Domaine Giachino – Savoie Blanc AOP “Monfarina” 2017

E io che pensavo che in Savoia non facessero realmente del vino. Certo, è elencata nelle AOC che si studiano al corso sommelier, ma io non avevo mai visto di persona un Vin de Savoie in un’enoteca e, secondo un ragionamento altamente illuminato, “se non lo vedi vuol dire che non esiste”. Che poi lo stesso discorso vale per il Pentro d’Isernia, che sì è una delle DOC del Molise, ma ne avete mai visto una bottiglia dal vivo?

Fortunatamente al mondo esistono anche persone preparate come Sara Boriosi, cui mi sono deferentemente rivolto per una fornitura di, ehm, materiale didattico di provenienza francese. Più o meno è andata così:

Io: “Vai Sara, questo è il budget, selezionami tu 5/6 bottiglie francesi”.

Sara: “Le bottiglie io le avrei, ma se ci vuoi anche il vino dentro sarà meglio aumentare un pochetto questo budget”.

Io: “Ma sì, un altro paio di euro ce li spendo volentieri”

S.: “…”

Io: “Che bottiglie avresti scelto per me?”

S.: “Allora, questo, questo, questo, quest’altro, e infine un Savoia”

Io: “…”

S.: “Che ho detto?”

Io: “No, è che credevo che in Savoia il vino fosse una leggenda e che facessero solo i biscotti”

S.: “Ma tu le sinapsi le interrompi a comando o è proprio un difetto di fabbrica?”

Ad ogni modo i vini vennero recapitati alla mia magione: cinque vini francesi, di cui leggerete prossimamente su questi teleschermi. E il vino con cui esordiremo testé è proprio il Savoie Blanc AOP “Monfarina” del Domaine Giachino.

 

Il Domaine Giachino è localizzato all’interno del Parc naturel régional de Chartreuse, zona montana, prealpi francesi (l’azienda, biodinamica certificata, è a un centinaio di km in linea d’aria da Torino), abbondantemente sopra i 1000 m di altitudine. Per cui: clima continentale rigidino anziché no, grandi escursioni termiche giornaliere, terreni in cui la dura roccia granitica è commista ad argilla e calcare derivanti dalle frane venute giù ancora fino a qualche secolo fa. 

Le uve tipiche della zona sono: Jacquère, Roussanne, Altesse (o Roussette), Chasselas, Gamay e Mondeuse. Circa il 70% della produzione vinicola in Savoia è di matrice bianchista, e c’è da capirli: grazie alle notevoli escursioni termiche l’uva trattiene tutti i suoi aromi, trasferendoli poi in vini che, come tutti i bianchi di montagna, risultano molto profumati.

 


Il “Monfarina” 2017 di Domaine Giachino entra in pieno in questa macroarea. Ottenuto da Jacquére, Mondeuse Blanche e Verdesse, tutta la sua lavorazione viene effettuata a bassa temperatura, per non perdere neanche una sola molecola aromatica. Il vino svolge anche conversione malolattica ed affina sulle fecce fini per circa un annetto (mese più, mese meno).

Tolto il tappo e versato nel calice, il vino si mostra di un giallo paglierino carico e luminoso.

Il profumo del vino si è fatto notare anche a calice fermo, un profumo assai intenso, che come prima cosa rimandava a profumi di crosta di pane e una forte sensazione minerale, salmastra quasi. Ok, siamo sulle prealpi francesi, il mare lì non lo vedono da milioni di anni, e in più descrivere le sensazioni minerali porta sempre ad ampie e mai pacate dissertazioni; ma aho, a me ha ricordato l’acqua di mare, mo’ ammazzatemi, non lo so. Dopo l’iniziale snasata il calice è stato roteato: l’apertura del negozio di un fioraio, gelsomino, giglio, mughetto. E questo fioraio è entrato in negozio con la colazione: biscotti con scorze di limone e spremuta di pompelmo, una pesca e una susina gialla. E per far merenda si è portato appresso qualcosa di tostato, qualche nocciola tostate. E bravo fioraio, che bel profumo ha il tuo negozio/calice.

L’assaggio conferma le aspettative di un vino montanaro: fresco, fresco, freschissimo. Sono passati 3 anni dalla vendemmia, ha svolto malolattica, eppure il vino è ancora di una freschezza sfavillante (ma può essere sfavillante la freschezza? Mah). 11% di alcol e provenienza alpina rendono l’idea di un vino molto leggero, ma non gli fa difetto la personalità. Innanzitutto non c’è solo acidità fissa, ma si percepisce anche una discreta morbidezza al palato verso il finale di sorso. Inoltre l’aroma di bocca è ben intenso, con una persistenza molto lunga che chiude ovviamente su piacevoli ritorni agrumati. 

Devo davvero ringraziare nuovamente Sara Boriosi per questo vino. Non fosse stato per lei non so quando avrei mai assaggiato un Vin de Savoie, non so se avrei provato le stesse felici sensazioni, non avrei scritto questo pezzo e, di conseguenza, il mondo sarebbe stato un posto più lugubre e truce, e quindi anche Sara si deve ringraziare. Grazie a tutti.

 

 

Vignaioli in Grottaferrata (14/09/2020)

Sei. Sei, come i premi Oscar vinti da Forrest Gump; come le ruote della Tyrrell; come il numero di Bill Russell e di Youri Djorkaeff. Sei, come le cantine con sede a Grottaferrata. Sei cantine che hanno deciso di associarsi per promuovere questo territorio, non solamente il vino che vi si produce; un vino che sia fine e mezzo.

 


Voglio scommetterci: credo meno dello 0,05% di voi abbia mai bevuto un vino proveniente da Grottaferrata. Siete molto meno dei grammi di sodio nell’acqua Panna. Certo, siamo tutti portati ad emozionarci davanti ad un vino delle Langhe (e ti credo), oppure a predisporci positivamente se ci viene stappato un Fiano di Avellino, o un Bolgheri Rosso, o un Sauvignon Blanc friulano. Viceversa, l’approccio ad un vino dei Castelli Romani è sempre misurato, guardingo. Posso capirlo, il retaggio degli scorsi decenni è ancora duro a morire. Eppure le cose cambiano; sono cambiate. E, se è vero come è vero che dopo Narzole 1985 la Barbera ha raccolto i suoi cocci per farne, contro ogni previsione iniziale, una costruzione molto più prestigiosa di quella andata in frantumi sotto i fumi dell’alcol (metilico), allora c’è ragione di credere che anche i vini provenienti dall’areale del Frascati troveranno la considerazione che meritano.

 


Da queste parti, dove ho la fortuna di abitare, c’è tanta storia e c’è finalmente anche prospettiva. Qualche vignaiolo già lo faceva, qualcun altro si è lanciato nell’impresa in tempi recenti, fatto sta che adesso sui Castelli Romani si vuole fare viticoltura di qualità come mai nel passato. E quando i disciplinari non aiutano, privilegiando ancora un po’ troppo la quantità dell’uva, sono i singoli vignaioli a creare associazioni volte a promuoversi, a promuovere un vino di qualità, senza sterili rivalità. È in questo modo che nasce l’Associazione Vignaioli in Grottaferrata, fondata dalle sei cantine criptensi: Agricoltura Capodarco, Castel De Paolis, Emanuele Ranchella, Gabriele Magno, La Torretta e Villa Cavalletti.

La cerimonia di ufficializzazione dell’associazione del 14/09/2020, tenuta nel cortile della magnifica abbazia di S. Nilo di Grottaferrata (se non ci siete mai stati fustigatevi per bene, pentitevi di voi stessi ed andateci!), ha posto l’accento proprio su questo aspetto: valorizzazione del territorio. Sì, sono parole che abbiamo già sentito migliaia di volte (anche riguardo territori che da valorizzare avevano sì e no le sterpaglie), se non che qui il territorio ha potenzialità davvero inespresse, potenzialità che partono dalla viticoltura per arrivare al turismo e alla cultura. 

 

lazioface.altervosta.org

La genesi di questo territorio ha un solo responsabile: Vulcano Laziale. Il ‘piccolo’, nel corso della sua esistenza, ha mega-eruttato varie volte, ma di quelle eruzioni che poi vogliono l’applauso dei presenti a spettacolo finito; in questo modo sono stati generati i laghi di Nemi ed Albano ed altri vari bacini poi prosciugati, tra cui la criptense Valle Marciana. Sono 20000 anni che il cucciolo è a riposo, ma non è mica spento, e qualche sciame sismico sporadico funge da avvisaglia nel caso in cui ci si rilassi troppo.

 

Il terreno vulcanico dunque, una benedizione per il viticoltore. Passando attraverso migliaia di anni di diverse eruzioni questo risulta variamente caratterizzato, tanto che praticamente ogni comune dei Castelli Romani ha il proprio terreno caratteristico. Per avere un’idea è sufficiente prendere la via Anagnina da Roma, direzione Grottaferrata. Oltrepassate la salita delle catacombe ad Decimum (che già valgono una visita) ed osservate il terreno alla vostra sinistra, quello che sarebbe la base del Castello Savelli: strati e strati di ceneri, lapilli, tufo ed altri materiali di origine vulcanica. Sulla destra invece si apre la conca di Valle Marciana, un anfiteatro disseminato di vigne. Un panorama che merita la sosta, a rischio della propria incolumità, fino a quando non ci faranno una dannata ringhiera turistica che se fossimo nel Chianti o sulle Langhe ci sarebbero le maledette panchine davanti a quella ringhiera! Basta, mi calmo, sono calmo.

 


I sei banchi d’assaggio sono stati dislocati nel Cortile del Sangallo dell’abbazia (qui ci sarebbe stata bene la locuzione ‘splendida cornice’), consentendo a tutti di degustare i vini dei Vignaioli in Grottaferrata senza fare a spallate, stupendo artifizio in tempi di Covid-19. 

Ho degustato vini assai differenti per stile e provenienza, eppure tutti con il riconoscibile apporto del terreno di matrice vulcanica, massivamente presente all’interno del bouquet e del sorso. Vini di carattere, intensi e sapidi, ricchi di profumi, nulla a che vedere con l’immaginario del ‘vino dei Castelli’ da fraschetta. Senza troppi dettagli degustativi, altrimenti i pochi di voi che hanno resistito finora me li perdo come i tramonti di Neruda, vado con la mia hitlist chart della serata: di Castel De Paolis, l’azienda forse più conosciuta delle sei, è ottimo il dolce “Muffa Nobile” (di cui avevamo già parlato qui), una replica del Sauternes in veste romana. Agricoltura Capodarco mi ha stupito con il rosso “Xenia”, uve rosse, annata 2015; un pollice in su per il vino, ancora fresco e vibrante, due pollici per il messaggio. Villa Cavalletti, capitanata dalla presidente dell’associazione Tiziana Torelli, ha offerto in mescita un Roma DOC Rosso Riserva 2015 (Montepulciano 80% e Cesanese 20%) accattivante a dir poco. Di Gabriele Magno confermo l’elevato standard qualitativo dei suoi Frascati Superiore DOCG e Frascati Superiore Riserva DOCG, a mio parere tra i migliori della denominazione. Emanuele Ranchella ha deciso da pochi anni di imbottigliare solo due etichette, ma entrambe sono notevoli oggi come lo saranno tra qualche anno dopo un dosato riposo in bottiglia: il Roma DOC Bianco “Ad Decmum” (Malvasia Puntinata, Trebbiano Verde e Trebbiano Giallo) e il Trebbiano Verde in purezza “Virdis”. In cima alla classifica però ho messo La Torretta di Riccardo Magno: tre ettari di terreno coltivati in biodinamica e tre vini splendidi: il metodo ancestrale “Bolle di Grotta”, il bianco “Torretta”, affinato in anfora, e il bianco “Castagna”, elevato in botti da 10 hl di castagno, legno tradizionalmente usato sui Castelli Romani; vini intensamente profumati, puliti e ben complessi, sempre per ribadire che il vinello scialacquato dei Castelli è una porcheria che deve far parte del passato (e che non deve più essere comprata! Spendete un po’ di più e bevete un po’ di meno, che tanto non avete il fisico e se esagerate vi fa male la testa, ma ‘ndo’ annate).

 

Il ringraziamento finale va a Saula Giusto, coordinatrice dell’evento ed estensric…, estensor…, insomma che ha esteso l’invito a questa manifestazione anche a me.

Confronto tra 3 Chardonnay italiani: nord vs centro vs sud

La suggestione, più che il suggerimento, è arrivata da Giuseppe e Alla Fazari su Instagram: parlare di Chardonnay italiani, di nord, centro e sud. Suggestione dicevo perché, razionalmente, ancora non mi straccio le vesti per uno Chardonnay. Eppure l’idea di confrontare tre vini a diverse latitudini, che abbiano in comune solo quest’uva, mi attrae da matti. Come al solito lo scritto sciagurato può essere dietro l’angolo, ma mi piace provarci. Di conseguenza, eccomi tornare dall’enoteca con tre esemplari di Chardonnay italiani (due in realtà; uno era già in cantina). Ma prima parliamo giusto un secondo di quest’uva (“Nooo, uffa. La lezioncina no”. Ok, allora niente lezioncina. “Ma che davvero”? Ma certame… no. Scherzavo).

 

Wikipedia

Lo Chardonnay ha origini francesi. Borgognone, per essere precisi, con locazione accertata delle prime viti riconosciute come tali nell’abbazia di Pointigny, in piena zona Chablis. Il nome invece trae origine dal villaggio di Chardonnay, situato circa 250 km più a sud dell’abbazia, nel Mâconnais. Su come ci sia arrivato in Francia lascio parlare chi è competente in materia, come al solito le teorie sono molteplici. Per orgoglio personale voglio immaginare la storiella che siano stati i Romani, con le loro belle barbatelle sempre appresso, ad arrivare in Borgogna, piantare queste viti bianche e dire “e mo’ stai qua”. Fatto certo è che questa varietà, da quell’angolino freddo di Francia se ne è andata a spasso per il globo terracqueo come neanche un pilota di linea sotto incentivi aziendali. 

 

Ad oggi, è il vitigno impiantato nel maggior numero di Paesi e per ettari coltivati è dietro solo a Cabernet Sauvignon e Merlot. “Sarà perché è facile da coltivare”. Eh, mica tanto: certo, cresce con vigoria e, se lasciato fare, sforna grappoli a secchiate; ma è una varietà precoce, per cui rischia le gelate primaverili, e in climi freddi può andare incontro a coulure (ossia il fiore non evolve in un grappolo) e millerandage (ossia non tutti i chicchi del grappolo maturano allo stesso tempo, ragion per cui al momento della pigiatura gli acini meno maturi possono dare al vino un sapore ‘verde’). Non basta, anche la maturazione è precoce e pure parecchio rapida: l’uva perde velocemente la propria acidità, con conseguente appiattimento gustativo del vino risultante qualora l’avessimo vendemmiata con quel quarto d’ora di ritardo.

Insomma, neanche poco rognosetto il tipo. C’è da chiedersi come mai sia piantato in tutti i paesi produttori di vino. Beh, innanzitutto è perfetto per i vini spumanti, e ti pare poco. E in secondo luogo riesce a dare vini sempre versatili e gradevoli, anche se provenienti da coltivazioni intensive. Figuriamoci cosa riesce a dare quando le rese sono tenute sotto controllo e viene trattato con rispetto e devozione: dei vini che sono il paradigma dell’eleganza in campo enologico. 

 

Bibenda.it

Sì, ma in Italia? Le origini sulla sua coltivazione sono nebulose. Di sicuro c’è che fino al 1978 per il legislatore lo Chardonnay in Italia non esisteva, o perlomeno non era possibile metterne il nome in etichetta, pena l’accusa di frode. “Ma no, viticoltore Tizio, non dica sciocchezze. Non può essere Chardonnay quello che ha in campo. È senz’altro Pinot Bianco, mi dia retta”. Beh, se me lo dice lei. Il problema è che, come è ovvio, di Chardonnay in Italia ne sono stati piantati ettari ed ettari ben prima del fatidico anno dei mondiali in Argentina: ad esempio in Trentino per la spumantizzazione, così come in Friuli ed anche in Toscana, dove verso la metà dell’800 Vittorio degli Albizi mise a dimora viti francesi in quel di Pomino e realizzò quello che nel 1878, all’esposizione internazionale di Parigi, venne premiato come lo “Chablis di Pomino”. 

Oggi (anzi, oggidì) non c’è regione italiana che non riporti sui registri decine di ettari piantati a Chardonnay, che vengono vinificati in acciaio, in barrique o champenoisizzati.

 


E veniamo al succo del discorso: i tre vini scelti. Gli esemplari che ho stappato, rigorosamente affinati nel solo acciaio, per minimizzare le variabili organolettiche, provengono da tre distinte zone dello stivale (o del Bel Paese):

1) La Tunella – Friuli Colli Orientali Chardonnay DOC 2019: le viti si trovano in Friuli, a 5 km dal confine con la Slovenia, il che vuol dire una cosa soltanto: ponca. Da queste parti l’uva affonda le radici in questo straordinario impasto di marne calcaree ed arenaria, uno dei terreni migliori sulla terra per fare viticoltura. Il clima è continentale, con piovosità distribuita quasi equamente su tutti i mesi dell’anno. 

2) Paolo e Noemia D’Amico – Lazio Bianco IGT “Calanchi di Vaiano” 2017 (lo so, è di due anni più grande, ma questo avevo; siate gentili): i vigneti sono situati al confine tra Lazio ed Umbria, nei pressi dei calanchi di Sociano, su un terreno dove aree di origine vulcanica si alternano ad argille e sabbie, necessarie per la formazione dei calanchi. Il clima è temperato caldo, con piogge rilevanti giusto nei mesi di ottobre e novembre.

3) Mandrarossa – Sicilia Chardonnay DOC “Laguna Secca” 2019: l’areale produttivo si trova nella zona di Menfi, Sicilia sud-occidentale, su terreni misti di sabbia e calcari marnosi a poca distanza dal mare. “Laguna secca” sta ad indicare la presenza di antiche lagune che, asciugandosi, hanno consegnato un territorio piuttosto fertile. Serve dire che fa caldo, ma caldo caldo, lì giù? No, non credo.

 


Già nel calice si evidenzia la netta differenza tra l’uva di provenienza alpina con le altre due. Lo Chardonnay friulano è di un giallo molto chiaro, quasi bianco carta, mentre quello laziale e il siciliano sono di una piena tonalità paglierina. 

Sotto il profilo olfattivo lo Chardonnay de La Tunella viaggia veloce e leggero come uno Shinkansen. I suoi profumi sono al contempo intensi e delicati. Note di tiglio, mela verde, pesca bianca, lime, un accenno di foglia di coriandolo e di salvia, mineralità che ricorda un giorno di pioggia, accompagnato a un sentore di crosta di pane, dovuto ai 6 mesi di affinamento sur lie. Anche il profumo di burro fresco tipico del vitigno è presente.

Il Calanchi di Vaiano è più solido, più deciso al naso, dati anche i due anni in più sulle spalle rispetto agli altri due partner. Qui i profumi si riscaldano un po’, la pesca è gialla, cui si aggiungono mango e nespole, del gelsomino, la classica nota burrosa, pepe bianco, un sentore lievemente affumicato e una leggera nocciola che con il passare degli anni comincia a fare capolino. Un profumo di impatto decisamente maggiore rispetto al fratello friulano.

Il profumo dello Chardonnay siciliano rassomiglia più al suo omologo laziale nonostante sia più giovane, con sentori che qui si riscaldano ulteriormente, portando la pesca gialla di cui sopra a piena maturazione, spalleggiata da albicocca ed ananas. Intensa mineralità salmastra, cenni di erbe mediterranee, mimosa, zafferano e pepe rosa, oltre all’immancabile nota burrosa, qui più calda (gli abbiamo dato una scaldata a questo burro). 

 


Se al naso i tre Chardonnay esprimevano tutti un pattern olfattivo molto piacevole e tutto sommato complesso, è al gusto che si avverte la differenza di calibro. 

Lo Chardonnay del Friuli entra in bocca con una punta di dolcezza residua, l’ingresso è gentile nonostante abbia dei tre la maggiore quota di acidità fissa. Sapidità presente ma in secondo piano rispetto alla grande freschezza, che comunque non domina incontrastata, data la discreta morbidezza avvertibile (certamente dovuta al residuo zuccherino). Sapore intenso e persistente, chiusura su toni agrumati.

L’ingresso del vino laziale è anch’esso, al pari del suo profumo, più corposo, con una sapidità dominante su una freschezza qui meno in risalto. Sapore piuttosto intenso, con persistenza durevole e chiusura lievemente amaricante. 

È a questo punto che lo Chardonnay di Mandrarossa paga pegno. Paga poiché il confronto nell’immediato con gli altri due vini evidenzia come, a livello gustativo, sia un abbondante passo indietro in termini di intensità e di persistenza. Anche in questo caso è la freschezza a dominare, pur non essendo soverchiante, e si apprezza una leggera morbidezza ed una dosata sapidità. Chiude rapidamente su  una sensazione di ‘agrume salato’, non ho saputo renderla meglio, abbiate cuore.


In conclusione questo confronto (che non è stata una gara, sia messo a verbale) ha evidenziato come in qualche modo uno stesso vitigno, vinificato nello stesso modo, da diverse parti d’Italia, riesca a riflettere questa variazione di latitudine all’interno del vino e, allo stesso tempo, riesca a mantenere altre caratteristiche che lo rendono riconoscibile. 

No, il vino non è solo succo fermentato d’uva. 

E sono sinceramente dispiaciuto per chi non ci arriva.

Bolla – Valpolicella Classico DOC 2019

Dovete essere onesti, ma onesti davvero: quanti Amarone della Valpolicella avete bevuto? Suppongo svariati. Bene. E quanti Valpolicella? Quanti semplici, minuscoli, umili Valpolicella Classico? Se facessi un sondaggio, sono sicuro che i risultati sarebbero impietosi. Io stesso, a fronte di vari Amarone, non mi ero mai avvicinato ad un Valpolicella Classico. Inutile girarci attorno: ad oggi risulta meno fascinoso, meno magnetico rispetto al fratello più ciccio. 

Però, se proprio vogliamo polemizzare ferocemente (e quando ne ho voglia io sono un fuoriclasse), allora possiamo dire che il rispetto se lo meriterebbe quasi solo il Valpolicella Classico rispetto ai suoi più blanditi fratelli. Come mai? È presto detto: se la memoria non m’inganna, il vino si fa con l’uva matura; ecco, quel vino è il nostro Valpolicella Classico. Poi, capita che parti del grappolo siano più mature di altre, quasi appassite, le ‘recie’ (orecchie). Queste parti qui venivano recise, lasciate appassire per bene e utilizzate per farne un vino dolce: il Recioto della Valpolicella. Un giorno un veneto annebbiato (dall’alcol o dalla passione amorosa non è acclarato, ma è il bello della leggenda) non controllò la fermentazione del Recioto, facendolo ‘scappare’. Il risultato fu un vino secco ma dalla consistenza di un passito: l’Amarone della Valpolicella. Ah già, i veronesi decisero un giorno di dar maggior carattere al Valpolicella, fiondando dentro ai tini le vinacce dell’amarone e lasciandole qualche giorno a fare amicizia con il vino appena fermentato: il Valpolicella Ripasso.

Dunque, con estrema e crudele sintesi abbiamo il vino vero e proprio (Valpolicella), un vino dolce fatto con parti non adatte per la vinificazione in secco (Recioto), un errore di cantina (Amarone) e un vino che, come direbbe il sergente maggiore Hartman, “l’hanno fatto con lo scarto!” (Valpolicella Ripasso). Adesso ditemelo voi qual è il vino più rispettabile tra questi quattro (Diamine, avrei dovuto fare l’avvocato).

 



Sicché, eccomi al primo confronto con un Valpolicella Classico, nello specifico di Bolla, celebre azienda della Valpolicella. Le uve sono la classica Corvina con una quota di Rondinella, vinificazione in acciaio con breve affinamento prima della messa in commercio. 

Nel calice questo vino si mostra di un rosso rubino brillante e trasparente. Al naso esprime prima di tutto aromi di frutta rossa appena matura, ciliegie soprattutto e fragole, accompagnate dalla caratteristica tipica dell’uva Corvina, ossia un pungente aroma di pepe nero (piccola pillola chimica del Catcher: la molecola responsabile dell’odore di pepe nero è il rotundone, un sesquiterpene biciclico che è pare del corredo aromatico di alcuni vitigni, come Syrah, Schioppettino e, appunto, Corvina). Altre note ravvisabili sono una punta di cannella, scorza d’arancia, lieve rosa e lieve incenso.

In bocca il vino scorre indisturbato, si fa notare bene la freschezza, caratteristica principale della degustazione, sostenuta da giusta sapidità, con un leggero amaricante iniziale che sfuma in pochi istanti. Tannino scarsamente percepibile, così come la morbidezza al palato non è granchè rilevabile. Intensità di sapore e persistenza sono nella media, con un finale di bocca perlopiù speziato. 

Detto molto sinceramente, ho trovato questo vino assai piacevole e bevibile, con un bel rapporto qualità/prezzo. Al contempo, tuttavia, mi è mancato un po’ di carattere, che so essere quanto di più non oggettivabile fra le caratteristiche di un vino. Diciamo, mi è mancato quel quid in più, qualcosa che mi facesse soffermare qualche secondo di più (solo qualche secondo, niente roba da riflessioni parmenidee) sul vino appena bevuto.

Ed è con questa analisi puntuale, scientifica e razionale che vado a congedarmi.