Marco Antonelli – Cesanese di Olevano Romano Superiore DOC “Tyto” 2015

Come promesso, eccoci alla chiusura del cerchio con i Cesanese di Olevano Romano di Marco Antonelli. Eravamo andati da lui a dare fastidio e ad immergerci nella natura selvaggia del vigneto sulla Morra Rossa, dove crescono le uve destinate alla produzione del Kòsmos. Poi abbiamo degustato proprio quello splendido esempio di Cesanese di Olevano Romano Riserva che è il Kòsmos, caleidoscopico ed elegantissimo. Infine di recente abbiamo tratto enorme vantaggio dall’assaggio de Il Fresco, il Cesanese di Olevano Romano Superiore che nasce nel terreno al di là del vialetto di casa di Marco, sul Colle Amici.

Ora è la volta di completare il trittico di Cesanese di Marco con l’assaggio del Tyto, il gemello diverso del Fresco. La denominazione è la stessa, come lo sono le piante condivise dai due vini. Come abbiamo giù visto, tutto dipende dall’annata: a seconda dell’andamento più o meno caldo, più o meno piovoso, Marco decide di far percorrere alle uve la strada che porta o al Fresco o al Tyto. 

Il 2015 ha spostato la scelta verso il fratellone più complesso del Fresco. Le uve, vendemmiate a piena maturazione, sono state pigiate e lasciate in contatto con le bucce per 20-25 giorni. L’affinamento del vino è quindi proceduto per circa 18 mesi in botti di rovere da 21 hl, seguito un più che giusto riposo in bottiglia fino ai giorni nostri. La tipologia produttiva mostra come il Tyto provi a seguire le orme del Kòsmos. 

Chiaramente Kòsmos e Tyto sono vini molto differenti. La Morra Rossa è un ecosistema a sé, che è riduttivo classificare solo come ‘vigna’: è ad una maggiore altitudine, immersa nella macchia, le piante sono vecchie e fanno letteralmente il diavolo che vogliono, che piaccia o meno. Il vigneto di Colle Amici è più ordinato, ad un’altitudine minore di un centinaio di metri rispetto alla Morra Rossa e su terreno compatto, argilloso ‘rosso’ con importante componente tufacea di matrice vulcanica. Resta sempre lo stretto non-interventismo di Marco in vigna e la discreta anzianità anche di queste viti,  con molte piante che hanno passato la quarantina d’anni di età.

Tutto ciò fa supporre che il Tyto si muova più su toni speziati e di pietra focaia rispetto al cugino Kòsmos, mentre la diversa vinificazione lo differenzia nettamente dal Fresco in termini di maggiore intensità gustativa e di complessità donata dalla sosta in legno.

Vogliamo continuare ad ipotizzare o procediamo all’assaggio?

 


I 5 anni di età del Tyto ci regalano un vino dalla bella tonalità granata, non molto trasparente. Avvicinando il calice al naso si avvertono toni profondi e quasi cupi, come prevedevamo: pepe nero, pietra focaia e ruggine sono il traino olfattivo del Tyto. Decise sono anche le percezioni di frutti scuri come mirtillo e amarena, alleggerite da un delicato profumo di violetta appassita. Chiudono il quadro note di sigaro, di cuoio e di china. 

La bocca del Tyto l’ho giudicata fuorviante. Mi spiego, prima che Marco venga a prendermi a scudisciate: dal naso mi sarei aspettato un ingresso deciso, un impatto muscolare. Invece il Tyto entra in bocca esile e leggero, con in tasca ancora una cospicua dote di acidi, che ne caratterizza il sorso. Morbidezza moderata e tannino docile, il Tyto possiede finezza, ha sapore intenso e la persistenza si trova a metà strada esatta tra il Fresco e il Kòsmos, con chiusura che ricorda la radice di liquirizia. Insomma, fuorviante quanto vi pare, ma la bottiglia la si finisce comunque senza starci troppo a riflettere.

 

L’assaggio del Tyto conclude la panoramica sui Cesanese di Olevano Romano di Marco Antonelli. Panoramica che ha arricchito le mie conoscenze, mostrandomi come il Cesanese sia un’uva versatile e ancora sottovalutata: riesce a donare vini di agile beva così come grandi vini, eleganti e complessi. Inoltre, pur non essendo il Pinot Noir o il Sangiovese, riesce a suo modo a leggere il terroir e a restituirlo nel calice, soprattutto se la mano di chi lo governa è leggera e non invadente. 

E mani come quelle di Marco Antonelli sono sante e benedette. 



Duca di Salaparuta – Terre Siciliane Rosato IGT “Calanìca” 2019

Incredibilmente, contro ogni aspettativa creata da questo 2020, sta arrivando l’estate. Sissignori, il caldo si sta finalmente palesando. E si avvicina di pari passo anche la ribalta per i vini bianchi, i quali sono pronti ad egemonizzare i pranzi e le cene estive. Perché siamo semplici in Italia: d’inverno vino rosso, e per favore che sia corposo; d’estate un bianco leggerissimo e freddo (non fresco, freddo). Bravi. Manca solo il classico brut accanto alla classica torta millefoglie zeppa di panna e poi è fatta, sarete riusciti a farmi imbestialire.

È proprio in questo periodo dell’anno che il mio spirito umanitario si manifesta, rendendomi cavaliere crociato di una categoria di vini che merita rispetto ed attenzione: i rosati.

Signore e signori, ma perché diamine non considerate mai di pasteggiare con un rosato? I vini rosati avranno almeno un centinaio di buoni motivi per essere selezionati. Ne sparo qualcuno in rapida successione: il colore è bellissimo, e l’occhio vuole sempre la sua parte, anche quando non lo ammette; possono essere bevuti a diverse temperature, senza starsi a dannare l’anima per un grado in più o in meno rispetto al loro optimum; sono versatili, abbinabili a carne, pesce, primi, verdure (ciò non vuol dire che il loro abbinamento perfetto sia con una tagliata di manzo, ma certamente la accompagnano meglio di un Trebbiano); collegandoci al punto precedente, possono iniziare, proseguire e concludere un pasto; hanno freschezza, complessità e intensità gustativa; sono mediamente economici, anche perché sono perlopiù pensati per essere bevuti hic et nunc, senza prospettiva di invecchiamento (eppure quanto mi incuriosirebbe una verticale di vini rosati).

Insomma, io di motivi per dare un’opportunità ai vini rosati ve ne ho dati un po’. Smettete di pensare che siano vini fatti con gli scarti di cantina e andate a prendere una bottiglia, per i ringraziamenti sono qui fino alle 20:00.

 

 

Il rosato “Calanìca” del Duca di Salaparuta è realizzato con differenti varietà di uve siciliane, non meglio specificate, ma sono abbastanza sicuro che il Nero d’Avola ne detenga il pacchetto di maggioranza. Le uve sono coltivate nella parte sud della Sicilia, a ridosso dell’agrigentino, a pochi passi dal mare. Vendemmiate a piena maturazione, vengono criomacerate e successivamente pressate sofficemente. Dopo la fermentazione il vino trascorre un mesetto in acciaio e un altro mesetto in bottiglia prima della vendita. 

Il colore del “Calanìca” è un bel rosa carico, a metà tra il ramato e il cerasuolo, segno che le uve con cui viene ottenuto non sono parche di pigmenti. Il profumo è intenso e molto invitante, con un esordio nettamente salmastro  (“giurerei che è un vino isolano”, cit.). Su questa manciata di sale escono note precise di fragola, melograno ed arancia sanguinella, leggere note erbacee e cenni di origano.

In bocca la caratteristica principale è una freschezza agrumata, che viene sostenuta dalla prevedibile sapidità e ben equilibrata da una discreta morbidezza. Sorso intenso, fine e persistente, con un ricordo finale di agrume per un vino assolutamente godibile.

 

 

Adanti – Umbria Rosso IGT “Arquata” 2011

Dall’enciclopedia Treccani, ‘estasi’: genericamente, stato di isolamento e d’innalzamento mentale dell’individuo assorbito in un’idea unica o in un’emozione particolare; più propriamente, nella mistica, il rapimento dell’anima che al culmine della sua esperienza religiosa, perduta la coscienza del mondo fisico e di ogni legame corporeo, si innalza alla contemplazione del divino ed entra in immediata comunione con esso.
Ora, io mi considero una persona altamente razionale. Non che sia parco di complimenti, ma non mi lascio trasportare troppo dalle onde emotive. Il vino storicamente si presta, più di ogni altra bevanda, ad essere oggetto di racconti romanzati (fin troppo romanzati alcune volte), ma io cerco di rimanere saldo sulla mia docile razionalità, consapevole che ogni vino degustato non può essere il vino della vita.
Tuttavia esistono vini che impongono la propria personalità al degustatore di turno, che sia esperto o meno; vini che fanno percepire in modo cristallino la loro qualità, senza dover ricorrere ad effetti speciali: questi vini si mostrano con la massima eleganza e, con grande pacatezza, ti catturano la mente. Bene, al cospetto di questi vini la mia imperturbabilità va a prendersi un bel borsone, ci mette dentro un cambio e della biancheria pulita e se ne va in vacanza un paio di giorni. Sono vini che entusiasmano, di cui ogni sorso ti sembra il primo. E il più buono. Sorsi che spalancano gli occhi e sequestrano ogni singolo pensiero per lunghi istanti. Infine, dopo la deglutizione, lasciano una sensazione di grande appagamento. Di estasi, appunto.
Ascoltate, è molto semplice: l’Umbria Rosso IGT “Arquata” di Adanti è uno di questi vini. È un Grande Vino senza ‘se’ e senza ‘ma’.


È un taglio bordolese atipico, chi è stato attento sa già il perché (agli assenti consiglio un ripasso qui), creatura orgogliosa dello storico cantiniere della Cantina Adanti, il compianto Alvaro Palini. Cabernet Sauvignon e Merlot sono presenti al 40% ciascuno, con il restante 20% occupato dalla Barbera. Esatto, proprio il vitigno piemontese. Barbatelle di Barbera hanno spesso accompagnato il ritorno a casa di chi andava al nord a lavorare, e gli umbri non hanno fatto eccezione. Non ne sono sicuro, ma mi piace pensare che il buon Alvaro abbia voluto inserire la Barbera in questo blend anche per rendere omaggio alla grande storia migratoria italiana, storia che coinvolgeva direttamente anche lui (nel link precedente è tutto spiegato). Soprattutto, la Barbera dà al vino quella sferzata acida che permette a Cabernet e Merlot di concentrarsi sulla loro maturazione fenolica. 
Sì, ma come mai un taglio bordolese qui, in terra umbra? “Ho voluto fare un vino matto, come piaceva a me”, parole e musica di Alvaro Palini. La prima annata fu del 1981, i primi encomi vennero con le annate ’85 e ’88, segno che aveva avuto ancora una volta ragione lui. 
Le viti giacciono felici a circa 230 m s.l.m. su terreno argilloso-calcareo e vengono vendemmiate nel mese di ottobre, a maturazione pienissima. In cantina le uve vengono diraspapigiate e fermentano in acciaio per una ventina di giorni, con rimontaggi e délestage. L’affinamento del vino è affidato a barriques e tonneaux per 24/30 mesi. Il resto del tempo l’Arquata Rosso se lo passa in bottiglia sotto la custodia delle Cantine Adanti, in attesa di uscire da Bevagna a conquistare altri popoli.


Veniamo all’assaggio. Vino di grande consistenza, nel calice si mostra di un rosso granato pieno e piuttosto compatto. La fittezza (ho controllato, esiste come termine) e lentezza degli archetti segnala che l’alcol è presente (14,5%) e che il vino di corpo ne ha da vendere.
Avvicinando il calice al naso si avverte una vibrazione. Non esagero, la prima inspirazione del profumo di questo vino è un privilegio di cui bisogna essere consapevoli. E, se si è consapevoli di ciò, si riesce a percepire questa vibrazione, un brivido di gratificazione. Non saprei come altro definirlo, ma è calzante. Il naso dell’Arquata Rosso 2011, aperto dopo 9 anni, è una gioia. È una distesa di frutta rossa e nera perfettamente matura: amarene, fragole e more; è un sottobosco su cui cresce la lavanda; è una scatola di sigari dove è caduta della noce moscata e un po’ di vaniglia; è un vegetale estremamente soffuso e una balsamicità impetuosa; è una boccetta di china, una striscia di cuoio e una scatola di Mon Chéri. È emozionante. È ampio. Devo fermarmi, ma è solo la razionalità che mi tira per la giacca. 
Se il naso è di questo calibro le aspettative dell’assaggio decollano come il Concorde. Ebbene, queste vengono ampiamente rispettate, se non superate. La bocca dell’Arquata Rosso è ampia, piena e corposa. Suscita sorpresa la notevole freschezza che i 9 anni di età hanno solo in minima parte ridotto. Una freschezza perfettamente in equilibrio con la grande morbidezza del sorso, con un tannino a guisa di seta, che delicatamente accarezza la bocca. Il sapore di questa meraviglia è intenso ed elegantissimo, con notevole persistenza che chiude su ricordi di mora di rovo e cioccolato fondente. 

“La Storia Siamo Noi” di De Gregori, “La nave negriera” di William Turner, LeBron James che stoppa Andre Iguodala in gara 7 delle finali NBA del 2016. Una canzone, un quadro, un’azione di basket in grado di attrarre ed emozionare anche un non esperto, anche un non appassionato. 
Esattamente come l’Arquata Rosso di Adanti. Un vino emozionante. 
Un Grande Vino.



La Staffa – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore DOC 2018

Il Verdicchio risente ancora di un drammatico problema: chiamarsi Verdicchio. O meglio: chiamarsi Verdicchio ed essere ancora venduto lire nella bottiglia a forma di anfora. Meglio ancora: chiamarsi Verdicchio, essere ancora venduto nella bottiglia a forma di anfora e a due lire, come a dare l’idea del vinello fresco e con quel pizzico di residuo zuccherino che fa tanto pranzo estivo con tavolo, sedie e tovaglia di plastica, con il classico zio pingue e dai nobili natali che se ne beve due bocce da solo prima ancora di mettersi a tavola e te lo ritrovi due ore dopo, bocca aperta sul prato, con le formiche che gli passeggiano sulla schiena. D’accordo, io ho affrescato l’immagine con colori vivaci, ma il fatto è che il Verdicchio rappresenta ancora questo per l’uomo comune: un vinello leggero e fresco, un’anfora a buon mercato per dare un tocco di charme alla propria sciatteria quotidiana. Sì, sono molto animoso verso l’uomo comune, cui dico una semplice parola, con la voce di Sandro Pertini: vergogna!
Il Verdicchio è molto, molto di più. È un’uva magnifica, probabilmente la migliore uva bianca italiana. Lo so, a fare le classifiche si entra sempre nella tana degli orsi coperti di miele, ma per proprietà, caratteristiche e potenziale evolutivo del vino, il Verdicchio (o Trebbiano di Soave, o Trebbiano di Lugana/Turbiana, o Trebbiano Verde, ecc.) ha regalato e regala vini di particolare complessità e finezza a prescindere dall’area geografica, o dalla tecnica di vinificazione e affinamento adottata. 
E spendiamo una parola anche riguardo la bistrattata bottiglia a forma di anfora: è stata realmente un colpo di genio dell’architetto Antonio Maiocchi nel 1953 per l’azienda Fazi Battaglia. La bottiglia nel tempo è diventata sinonimo di Verdicchio, con tutto ciò che, purtroppo, fa seguito ad un successo commerciale in termini di imitazioni, ma resta comunque da ammirare come esempio del genio creativo italiano nel mondo del design.
Poi però il mondo va avanti e i rompiballe, come il sottoscritto, cominciano a richiedere vini di sempre maggiore complessità, soprattutto data la consapevolezza dell’ingente potenziale di quest’uva. In nostro soccorso arrivano sempre più aziende, e una fra queste è La Staffa.
Con 12 ettari nel territorio di Staffolo (AN) su terreni calcarei con buona quota di argilla, La Staffa viene sorretta dal giovane Riccardo Baldi. Classe 1990, Riccardo ha imposto uno stile aziendale su parametri biologici ed artigianali. Un esempio ne è il Verdicchio Dei Castelli di Jesi Classico Superiore in questione: decantazione statica del mosto, fermentazione spontanea in acciaio e cemento ed affinamento in vasche di cemento per 3 mesi. Una lavorazione del genere permette anche ad un Verdicchio ‘base’ e di pronta beva di esprimersi. Che poi ‘di pronta beva’ è del tutto arbitrario, scordatevi un Verdicchio in cantina per qualche anno e vi ripagherà lautamente. Io invece sono un cattivo investitore ed ho sperperato il patrimonio in un’unica tranche. Ecco come è andata.


Nel calice il vino emette concreti riflessi dorati nel suo giallo paglierino e si nota una bella consistenza, contro il comune pensiero riguardo i bianchi ‘base’ di essere vini leggeri ed evanescenti. Il Verdicchio è concreto e lo dichiara subito. 
Il naso è intenso e principalmente minerale, con una sensazione a metà tra la pietra focaia ed il sale marino. E in effetti, posizionati come sono i terreni della Staffa le viti di Verdicchio, con i piedi nel calcare e la testa accarezzata dalla brezza dell’Adriatico, hanno tutta l’intenzione di restituire queste due caratteristiche a chi ne vuol godere. Al fianco della mineralità fanno capolino la fragranza di lievito, dei sentori di erba tagliata, leggeri origano e salvia, tiglio, lime, pesca e frutto della passione. Non male anche qui, una complessità apprezzabile.
La bocca è anch’essa intensa, è secca, molto fresca ma con sapidità molto percepibile. Morbidezze non se ne avvertono, è un vino proteso verso le durezze, e non potrebbe essere altrimenti, data la natura del Verdicchio e la tecnica di vinificazione adottata. Questo vino vuole essere fresco, vuole far sentire l’acidità residua, ma comunque in maniera fine e non grossolana. Sempre per far notare quando un ‘base’ viene fatto bene. Il finale di bocca è particolare, ossia dopo la deglutizione la bocca resta asciutta, si avvertono lievi toni amaricanti che lasciano subito spazio ad una gran sapidità; infine la sapidità sfuma e dà campo libero al ritorno della salivazione, data dalla bella quota acida, a lasciare in bocca una piacevole sensazione agrumata. 
E bravo Riccardo Baldi. Lui a neanche 30 anni fa vini del genere, io a 35 fatico ancora a togliere la capsula della bottiglia in un unico movimento. Ci vuole tanta pazienza.

Torre dei Beati – Trebbiano d’Abruzzo DOC “Bianchi grilli per la testa” 2017

Una delle soddisfazioni di un enotecario è sentirsi dire “vai, mi fido: sceglimi te una bottiglia”. E il buon Alessandro di The Winery Is (Via Franco Sacchetti 5, Roma, zona Talenti; merita la visita, anche solo per bere un bicchiere e fare due chiacchiere con Alessandro), nell’ordine effettuatogli ha colmato lo spazio vuoto nel cartone con questo vino abruzzese.
Straight outta Loreto Aprutino. “Ah, ho capito: Valentini”. Spiacenti, non me lo posso permettere (e non ci devo riflettere / te lo dico a chiare lettere). E poi è scritto nel titolo: Trebbiano d’Abruzzo DOC Torre dei Beati, un’azienda a conduzione biologica tirata su una ventina di anni fa da Adriana e Fausto. L’uva protagonista del vino è Trebbiano Abruzzese, nome sfortunato. Pensateci, non è una gran fortuna per un’uva condividere il nome di battesimo con il vitigno bianco più utilizzato in Italia per fare in una teglia la doccia domenicale al pollo. Dici Trebbiano e la mente dell’uomo comune corre celere al vino in brick. Insomma, conosciamo uve con un nome più seducente. Poi però un vino va anche bevuto, e non sempre uno Chardonnay, un Sauvignon Blanc risulterebbero adatti allo scopo principe del vino, ossia accompagnare dei cibi, perché i cibi sono molteplici ed i vini, grazie a Dio, pure (sto facendo nomi di vitigni a caso; che tali uve siano francesi è del tutto stocastico. Non si offendano i francesi se mi sono stocastici).


Ordunque, l’assaggio. Vino che scende dorato e concreto nel calice, con archetti fitti che riportano più a scarpe da trekking che da ballo (oggi ci hanno consegnato solo queste similitudini, abbiate pazienza). Il naso infatti ci conferma che la scelta della calzatura è più che mai appropriata: sale al naso un profumo esplosivo di fiori di campo, ginestra e camomilla su tutti. E questo campo di fiori è proprio in riva al mare, con la mineralità salmastra ad intercalarsi tra i petali. Note ulteriori di lievito, lascito della sosta sulle fecce fini, di mela golden e di nespola, di foglia di tè, con lievi ritorni di macchia mediterranea. Un naso potente ma che non perde affatto di finezza.
In bocca il sorso è pienamente sapido, è la caratteristica primaria di questo vino. Si percepisce morbidezza al palato, con una freschezza dosata ma viva. L’intensità gustativa è notevole, con una persistenza coerente con il naso, che sbiadisce lasciando dietro di sé questa forte scia sapida. Parte del vino affina 9 mesi in botti grandi di acacia, caratteristica che regala al Trebbiano d’Abruzzo di Torre dei Beati questa splendida complessità. 
Il consiglio dell’enotecario è stato apprezzato, mi avvarrò nuovamente dei servigi di Alessandro.