Memorie di un enofilo: Beviamoci Sud, 01/02/2020. Seminario su Gianfranco Fino e assaggi vari.

1873: il deputato radicale lombardo Antonio Bilia conia per primo la locuzione ‘questione meridionale’, per indicare l’enorme divario, soprattutto economico, tra il nord ed il sud del neonato Stato Italiano. A fronte di politiche statali a dir poco predatorie e di scarsa lungimiranza generale, il vecchio Regno delle Due Sicilie nel tempo è rimasto due (o tre, o quattro, o cinque…) passi indietro rispetto allo sviluppo del settentrione. Ancora oggi un enorme numero di cicatrici è rilevabile e va tuttora a condizionare il generale giudizio superficiale, a seconda che l’oggetto in questione provenga da sopra o sotto il Tevere.
Attorno agli stessi anni la fillossera organizza banchetti luculliani con le radici dei vigneti francesi. I simpatici cuginetti allora, in barba all’allure, alla noblesse oblige e alla Tour d’Argent, cominciano a picchiare sui telegrafi come il buon Bonzo sui tamburi. I destinatari, tutti sotto il 42° parallelo, rispondono “presente” e spediscono vagonate di vino in Francia. Guardando tutti questi vagoni, anche molte cantine del nord Italia richiedono i servigi dell’assolato meridione, venendo accontentati fino ancora a poche decine di anni fa. Tanto è vero che vige ancora una battuta malignetta nel mondo del vino, più o meno fa così: “vuoi sapere come era un Primitivo/Negroamaro/altro-vitigno-del-sud degli anni ’70? Stappa un Amarone/Barbera/altro-vino-del-nord degli anni ‘70”. Ovviamente si generalizza, si fanno nomi a caso e si è anche, come detto, un pochino maligni; però “a pensar male si fa peccato, ma…”. E comunque è storia che tonnellate di vino abbiano da sempre risalito la penisola in cambio di poco denaro, sufficiente a garantire la sopravvivenza dei contadini senza costringerli a “mollare la falce in cambio di un martello” (cit.). La viticoltura di qualità al sud è cosa recente, una volta l’unico obiettivo del vignaiolo era mangiare.



Devo inoltre fare un mea culpa, poiché anche io sono involontariamente condizionato dal favore di cui godono i vini del nord rispetto a quelli del sud. Durante le degustazioni, di fronte ai vini di tutte le regioni, tendo sempre a privilegiare quelli del centro-nord. E so che è profondamente sbagliato. I vini del sud Italia hanno caratteristiche soltanto differenti da quelli del nord, non inferiori. A colmare questa lacuna,  redimerci e darci una grande opportunità culturale ci hanno pensato Marco Cum (Riserva Grande), Andrea Petrini (Percorsi di Vino) e Luciano Pignataro. Dopo due edizioni di ‘Aglianico a Roma’ hanno deciso di calare il carico a coppe, facendo salire a Roma l’1 e il 2 febbraio alcune tra le maggiori cantine del sud. E siccome a loro sembrava ancora poco, hanno corredato l’evento con interessanti seminari a tema, riguardanti ad esempio i vini dell’enologo Vincenzo Mercurio, il Merlot ‘Patrimo’ di Feudi di San Gregorio e i vini di Gianfranco Fino. E proprio con quest’ultimo seminario è partito il mio Beviamoci Sud. 


La fortuna è una componente fondamentale della vita. Ma proprio perché, appunto, fortuita, è necessario riconoscerla ed apprezzarla quando capita. E in questo caso la mia fortuna è stata poter ascoltare Simona Natale, la moglie di Gianfranco Fino. Se mai vorrete emozionarvi ascoltando qualcuno che parla di vino, andate a trovare Simona. Potrete allora intuire perché questa bevanda spiritosa ci prende così tanto. Il racconto dei loro inizi difficili, il commosso ricordo del padre, la viticoltura impostata su tradizione e la qualità, l’amicizia con Veronelli, le critiche ricevute per il loro Primitivo ‘Es’ ed il grande successo ottenuto proprio grazie a queste critiche. Un’ora e mezza di racconti a cuore aperto, inframezzati dai vini di Gianfranco Fino e Simona Natale. 


Si esordisce con un metodo classico rosé di Negroamaro, chiamato ‘Simona Natale’ (onore più che meritato per chi, come da sua stessa ammissione, pasteggerebbe a Champagne 365 giorni l’anno!), 36 mesi sui lieviti, territorio che esce potente dal calice. Quindi si passa subito all’’Es’: una 2015 perfettamente equilibrata, morbida, avvolgente e ricca, e una 2016 appena appena più austera al naso e in bocca, ma che con un anno o due di attesa sarà magnifico. Simona ha confermato il pensiero generale sull’’Es’, o si odia o si ama. Amo, grazie.


Altro fulcro di Gianfranco e Simona è il loro Negramaro ‘Jo’, servito sempre nelle annate 2015 e 2016. La prima mostra una decisa caratterizzazione olfattiva tipica del Negroamaro, con frutti rossi, ruggine, macchia mediterranea e appena del selvatico, ed una bocca agile e beverina. La seconda, anche in questo caso, mostra qualche piccola spigolatura che, con un annetto di attesa, verrà prontamente smussata. Beninteso, si parla di confronti fra due annate. Se vi capita una 2016 di ‘Jo’ o di ‘Es’, innanzitutto beati voi, e poi sono pronto a scommettere che la bottiglia verrebbe vuotata in un quarto d’ora. 
Il seminario finisce con l’’Es + sole’, Primitivo dolce da moderato appassimento in vigna (vendemmia una settimana dopo le uve per l’’Es’. Siamo in Puglia, fa caldo, che ci vuole a far appassire l’uva). Prodotto solo nelle estati secche (2008, 2012, 2017, 2018) ha una bocca più “smaltata” rispetto al classico ‘Es’, con frutta in confettura e smalto, con una bocca morbida ma ancora fresca, ben lungi dall’essere stucchevole.

Una persona normale, dopo una degustazione di questi vini, indosserebbe il paltò e monterebbe sul cocchio, dirigendolo verso la propria magione. Io invece, tutto meno che normale, per piacere non chiedetemelo, mi sono mosso verso i banchi di assaggio. Uno schema di assaggio era pronto, ma i vini di Fino hanno liberato un estro creativo che mi ha fatto muovere secondo l’istinto. Gli assaggi rimasti impressi sono stati:


Castel del Monte DOC Chardonnay ‘Pietrabianca’ 2018 – Antinori Tormaresca, 90% Chardonnay, 10% Fiano: l’unico bianco assaggiato (male, ma è andata così) è un delizioso Chardonnay non in purezza, burro e nocciola tipici integrati in un cesto di frutta esotica, piacevolmente fresco.


Salento IGT ‘Le Braci’ 2013 – Garofano, 100% Negroamaro: un grande vino. Un leggero appassimento delle uve dona potenza a questo Negroamaro, che si arricchisce di ulteriore complessità donata dal passaggio in barriques nuove. Barrique che si percepisce ma non va a coprire totalmente l’aroma del vino, contrariamente ad altri assaggi fatti.


Cirò Rosso Classico Superiore DOC ‘Aris’ 2016 e Ciró Rosso Riserva DOC ‘Più Vite’ 2013 – Sergio Arcuri, 100% Gaglioppo: vini artigianale ricchi di sapore e di profumo, più ‘selvaggio’ e giovane il Superiore, più maturo e deciso il Riserva, generosi entrambi di pepe, di spezie, di cenere e di macchia mediterranea.


Terre del Volturno Casavecchia  IGT ‘Lautonis’ – Il Verro, 100% Casavecchia: di una facilità di beva sconvolgente, frutta rossa, fiori e spezie. Un vino con un rapporto qualità/prezzo da saltelli aggraziati.


Roccamonfina IGT 2011 e Campania IGT 2016 ‘Terra di Lavoro’ – Galardi, 80% Aglianico, 20% Piedirosso: altro monumentale vino del sud, che ha nel tempo cambiato denominazione (ignoro il motivo) ma non uvaggio e, soprattutto, la propria classe. È anch’esso un vino che, come nel caso del “Le Braci”, trae enorme vantaggio dal passaggio in barrique, che modera in collaborazione con il Piedirosso il vigore dell’Aglianico. Una sequela di sfumature odorose ed una finezza gustativa di grande fascino, mirabilmente accentuata da qualche anno di affinamento in bottiglia, come dimostra l’annata 2011. Gran vino davvero.

In definitiva, Beviamoci Sud è una manifestazione quanto mai necessaria, soprattutto a Roma, e sono certo che questa sia stata solo la prima di una lunghissima serie di edizioni.

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