Tenute San Leonardo – Vigneti delle Dolomiti IGT “Terre di San Leonardo” 2012

Chi scrive ha avuto, fin da bambino, una sorta di puerile insofferenza per i personaggi famosi, per i nobili, per i ‘top di gamma’. Rivolgevo le mie simpatie sempre verso gli ultimi, i non considerati e tutti coloro che non fossero investiti dal cono di luce della fortuna o della grazia. Una sorta di inconscia fratellanza con i cosiddetti underdog in linguaggio cestistico. Banale esempio, quando guardavo Holly e Benji in tv, il mio preferito era Tom Becker. Lo so, magari vi aspettavate un paragone più elevato; magari un confronto tra Giovanni Fattori e Telemaco Signorini, con il primo che è il più famoso rappresentante dei Macchiaioli a discapito del secondo, i cui dipinti trasmettono una gamma di emozioni (pathos, tormenti, senso di vertigine) che Fattori non riusciva a generare in modo così pieno e violento. E invece vi siete beccati Oliver Hutton e Tom Becker.
Insomma, tutto questo per dichiarare la mia iniziale, istintiva e superficiale sfiducia per tutte le cantine e i vini che fossero ammantati da un’aura nobile o comunque fossero prestigiosi. Pensavo che i prezzi dei monumenti enologici italiani ed esteri fossero inconcepibili, che il vino non dovesse essere un bene di lusso e che un Premier Grand Cru Classè di Bordeaux avrebbe potuto tranquillamente rivaleggiare con il blend di uve ignote de poro nonno (non il contrario). Poi arriva il corso sommelier FIS ed ho l’opportunità di assaggiare tantissimi vini, alcuni dei quali provengono da quel mondo che io guardavo come un inglese guarderebbe un francese mentre recita il Macbeth. Fa parte dell’evoluzione è riconoscere i propri difetti ed elaborare una strategia per eliminarli o, perlomeno, tenerli a freno per mezzo della ragione. E solo frenando i miei istinti infantili ho potuto cominciare ad apprezzare a fondo tali vini, a comprenderli un po’ meglio, a criticarli anche, ma sempre senza pregiudizi. 
Tutto ciò per dire che, di fronte al second vin dei Marchesi Guerrieri Gonzaga, produttori del mitico “San Leonardo”, una volta avrei avuto delle difficoltà nell’approccio e nel riconoscerne l’effettivo valore. Valore che, dopo averlo provato, posso dire essere assolutamente evidente, a fronte di un prezzo da vino quotidiano.


Il “Terre di San Leonardo” nasce sugli stessi terreni del San Leonardo ed utilizza il medesimo blend di uve (Cabernet Sauvignon, Merlot e Carmenère). Resa per ettaro di 70/80 q/Ha, l’80% della massa affinata per 18 mesi in botti di rovere di Slavonia da 60 hl e il restante 20% fa almeno 6 mesi di barrique. L’assemblaggio attende almeno 6 mesi in bottiglia nella cantina della tenuta prima di andare in giro per il mondo.
Vino da consumo piuttosto immediato ma capace anche di invecchiare bene per qualche anno. La mia fortuna è stata trovare in enoteca una 2012, e penso di aver trovato questo vino al suo apice evolutivo. Di un rosso granato pieno, praticamente trasparente nel calice. 
Naso magnifico. Il primo sentore, a calice fermo, è un intenso cioccolato bianco su sottofondo ematico. Poi, ruotandolo, il vino esprime una seducente complessità. Lo so, ho appena fatto un pezzo dove rido della terminologia spinta applicata all’analisi organolettica del vino (e se non lo avete letto, cliccate qui e redimetevi), e appena un articolo dopo mi ritrovo ad usare il termine ‘seducente’? Eppure c’è un motivo: il dizionario Sabatini-Coletti riporta come significato di seducente: “Che attrae in modo particolare, che affascina, alletta”. Bene, il profumo, splendidamente ampio, di questo “Terre di San Leonardo” 2012 attrae, affascina e alletta. Invita costantemente ad annusarlo ancora e ancora, a cogliere tutte le sue sfumature odorose: prugna matura, frutta rossa in confettura, un pot-pourri di fiori, vaniglia, pepe nero, noce moscata, chiodo di garofano, un leggero sottobosco, legno di sandalo, profonda balsamicità, cuoio, caffè e cacao. Nessuna traccia del peperone cabernettiano, tradotto in una moltitudine di spezie da mani capaci.
E se il naso è di questo calibro, le aspettative sul gusto aumentano. E, con mia grande soddisfazione, vengono rispettate alla grande: freschezza ancora percepibile, tannino levigato, gran corpo e chiusura molto lunga su note di cacao amaro. 
A livello di rapporto qualità/prezzo, uno dei migliori vini che abbia bevuto finora. No, mi dispiace per quello che pensavo fino a qualche tempo fa: qui c’è nobiltà, c’è prestigio e c’è, obiettivamente, un grande vino, fatto da persone realmente capaci ed accessibilissimo a tutti. 

De verbis vini.

No, non è il titolo di un’opera di Marco Porcio Catone o un’enciclica di papa Pio IX, quanto una mia placida riflessione sulle parole utilizzate per descrivere il vino. Perché sono consapevole che, agli occhi di una persona normale, l’eloquio descrittivo di noi enofili appare piuttosto bizzarro. E, come disse con veemenza Nanni Moretti, le parole sono importanti. Lo spunto è arrivato direttamente dalla mia grande docente del corso Sommelier FIS, Sara Tosti, via Instagram ieri mattina. 
Io non posso fare altro che ringraziarla, perché mi ha regalato un argomento ampio e assai stimolante, che mi consente di riflettere un po’ sulle parole che usiamo per descrivere il vino, sulla loro effettiva capacità comunicativa verso chi non è un appassionato e, come sempre, sul ridicolo in cui scadono alcuni ‘professionisti del settore’ quando commentano vini con parole epiche e credendoci sul serio.

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Cominciamo dunque con il primo dei sensi che entra in gioco davanti a un calice di vino: la vista. In linea di massima qui tutto sembra procedere regolarmente. Il vino può essere descritto come limpido, brillante o torbido; può essere consistente, denso, viscoso (citofonare ‘Sherry Pedro Ximénez’); se ne può descrivere anche il perlage in maniera intuitiva. E, ovviamente, se ne apprezza il colore, che può andare dal bianco carta al rosso mattone. Qui l’unica nota di colore (ah ah…) riguarda i rosati, dove alcuni spaziano anche oltre le eno-sacre scritture, con risultati rivedibili (ramato, buccia di cipolla, salmone, petalo di rosa Tea, tramonto sul Grande Raccordo Anulare uscita aeroporto di Fiumicino, ecc.).

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Proseguiamo con i descrittori olfattivi, la parte che tanto fa ridere grandi e piccini. Premessa: il vino non è mai solo succo d’uva fermentato. Esso suscita sempre sensazioni particolari, che per facilità di comprensione paragoniamo a cose esperibili da tutti. Il profumo di una pesca, di una rosa o di una scatola di sigari è alla portata di tutti, basta annusare; parlare di tali profumi in un vino significa darne un’idea più ‘concreta’ possibile a qualcuno che stia solo ascoltando o leggendo, magari stuzzicandone la fantasia e creandogli delle aspettative. Ne consegue una precisazione doverosa per gli scettici (come sono e fui): le sensazioni odorose che descriviamo esistono realmente nel vino. Non sono frutto di fantasie lisergiche di gente vestita da pinguino con un bersaglio di metallo al collo: la presenza di molecole ‘odorose’ all’interno dei vini è stata accertata tramite gascromatografia (orgoglio da chimico analitico!) ed ogni vino ha i suoi profumi caratteristici. 
Tutto ok quindi? Non proprio. Perché anche nel campo degli enofili, come in qualsiasi altro ambiente (ma tra gli enofili un po’ di più), ci sono i fenomeni. Quelli che non possono descrivere l’odore di un vino attraverso paragoni elementari. No, loro devono esagerare. Non gli basta dire ‘sottobosco’, devono dire ‘fulgida brina primaverile adagiata su equiseti e muschi che si arrampicano strenui fra terrose radici di larice dell’entroterra ligure’. Capite che, sentendo roba simile, nessuno si sognerebbe mai di approfondire il tema. Né tantomeno di berlo quel vino. Lo scopo di chi racconta il vino è di renderlo attraente, di incuriosire anche il meno interessato. Un po’ di teatro ogni tanto ci può stare per dare vivacità al racconto, ma sempre con l’obbligo di non renderlo mai fine a sé stesso o, peggio, grottesco. Se descrivo un vino parlando di un vasetto appena aperto di confettura di more o di pepe macinato di fresco, e motivo l’esistenza di tali sensazioni, sto informando ed incuriosendo chi mi sente/legge. Se cito il macis grattato su una papaya colta dall’albero due giorni prima e immersa nel latte di cocco trasportata a dorso di mulo in salita, sto solo pavoneggiandomi a tal punto da diventare ridicolo. E amen.

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Interessante è anche la descrizione del gusto del vino. Partiamo dal presupposto fondamentale per il vino: deve essere buono. Ci sono sì i gusti personali, ma alla base di tutto deve esserci la piacevolezza, la voglia di berne un altro sorso. Ogni vino ha una propria struttura e caratteristiche che lo rendono unico. L’esame può rivelarne alcune, come la freschezza o la sapidità, la morbidezza o il calore, l’astringenza o la dolcezza. L’esperienza porta alla loro corretta catalogazione (esempio: all’inizio i rossi sembrano tutti tannici. Poi arriva il Sagrantino e mette una bella bandierina a scacchi sul traguardo del termine ‘tannico’). Anche qui i descrittori sono piuttosto pacifici… nel 99% dei casi. Perché il tannino può essere graffiante, ruvido, sabbioso, vellutato, setoso, verde, ecc. Ah, se un vino bianco è molto fresco come lo definireste? Verticale, è ovvio! Io ogni volta che leggo che un vino è verticale, mi immagino che dal liquido nella bocca si materializzi una lancia di cristallo acuminata che mi trafigga il palato. Immagine truculenta, ma è la mia testa. Abbiate pietà.

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Infine la descrizione globale del vino, il momento dove l’estroso può scatenarsi sul serio. Ad un livello normale qui si definisce se il vino sia di corpo medio o pieno, se le sue caratteristiche organolettiche siano in equilibrio fra loro, se sia piacevole e se possa avere buone prospettive di invecchiamento. Poi, quando il demone dell’estro creativo si impossessa dell’enofilo, la situazione trascende. O si è Sandro Sangiorgi, con quella sconfinata cultura e quella magnifica capacità di linguaggio, oppure il famoso uomo della strada di cui sopra volta le spalle e torna a bere il San Crispino in brick. Dire a un neofita che un vino è austero, materico, fiacco, grasso, opulento, senza un adeguata spiegazione a supporto, non lo aiuta a farsi un’idea più precisa del vino in questione e l’esito è solo il suo allontanamento.
Soprattutto, l’antropomorfizzazione del vino è quanto di più rischioso possa esistere. Dare a un vino caratteristiche umane avvicina al fuoco la miccia della boiata. Perché uno poi deve spiegare, e deve anche essere parecchio convincente, perché mai abbia definito un vino triste, struggente (questo mi fa ammazzare dalle risate ogni volta), tenebroso, languido, ribaldo, fiero, bizzoso, tracotante, ecc. Ma cos’è, dannazione, un vino o un cavalier cortese?
 
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I migliori però li ho lasciati per ultimo: vino maschile e vino femminile. La categorizzazione dei gusti secondo sessualità è qualcosa di veramente vecchio e polveroso, ma c’è chi resiste e persiste nell’uso di questi aggettivi. Viene definito maschio un vino deciso, maleducato, che entra senza chiedere permesso e si impossessa del cavo orale, che impone la sua presenza dominando con vigore tutti gli organi di senso. Uno stronzo, in pratica. Viceversa un vino viene definito femmineo quando è leggero, delicato, magari abboccato o amabile, con tanti fiori, tanta frutta, molta morbidezza. Insomma, la bella addormentata. Vi serve anche la mia opinione o basta l’oggettività della cosa a suggerire che, nel 2020, il paragone di natura sessuale faccia parte di un retaggio culturale a dir poco anacronistico? L’italiano ha una quantità immane di aggettivi, utilizziamo quelli più adatti o evocativi, lasciando da una parte quelli palesemente inutili. 

Questo è il mio pensiero sulle parole del vino, buttato giù di getto e di pancia. L’argomento meriterebbe molto più spazio, sarebbe meritorio anche di un libro a sé. Forse un domani mi ci metterò, magari sfruttando l’aiuto di un vino del genere: “un mare di frutto e di polpa profusi con potenza alcolica sontuosamente massiva. Favoloso il suo equilibrio palatale, con la polpa glicerinosa della sua maestosa uva, che morbida ammanta equilibrando la sua poderosa acida spina e il suo tannino pastoso e tramoso. Limpidissima la livrea olfattiva: frutto inossidato e spezie vanigliosamente suadenti di gran pulizia e calibratissima proporzione. Un vino d'insistenza e persistenza balsamicamente cremosa”. [Luca Maroni, Schenk Italia, Amarone 2016]

Abbazia di Novacella – Alto Adige Valle Isarco DOC Sylvaner 2018

Siccome l’Alto Adige è un posticino che ci garba parecchio, restiamoci. Questa volta saliamo di una cinquantina di km verso nord-est, in Valle Isarco, una delle sottozone della DOC Alto Adige. Valle Isarco vuol dire maggiore altitudine, dunque escursioni termiche pronunciate, dunque una finezza di profumo già discretamente auspicabile per i vini bianchi, che qui dominano la vallata. I vigneti dell’abbazia di Novacella si trovano tra i 600 e i 900 metri s.l.m., ben saldi nel terreno ciottoloso e sabbioso di origine morenica. L’abbazia, fondata nel 1142, produce vini praticamente da quell’epoca. E non bisogna mai dimenticare di ringraziare i monaci che mille anni fa, in tempi cupi per il vino, preservarono le vigne e studiarono come farle rendere al meglio, facendo in modo che oggi possiamo godere di quest’intruglio che ci piace tanto.
Del Sylvaner dell’abbazia di Novacella ne parlò anche Mario Soldati nel suo secondo viaggio nell’Italia del vino, trovandolo “di color giallo chiaro tendente al verdolino, leggero, secco, armonico, lievemente profumato, lievemente acidulo, lievemente frizzantino”. Lui, bontà sua, poté assaggiarlo direttamente spillato da una botte; io ho dovuto accontentarmi di una rapida incursione in enoteca.



La discesa nel calice del vino è piuttosto consistente, indicazione per nulla celata che il vino ha una discreta corposità. Nel calice si presenta di un bel giallo paglierino vivo. Il naso spoilera l’origine del vino, anche se venisse degustato alla cieca difficilmente si potrebbe dubitare della provenienza altoatesina. Il profumo è molto fine, spazia dai fiori (gelsomino, sambuco, ginestra) alla frutta matura (mela, pera, pesca e melone invernale), ad un accenno di resina, mineralità calcarea e leggera fragranza di lievito. La bocca è in linea con le aspettative: molto fresca, con sensibile caratterizzazione sapida, che non lesina sulla morbidezza e di lunga persistenza con ritorni agrumati. La frutta matura, la morbidezza e il corpo del vino sono anche donati dall’utilizzo di botti di acacia da 50 hl per la fermentazione ed affinamento del 25% della massa. Ciò permette di dare al vino una sorta di dimensione ulteriore, una ‘tridimensionalità’ che porta in dote una maggiore complessità rispetto al classico vino alpino tutto leggerezza e verticalità. E a noi di The Catcher in The Wine (quindi io soltanto) tutto ciò è piaciuto molto.

St. Michael-Eppan – Alto Adige DOC Pinot Bianco “Schulthauser” 2017

Voglio mettere in difficoltà un po’ di persone. Leggete con me: The Catcher in the Wine presenta il Südtirol DOC Weißburgunder “Schulthauser” di St. Michael-Eppan. E l’arcivescovo di Costantinopoli non sembra più una faccenda ardua. Il caso ha voluto che dietro i nomi più ostici (per noi) si nascondessero dei tesori magnifici. Questa potrebbe già essere un’ottima sintesi dei vini altoatesini, non ce ne è uno che non sia di livello.
Gli altoatesini sono una popolazione che ne ha passate tante. Centinaia di anni di impero austroungarico e poi, in meno di un secolo: “congratulazioni, ora siete italiani” dopo la prima guerra mondiale, senza averlo chiesto; poi “ok, siete italiani, quindi basta con ‘sta storia del tedesco”; poi, a seconda guerra mondiale finita “ok, potete anche parlare tedesco. Ma non tanto, siete pur sempre italiani”. Insomma, non la sequenza di azioni ideale per accogliere qualcuno che fino all’altro ieri non ci pensava neanche ad essere italiano. Fortunatamente il tempo aggiusta le cose, le generazioni passano ed oggi per fortuna ci vogliamo bene gli uni con gli altri.
Però che i sudtirolesi abbiano una testa tutta loro è un dato di fatto. Una prova? Le loro cantine. Raccolgono decine e decine di soci conferitori da ogni vallata, eppure è difficilissimo trovare un vino, anche tra quelli base, che non sia qualitativamente ineccepibile. Una serietà ed una meticolosità nel lavoro in vigna e in cantina rare da trovare altrove, unite ad un magnifico rapporto qualità/prezzo. 


“Schulthauser” è un Pinot Bianco coltivato nella zona di Schulthaus, sopra Appiano, tra i 540 e i 620 metri. La particolarità di questo vino è che il 15% della massa fermenta in botti di legno e fa malolattica, venendo poi unita al restante 85% a febbraio. Il risultato è un vino sì fruttato e fresco, ma ingentilito da note più mature, dove è la sapidità a fare la parte del leone.
Nel calice il colore è un paglierino tenue, che non crea sospetti riguardo il passaggio in legno. Il naso invece qualche indizio comincia a darlo. Non subito, la partenza è su toni freschi di mela e tiglio. Toni che entro breve diventano più complessi, con una pera, un’albicocca, gelsomino, scorza di limone. Si percepiscono bene note di crosta di pane, una decisa sensazione salina e poi, verso la fine, si apprezzano le note donate dalla botte: nocciola tostata, una leggera foglia di coriandolo e speziatura delicata di noce moscata. Una gran bella complessità.
In bocca il vino entra leggero ma deciso, l’intensità gustativa è notevole, così come lo è la sapidità, caratteristica peculiare di questo vino. Aumentando la temperatura di pochi gradi, se ne percepisce meglio la morbidezza, che equilibra perfettamente il sorso. Persistenza notevole e finale piacevolmente ammandorlato. Pur non essendo un vino base della cantina, il rapporto qualità/prezzo è da bocca spalancata ed applauso convinto.

Memorie di un enofilo: Beviamoci Sud, 01/02/2020. Seminario su Gianfranco Fino e assaggi vari.

1873: il deputato radicale lombardo Antonio Bilia conia per primo la locuzione ‘questione meridionale’, per indicare l’enorme divario, soprattutto economico, tra il nord ed il sud del neonato Stato Italiano. A fronte di politiche statali a dir poco predatorie e di scarsa lungimiranza generale, il vecchio Regno delle Due Sicilie nel tempo è rimasto due (o tre, o quattro, o cinque…) passi indietro rispetto allo sviluppo del settentrione. Ancora oggi un enorme numero di cicatrici è rilevabile e va tuttora a condizionare il generale giudizio superficiale, a seconda che l’oggetto in questione provenga da sopra o sotto il Tevere.
Attorno agli stessi anni la fillossera organizza banchetti luculliani con le radici dei vigneti francesi. I simpatici cuginetti allora, in barba all’allure, alla noblesse oblige e alla Tour d’Argent, cominciano a picchiare sui telegrafi come il buon Bonzo sui tamburi. I destinatari, tutti sotto il 42° parallelo, rispondono “presente” e spediscono vagonate di vino in Francia. Guardando tutti questi vagoni, anche molte cantine del nord Italia richiedono i servigi dell’assolato meridione, venendo accontentati fino ancora a poche decine di anni fa. Tanto è vero che vige ancora una battuta malignetta nel mondo del vino, più o meno fa così: “vuoi sapere come era un Primitivo/Negroamaro/altro-vitigno-del-sud degli anni ’70? Stappa un Amarone/Barbera/altro-vino-del-nord degli anni ‘70”. Ovviamente si generalizza, si fanno nomi a caso e si è anche, come detto, un pochino maligni; però “a pensar male si fa peccato, ma…”. E comunque è storia che tonnellate di vino abbiano da sempre risalito la penisola in cambio di poco denaro, sufficiente a garantire la sopravvivenza dei contadini senza costringerli a “mollare la falce in cambio di un martello” (cit.). La viticoltura di qualità al sud è cosa recente, una volta l’unico obiettivo del vignaiolo era mangiare.



Devo inoltre fare un mea culpa, poiché anche io sono involontariamente condizionato dal favore di cui godono i vini del nord rispetto a quelli del sud. Durante le degustazioni, di fronte ai vini di tutte le regioni, tendo sempre a privilegiare quelli del centro-nord. E so che è profondamente sbagliato. I vini del sud Italia hanno caratteristiche soltanto differenti da quelli del nord, non inferiori. A colmare questa lacuna,  redimerci e darci una grande opportunità culturale ci hanno pensato Marco Cum (Riserva Grande), Andrea Petrini (Percorsi di Vino) e Luciano Pignataro. Dopo due edizioni di ‘Aglianico a Roma’ hanno deciso di calare il carico a coppe, facendo salire a Roma l’1 e il 2 febbraio alcune tra le maggiori cantine del sud. E siccome a loro sembrava ancora poco, hanno corredato l’evento con interessanti seminari a tema, riguardanti ad esempio i vini dell’enologo Vincenzo Mercurio, il Merlot ‘Patrimo’ di Feudi di San Gregorio e i vini di Gianfranco Fino. E proprio con quest’ultimo seminario è partito il mio Beviamoci Sud. 


La fortuna è una componente fondamentale della vita. Ma proprio perché, appunto, fortuita, è necessario riconoscerla ed apprezzarla quando capita. E in questo caso la mia fortuna è stata poter ascoltare Simona Natale, la moglie di Gianfranco Fino. Se mai vorrete emozionarvi ascoltando qualcuno che parla di vino, andate a trovare Simona. Potrete allora intuire perché questa bevanda spiritosa ci prende così tanto. Il racconto dei loro inizi difficili, il commosso ricordo del padre, la viticoltura impostata su tradizione e la qualità, l’amicizia con Veronelli, le critiche ricevute per il loro Primitivo ‘Es’ ed il grande successo ottenuto proprio grazie a queste critiche. Un’ora e mezza di racconti a cuore aperto, inframezzati dai vini di Gianfranco Fino e Simona Natale. 


Si esordisce con un metodo classico rosé di Negroamaro, chiamato ‘Simona Natale’ (onore più che meritato per chi, come da sua stessa ammissione, pasteggerebbe a Champagne 365 giorni l’anno!), 36 mesi sui lieviti, territorio che esce potente dal calice. Quindi si passa subito all’’Es’: una 2015 perfettamente equilibrata, morbida, avvolgente e ricca, e una 2016 appena appena più austera al naso e in bocca, ma che con un anno o due di attesa sarà magnifico. Simona ha confermato il pensiero generale sull’’Es’, o si odia o si ama. Amo, grazie.


Altro fulcro di Gianfranco e Simona è il loro Negramaro ‘Jo’, servito sempre nelle annate 2015 e 2016. La prima mostra una decisa caratterizzazione olfattiva tipica del Negroamaro, con frutti rossi, ruggine, macchia mediterranea e appena del selvatico, ed una bocca agile e beverina. La seconda, anche in questo caso, mostra qualche piccola spigolatura che, con un annetto di attesa, verrà prontamente smussata. Beninteso, si parla di confronti fra due annate. Se vi capita una 2016 di ‘Jo’ o di ‘Es’, innanzitutto beati voi, e poi sono pronto a scommettere che la bottiglia verrebbe vuotata in un quarto d’ora. 
Il seminario finisce con l’’Es + sole’, Primitivo dolce da moderato appassimento in vigna (vendemmia una settimana dopo le uve per l’’Es’. Siamo in Puglia, fa caldo, che ci vuole a far appassire l’uva). Prodotto solo nelle estati secche (2008, 2012, 2017, 2018) ha una bocca più “smaltata” rispetto al classico ‘Es’, con frutta in confettura e smalto, con una bocca morbida ma ancora fresca, ben lungi dall’essere stucchevole.

Una persona normale, dopo una degustazione di questi vini, indosserebbe il paltò e monterebbe sul cocchio, dirigendolo verso la propria magione. Io invece, tutto meno che normale, per piacere non chiedetemelo, mi sono mosso verso i banchi di assaggio. Uno schema di assaggio era pronto, ma i vini di Fino hanno liberato un estro creativo che mi ha fatto muovere secondo l’istinto. Gli assaggi rimasti impressi sono stati:


Castel del Monte DOC Chardonnay ‘Pietrabianca’ 2018 – Antinori Tormaresca, 90% Chardonnay, 10% Fiano: l’unico bianco assaggiato (male, ma è andata così) è un delizioso Chardonnay non in purezza, burro e nocciola tipici integrati in un cesto di frutta esotica, piacevolmente fresco.


Salento IGT ‘Le Braci’ 2013 – Garofano, 100% Negroamaro: un grande vino. Un leggero appassimento delle uve dona potenza a questo Negroamaro, che si arricchisce di ulteriore complessità donata dal passaggio in barriques nuove. Barrique che si percepisce ma non va a coprire totalmente l’aroma del vino, contrariamente ad altri assaggi fatti.


Cirò Rosso Classico Superiore DOC ‘Aris’ 2016 e Ciró Rosso Riserva DOC ‘Più Vite’ 2013 – Sergio Arcuri, 100% Gaglioppo: vini artigianale ricchi di sapore e di profumo, più ‘selvaggio’ e giovane il Superiore, più maturo e deciso il Riserva, generosi entrambi di pepe, di spezie, di cenere e di macchia mediterranea.


Terre del Volturno Casavecchia  IGT ‘Lautonis’ – Il Verro, 100% Casavecchia: di una facilità di beva sconvolgente, frutta rossa, fiori e spezie. Un vino con un rapporto qualità/prezzo da saltelli aggraziati.


Roccamonfina IGT 2011 e Campania IGT 2016 ‘Terra di Lavoro’ – Galardi, 80% Aglianico, 20% Piedirosso: altro monumentale vino del sud, che ha nel tempo cambiato denominazione (ignoro il motivo) ma non uvaggio e, soprattutto, la propria classe. È anch’esso un vino che, come nel caso del “Le Braci”, trae enorme vantaggio dal passaggio in barrique, che modera in collaborazione con il Piedirosso il vigore dell’Aglianico. Una sequela di sfumature odorose ed una finezza gustativa di grande fascino, mirabilmente accentuata da qualche anno di affinamento in bottiglia, come dimostra l’annata 2011. Gran vino davvero.

In definitiva, Beviamoci Sud è una manifestazione quanto mai necessaria, soprattutto a Roma, e sono certo che questa sia stata solo la prima di una lunghissima serie di edizioni.

Piccolo ed arbitrario compendio di personalità reperibili agli eventi del vino

Non sono un sociologo, tantomeno uno psichiatra. Non possiedo le nozioni per poter catalogare con cognizione di causa i comportamenti delle persone, né gli strumenti che consentano di scandagliare la mente umana. Sono però un osservatore perspicace. In pochi istanti riesco a tratteggiare le caratteristiche peculiari di chi mi è attorno, intuendone il carattere e valutando anche quanto potrà essere il mio livello di sopportazione nei rispettivi confronti. Già, non sono una persona facilissima. Eppure non ve ne accorgete, perché mantengo sempre un contegno tale da far sentire chiunque ben accolto. Questo perché, fondamentalmente, sono una persona eccezionale. Ma basta parlare di me.
La frequentazione di eventi legati al mondo del vino mi ha portato a stilare un piccolo compendio, un Bignamino, delle principali personalità in cui si può incappare. Che siano eventi di massa o piccole degustazioni da enoteca, la prossima volta potrete inquadrare l’uomo o la donna al vostro fianco in una o più delle seguenti categorie. Potreste inquadrare anche voi stessi. O me. Ma basta parlare di me.


[Game of Thrones - HBO]
Il saccente borioso: la persona in questione si aggira tra i banchi di degustazione con passo lento, schiena dritta e un sorrisetto di autocompiacimento. Conosce i produttori e sa come questi vinifichino. Il saccente borioso non sosta davanti a uno stand per meno di mezz’ora. In quel lasso di tempo sequestra il malcapitato vignaiolo, parlando fondamentalmente solo di sé stesso. Se chiede i dettagli dei vini in mescita, non manca mai di commentare ogni informazione ricevuta con espressioni come “beh, è ovvio”, “come immaginavo” o “naturalmente”. Perché lui di vino ne sa. Anche più del vignaiolo.


[Wikimedia Commons]
Il saccente borioso ignorante: è l’involuzione della specie. L’atteggiamento è lo stesso del saccente borioso, con la differenza che conosce il vino quanto Mario Balotelli la meccanica quantistica. I poveri vignaioli con cui entra in contatto devono armarsi di pazienza, perché ciò che questo individuo dice è legge. Non importa che non abbia studiato né abbia mai letto libri sul vino, lui beve vino da quando Dino Zoff giocava nelle giovanili della Marianese. Dunque ha tanta esperienza. Dunque è un esperto. Non ha idea di come avvenga la malolattica, ma dice di capire se un vino l’abbia fatta o meno roteando il calice. Calice che, rigorosamente, brandisce dal bevante. 


[Wikimedia Commons]
Il/la vinonaturalista: il/la vinonaturalista non considera la forma, bada solo alla sostanza. Il suo vestiario è il più informale possibile. La formalità è una convenzione forzata, e lui/lei odia la convenzionalità. E le pratiche di forzatura. Se un vino è stato filtrato, chiarificato o solfitato, lo ritiene meno di una bevanda. Peggio che mai se la fermentazione non è stata spontanea. I vini bianchi devono essere orange o perlomeno torbidi, altrimenti sospetta ci sia sotto qualcosa di losco. Stesso dicasi se i vini non sono stati affinati in anfora o in cemento. L’acciaio è dannoso, la barrique è il male. Se il vino ha le famose ‘puzzette’ è genuino, se non le ha è sospetto. Predica a tutti, non richiesto/a, la sua concezione di vino buono, pulito e giusto. La notte però, al riparo da occhi indiscreti, beve Coca-Cola.


[Wikimedia Commons]
Il distributore: lui non è lì per bere, per assaggiare, per giudicare. No. Lui è lì per fare affari, per fare business. Crede di essere Gordon Gekko, dispensa sorrisi ed attenzioni a chiunque (che durano da 1 a 1,3 secondi) ed elargisce generosamente biglietti da visita ai produttori, anche a quelli che già lo conoscono. I suoi gesti sono veloci ed ampi, anche troppo, ma non è un problema se urta qualche poveraccio. Perlomeno, non è un suo problema. Se è in compagnia di conoscenti mostra quanta solida amicizia e stima reciproca ci sia tra di lui e il produttore che ha appena conosciuto. Qualsiasi vino che assaggia ha carattere, ha stoffa, ha classe. Sempre. Generalmente non regge il vino e al terzo sorso finisce KO come Clubber Lang.


[Youtube.com]
Lo studente sommelier: poveretti. Gli studenti di un corso sommelier attendono la loro prima degustazione con grande eccitazione. Centinaia di vini diversi tutti disponibili, tutti da assaggiare, tante domande da fare ai vignaioli. Poi, entrati all’evento, sono impreparati. Non sanno da quale produttore andare prima e quale schema seguire. Allora improvvisano, domandano, appuntano le risposte su un taccuino, abbozzano anche qualche nota di degustazione dei primi assaggi. Arrivati al terzo o quarto produttore sono confusi e stanchissimi. Proseguono l’evento solo bevendo, dimenticando il taccuino in tasca o su un banchetto.


[Wikimedia Commons]
Il/la wine blogger: non è più giovane, non è ancora vecchio, non è preistorico né tecnologico, il/la wine blogger non è né carne né pesce. È tra color che son sospesi, un rosato da salasso, un Lambrusco Grasparossa: non viene dileggiato ma neanche elogiato. In pratica: non se lo fila nessuno. Lui/lei vuole comunque dire la sua. E dirla con tante parole. 2000 caratteri non bastano. Parole che pochi leggeranno, ma a lui/lei non interessa. E questo non è vero. Ma basta parlare di me.
Il/la wine blogger va alle degustazioni preparato, gli/le piace fare bella figura. Quando è convinto di avere in pugno il vignaiolo si presenta: prima il nome del blog, poi il suo nome. Poi di nuovo il nome del blog. Ha scelto un nome più ostico di un’industria tedesca, almeno un paio di volte deve ripeterlo. È preparato, o almeno crede di esserlo. Vorrebbe essere letto da enologi e vignaioli, realmente non lo legge neanche il suo condominio. Scrive di vino per pura passione, senza alcun tornaconto. Il sospetto è che vada agli eventi per trovare finalmente questo tornaconto. 


[Donnaglamour.it]
Il/la wine influencer: giovani trendyfresh e stylish, con un seguito di centinaia/migliaia di followers ed una solida reputazione nel mondo dei social media. I/le wine blogger li/le vedono come un’involuzione della specie, venendo snobbati a loro volta da questi come polverosa anticaglia. Il/la wine influencer punta allo stomaco di chi guarda, punta all’immediatezza, punta ai like. Per questo si direziona solo verso produttori in giacca e camicia, con vini dai 50 € a salire e con etichette glamour. Lo smartphone è un arto aggiunto con il quale fotografano nell’ordine: etichetta, bicchiere inclinato e bicchiere che ruota con effetto rallenty, più selfie con il produttore. Sforna stories e post farciti di hashtag. Sarei ingiusto però se dicessi che si tratta solo di apparenza. Perché il/la wine influencer recensisce sempre il vino che assaggia, dividendo i giudizi tra “wow” e “no, cioè… top”.


[Ilfattoquotidiano.it]
L’accompagnatore: persona caritatevole che viene solo per fare un favore all’enofissato al loro fianco. Non capisce di vino e non ha interesse a capirne. È un tipo semplice. Non trova differenze tra un Cervaro della Sala e un Müller Thurgau dell’Eurospin. Non le cerca neanche. Al ristorante ordina il mezzo litro della casa senza avere alcun moto interiore di vergogna. Agli eventi si limita a bere quello che viene versato loro nel calice, annuendo in silenzio alle parole dell’amico enofissato. Ascolta tutti i discorsi che vengono fatti con la faccia del gallo Heihei del cartone animato ‘Oceania’. Si domanda perché tutta questa gente sia così eccitata per il risultato della fermentazione alcolica di un frutto. Probabilmente loro sono quelli che hanno più ragione di tutti.


[Youtube.com]
L’avvinazzato: agli eventi, alle degustazioni, questa tipologia di persona cerca in tutti i vini che assaggia una ed una cosa soltanto: l’alcol. L’avvinazzato gira per i banchetti incuriosito dalle etichette, dai colori, dai produttori (più spesso dalle produttrici). Inizialmente si mostra interessato, lo sguardo è convinto e il piglio quello giusto. Poi apre bocca, e si svela in tutto il suo splendore: “che mi dai un bianco”? Già, l’avvinazzato va agli eventi solo per placare la sua sete. Non gli interessa se la bollicina del vignaiolo che ha di fronte è un metodo classico da Pinot Nero valdostano affinato metà in botte di ciliegio e metà in anfora, 48 mesi sui lieviti, dégorgement à la volée; la sua richiesta sarà sempre una sola: “mi fai assaggiare ‘sto prosecchino?”, facendo calare un velo di tristezza sull’intera manifestazione.

Questo è quanto ho percepito nelle mie enouscite. Se avete letto la lista fino alla fine siete dei pazzi scriteriati ed avete tutta la mia gratitudine.

P.S.: Disclaimer, per me non necessario, ma hai visto mai: la lista è stata redatta facendo largo utilizzo di ironia, sarcasmo ed altre cose mai possedute da Cicerone. Se qualcuno si fosse sentito turbato, offeso, financo vilipeso, non posso fare altro che esclamare un perentorio e solenne “e mannaggia”.

Marco Ludovico – Puglia IGP “Amforéas” 2018

Giungiamo con questo pezzo a parlare dell’ultimo dei tre vini che ho preso da Marco Ludovico. In realtà il fatto che io abbia potuto provare questo vino è solo merito di Marco. Ha aggiunto di sua sponte questo vino espressamente per sottoporlo al mio giudizio. Ammetto che la cosa mi ha emozionato e mi ha fatto riflettere che, in fondo, questo minuscolo blog non è poi tanto male; che traspare una certa competenza in materia oltre ad una passione smisurata. Oppure può darsi che Marco mi abbia solo confuso con qualcun altro. In ogni caso io la bottiglia l’ho aperta e bevuta, hai visto mai…
L’’Amforéas’ è la vera luce degli occhi di Marco, il vino di cui è più orgoglioso. Tutto nasce dalla voglia di valorizzare un’uva sbeffeggiata come il Trebbiano e di misurarsi con la macerazione di uve bianche in anfora. La mente di Marco idealmente risale tutta la costa adriatica fino al Collio Goriziano, per trarre ispirazione dai maestri di questo fondamentale. Ma l’intenzione non è di scimmiottare i mostri sacri dell’anfora. Nella Terra delle Gravine Marco Ludovico vuole dare vita ad un vino del tutto nuovo, nutrendo fiducia nel Trebbiano. 
Il protocollo non è scolpito nel marmo, come è giusto che sia. La macerazione del Trebbiano può essere più o meno protratta nel tempo, dipende dall’annata. Necessario è che l’uva sia perfetta. Anche la Malvasia macera sulle bucce, in acciaio e per due settimane al massimo. Questo perché, essendo la Malvasia un’uva aromatica, prolungando il contatto con le bucce si corre il rischio di estrarre un eccesso di molecole aromatiche e tannini, finendo col dare al vino una connotazione prevalentemente amara. Il Trebbiano invece, avendo meno polifenoli nella buccia, può andare incontro a macerazioni più lunghe senza problemi. L’uso dell’anfora ha come scopo la lenta ossigenazione del liquido senza cessione di ulteriori sostanze aromatiche, come accade invece usando il legno. 


‘Amforéas’ 2018 è composto per il 70% da Trebbiano e per il 30% da Malvasia. Il Trebbiano ha macerato 5 mesi in anfora, mentre per la Malvasia la macerazione è stata di 2 settimane in acciaio. Dopo svinatura e assemblaggio il vino affina in anfora per almeno altri 6 mesi, dopodiché viene imbottigliato e comincia la sua avventura nel mondo. E potrebbe essere una lunga avventura, poiché anticipo già che questo vino ha una longevità potenziale elevatissima. Ciò non è valso per la mia di bottiglia, ma è stato fatto tutto a scopo didattico.
Nel calice il vino è un classico orange wine, ed è bello limpido nonostante chiarifica e filtrazione non siano state effettuate. Immaginavate che tutti i vini non chiarificati né filtrati fossero delle luci gialle nella nebbia? E invece no, c’è chi lavora bene e fa vini elegantissimi pur intervenendo poco o nulla. 
L’eleganza di cui sopra è replicata al naso, ed è spettacolare. Un naso di una finezza incredibile, soprattutto parlando di un bianco macerato, dove è facilissimo perdere il controllo e banalizzarne il profumo. Il naso di ‘Amforéas’ invece è esaltante, un profumo che non cede di una virgola anche a distanza di qualche giorno dall’apertura. Il primo sentore è netto e deciso: miele millefiori. E subito dopo si fanno avanti mille fiori veri e propri: zagara, ginestra, gelsomino, mimosa, fresia, camomilla. Un naso che è una primavera, un’emozione. Altri netti sentori sono di pera Williams, di agrumi canditi, di mandorla fresca, di zafferano e di biscotto alla cannella, con cenni minerali di calcare che sono però messi in secondo piano da questa vagonata terpenica.
Se il naso può anticipare un’idea di dolcezza, ci pensa l’assaggio a ribaltare la scacchiera: secca, piuttosto fresca, leggermente tannica e lievemente amara nel finale (i danni collaterali dei terpeni). E uno pensa: “ok, ma se la bocca è come la descrivi allora il vino non è buono”. Aspeeeetta. Queste sono solo sensazioni che, innanzitutto, troviamo in tanti altri vini che tutti noi beviamo allegramente. Secondo poi, ho volutamente serbato per la fine la caratteristica principe dell’assaggio dell’’Amforéas’: il finale di bocca, un’intensa e persistente aromaticità, perfettamente correlata con i profumi di questo vino splendido. Ogni volta che bevo un sorso di questo vino (servito attorno ai 12 °C è perfetto) non riesco a non annusare il calice, inesorabilmente. Una splendida ed esatta corrispondenza tra naso e palato. 
Un vino realmente notevole. 
Chapeau, Marco.

Memorie di un enofilo: Vignaioli Naturali a Roma, 26/01/2020 (Parte II)

Riprendiamo il resoconto degli assaggi di Vignaioli Naturali a Roma, ripartendo da dove ci eravamo fermati la scorsa volta, ossia dal Nebbiolo e dal Piemonte.


E seguendo il corso della Sesia scendiamo verso sud, poi giriamo ad ovest e giungiamo nelle Langhe da Rinaldi. Il compianto Beppe Rinaldi è ancora il primo pensiero di chiunque legga il nome in celeste bordato d’oro delle etichette della cantina. Tuttavia viene in mio soccorso l’ignoranza, non intesa come impreparazione, piuttosto come “poca e recente dimestichezza con l’enomondo”, poiché mi sono avvicinato seriamente al vino proprio quando il buon Beppe ci lasciava. Dunque, leggendo Rinaldi, a me viene da pensare a Marta e Carlotta Rinaldi, le figlie di Beppe, che ne hanno raccolto il testimone. Parlando con Carlotta, le si legge negli occhi l’impegno con cui sta conducendo, assieme alla sorella, questa storica cantina. Presente e futuro sono loro. Gli assaggi? Una Barbera d’Alba 2017 emozionante, così come i due Barolo 2015, il Brunate e il Tre Tine. 


Altro langarolo DOC visitato è Claudio Fenocchio, dietro lo stand della cantina di famiglia Giacomo Fenocchio. Essendo ben stesa sul bancone una mappa delle MGA del Barolo (Menzioni Geografiche Aggiuntive per i meno avvezzi), io ne ho laidamente approfittato per farmi raccontare da Claudio, che è persona cortese e paziente, qualche caratteristica dei vari cru, il legame con ogni territorio e perché mai alcune MGA siano grandi come una provincia. 


Le parole sono state accompagnate dall’assaggio dei tre cru di Barolo 2015, appena imbottigliati: il Castellero, ancora scalpitante; il Villero, più composto, suadente, profumato e lungo, lungo…; il Bussia, potente ed austero. Ma che bello parlare di vino così…


Alla fine non ho resistito. Pur conoscendoli giá ed ammirandoli tanto, sono comunque passato da Riccardi Reale, dove ho trovato la magnifica Lorella. Niente da fare, ho un debole per lei e per Piero, persone di cultura e di visioni. Non ho resistito alla tentazione di chiederle anticipazioni riguardo il loro nuovo progetto vinicolo appena annunciato (quale progetto? Seguiteli sulla loro pagina Facebook). Poi, già che c’ero, ho anche reso onore alla nuova annata di quel vino stupendo che è il Cesanese di Olevano Romano ‘Collepazzo’ 2017.


Come penultima tappa ho puntato verso lo stand di Georgea Marini, la cui omonima cantina è ubicata in quel di Gradoli, sul lago di Bolsena. Lì regna l’Aleatico, vitigno aromatico a bacca nera che viene qui prodotto nelle versioni secca e passita. La prima di buona struttura, molto profumata e gradevole, con aromaticità e relativa chiusura amaricante da tenere in considerazione in fase di abbinamento cibo-vino; la seconda versione è di alto livello, con le sue note di fiori appassiti, frutta disidratata e idrocarburo. 


Chicca finale: Marco De Bartoli da Marsala. Banchetto preso d’assalto, ma grazie al basket, che mi ha insegnato il nobile fondamentale del tagliafuori, ho potuto godere del famoso ‘Vecchio Samperi’. Un vino grandioso. Splendido anche il Marsala Superiore Riserva 2004, con le sue note finali di biscotto e frutta secca. L’ultimo assaggio è stato riservato al Passito di Pantelleria ‘Bukkuram’, dolce, morbido e persistente, l’ideale prima di congedarsi.

Adoro questa manifestazione. Innanzitutto per lo spazio a disposizione, che dà modo ai degustatori vaganti di pensare al vino che si ha nel calice senza dover fare a spallate con gli altri. Poi per la tranquillità con cui si riesce a parlare con i produttori. Certo, questo se non ti capita il borioso di turno, che sequestra mezz’ora della vita del produttore per parlare in sostanza solo di sé stesso,l; in quel caso la cosa è un po’ più difficile, ma con pazienza ed occhiatacce ci si riesce comunque. Magari un giorno scriverò anche della fauna che circola in questi eventi. Infine trovo che, dato il livello dei partecipanti, vengano soddisfatti tutti i gusti, dagli ultras dei vini naturali a quelli meno avvezzi a tale tipologia. Insomma, io già sono pronto per l’anno prossimo.