dunque l’individuo comincia a comprare vini di prezzo sempre più alto, vini premiati dalle guide, anche vini “estremi”. Tutto fa studio. Parliamoci chiaro, uno studente del corso sommelier compila la scheda tecnica di degustazione anche del Chinotto Neri, rotea il calice anche quando contiene succo d’arancia e cerca note di cuoio nel Whiskey Sour. Ciò fa di lui/lei una persona difficilmente sopportabile nel quotidiano, tutta la mia stima per quelle anime pie che ci riescono (mia moglie compresa).
Il rischio della deriva esplorativa è di ignorare i vini della propria regione, soprattutto se la regione in questione è il Lazio, che già a livello enologico nazionale ha i suoi bei problemi, poverello. Eppure il Lazio “nasconde” delle perle ancora non celebrate in modo adeguato. Un esempio: il Donna Paola di Colle Picchioni, azienda dei Castelli Romani, precisamente di Marino (RM). Affascinante è la storia dell’azienda, sorta negli anni ’70 per la caparbia volontà di Paola Di Mauro, cui è stato dedicato il vino in questione. Andrea Petrini ne ha raccontato assai bene la storia nel suo blog Percorsi di Vino, vi consiglio di leggerla, scalda il cuore.

Colle Picchioni - Donna Paola 2017

Il Donna Paola 2017 è un Lazio IGT bianco, 60% Malvasia Puntinata e 40% Semillon che affondano le loro radici nel prezioso terreno vulcanico dei Castelli Romani. Ecco, parto subito con il difficile su questo blog. Avrei potuto scrivere di un classico bianco dai sentori di gelsomino e mela, e invece mi vado ad impelagare con il Donna Paola. Sì perché questo vino è… strano (complimenti per la varietà lessicale, Luciano). Attenti, non ha nessuna negatività questo vino stupendo, al contrario del mio palato. Il Donna Paola nel bicchiere appare di un bellissimo giallo quasi dorato. La”stranezza” è al naso: sembra quello di un rosato. Ripeto, la mia è un’impressione personale e non la verità, ma annusandolo mi ha ricordato all’inizio prugna gialla, una ginestra, melone giallo. Fin qui il pattern è di un vino bianco, ma dopo ho avvertito note di anguria, e dopo qualche minuto nel calice il profumo predominante per me era amarena, chiara e tonda, contornata da cenni di cannella, mentuccia romana e una mineralità gialla, quasi sulfurea. Un naso atipico per un bianco e molto attraente. In bocca la fa da padrone la sapidità, da tenere in considerazione nell’abbinamento cibo/vino. La persistenza è lunghissima e la voglia di berne un altro bicchiere è sensibile. Vino magnifico anche per un altro dettaglio non da poco: viene a casa con meno di 10 euro. Un vino così particolare, elegante e di personalità a questo prezzo è una grande spinta a mettersi in macchina direzione Marino e andare a comprarne una cassa direttamente in cantina. Che poi una volta lì uno può anche prendere qualche bottiglia di Vassallo. Cosa è il Vassallo? Un giorno vi dirò.