Rocca di Montegrossi – Toscana IGT “Geremia” 2015

 

Abitiamo un tempo per cui parlare di un bordolese di Toscana può essere controproducente. “Ma come, con tutto quel ben di Dio che abbiamo in Italia c’è ancora chi fa tagli bordolesi in Chianti? In barrique?”.

Beh, partiamo dal presupposto che ognuno possa fare il tralcio che vuole. Detto ciò, ci vuole il fegato di affrontare il mercato e le sue mode. Una volta proporre tagli bordolesi poteva rivelarsi il boost di un’azienda vinicola, mentre oggi una proposta simile rischia di fungere più da ganascia.

Io, con tutto il rispetto, me ne frego altamente. Sì, intimamente sorrido più volentieri a un autoctono di livello, un minimo di orgoglio tricolore esiste; ma mettetemi nel calice un vino fatto come Bacco comanda ed avrete la mia gioia, chissenefrega se è autoctono o alloctono. E i due miei buoni amici, Valentina e Fabio, hanno pensato bene di festeggiare il mio invecchiamento anagrafico con il “Geremia” 2015 di Rocca di Montegrossi. Mi vogliono bene, non c’è che dire.

L’azienda, certificata biologica, sorge in Monti in Chianti, frazione di Gaiole in Chianti, dove un tempo sorgeva la vera e propria Rocca di Montegrossi. Non una rocca qualunque delle migliaia sparse sullo stivale, se è vero che Federico II la scelse come una delle sue sedi imperiali. La rocca venne costruita nel VII secolo d.C. dal capostipite della famiglia Ricasoli-Firidolfi, tale Geremia. Della rocca oggi resta solo il ricordo, dato che nel 1570 Carlo V, l’uomo sul cui regno non tramontava mai il sole, vi fece calare la notte sopra riducendola ad un magazzino di prodotti edilizi.

Il terreno nei pressi della rocca però esiste, ed è un gran bel terreno, lo si apprezza nelle foto del sito aziendale: di origine calcarea, a medio impasto e con discreta presenza di scheletro. I 20 ettari di vigneto sono distribuiti tra i 340 e i 510 m s.l.m., con esposizione prevalentemente sud-orientale.

 


L’annata 2015 del Geremia è per l’85% Merlot e per il restante 15% da Cabernet Sauvignon, vendemmiati e fermentati separatamente a circa una settimana l’uno dall’altro. Dopo le fermentazioni la massa viene riunita e messa in affinamento per 24 mesi in barrique (70% della massa) e tonneaux (30%), entrambi di rovere di Allier di primo, secondo, terzo e quarto passaggio. Infine avviene l’imbottigliamento del vino senza filtrazione, cui fa seguito un’altra sosta nelle cantine aziendali per altri 15 mesi.

Scendendo nel calice il vino trasmette una sensazione di seria corposità, e il suo colore è un compatto rosso rubino.

Naso potente, ricchissimo ma non confusionario, molto elegante. La balsamicità è la prima sensazione a colpire, seguita da una notevole speziatura dolce (di cannella e noce moscata) e tanta frutta scura matura ma non ancora in confettura (prugne, more ed amarene). Si fanno notare ulteriori profumi di noce po’ di cocco e vaniglia, di pepe verde, un lievissimo humus e sul finale dell’olfazione emergono del tabacco dolce e cuoio.

In bocca il vino è una bellezza: il sorso è ampio, di gusto intenso, corposo ma non pesante, un tannino carezzevole, una bella spina dorsale e persistenza aromatica decisamente lunga. Un vino molto, molto godibile e dalla beva per nulla impegnativa: la bottiglia è finita in un colpo di tosse (non la migliore delle similitudini, dati i tempi).

 

Franz Haas – Vigneti delle Dolomiti Pinot Nero Rosé IGT 2018

 

Io, generalmente, i consigli degli altri li ascolto con riserva. La maggior parte delle volte è perché chi ti dà un consiglio lo fa distrattamente. Ti dice la prima cosa che gli passa in testa in quel momento, poi adiòs, affari tuoi. Però ci sono persone di cui mi fido, e i loro consigli li accolgo senza domandare i documenti.

Una di queste è la mia docente, Sara Tosti. Le chiedo: “Sara, avrei voglia di rosati”. Lei: “Say no more”. Vado da Marco Bonelli, gentilissimo titolare della Vineria Bonelli (via delle Cave, Roma; passateci, vale la sosta), e le bottiglie sono lì. Fiducioso pago, prendo e porto a casa. Ed eccoci a tu per tu con il Rosè di Franz Haas.

Franz Haas è una delle aziende a tenuta familiare storiche dell’Alto Adige. I 55 ettari aziendali sono dislocati in mezzo alle dolomiti, tra i 250 e i 1150 metri d’altezza. A noi interessano gli ettari dove si coltiva il pinot nero adibito alla rosificazione (roba mia, lasciate fare), che guardano la vallata dall’alto di 750 metri d’altezza. I terreni delle dolomiti sono di origine erosiva: sabbia di porfidi, calcare, un po’ di argilla dove capita. Le uve vengono raccolte, pressate e il mosto fermenta in acciaio. Dato che in acciaio ci si trova bene, il vino ci passa altri 6 mesi, a contatto con i lieviti e svolgendo pure la malolattica, tiè! Poi imbottigliamento, chiusura con tappo a vite (un encomio a Franz Haas) e via per il globo terracqueo.

 


La vulgata popolare vuole i rosati come vini immediati, dell’ultima vendemmia, massimo della penultima. Questo Rosè ha invece ben tre anni sul groppone. Secondo molti sarebbe incanutito, buono giusto per sfumarci l’arista al tegame. E però è strano: se al corrispettivo Pinot Nero vinificato in rosso pronosticate decenni di vita, perché non concedere almeno un lustro al Rosé?

Nel calice si nota il passaggio degli anni, perché da un iniziale rosa cerasuolo si migra all’attuale colore ramato, un ramato brillante.

Pure il naso resta sulle sue per i primi minuti, con lievi sentori fungini e gommosi. Poi il vino respira e salgono i veri profumi del vino, che si districano tra la pietra calcarea e frutti di bosco maturi (fragoline e lamponi), il pepe rosa, il timo e la mandorla tostata, con uno sfumato sottofondo di cerino spento (l’accezione ‘sfumato’ calza a pennello).

La bocca è ancora fresca ma il sorso è dominato dalla sapidità, sensazione che fa da scorta fino alla fine. E la fine arriva dopo molti secondi, portando con sé una residua morbidezza al palato e in chiusura una sensazione ammandorlata ed amaricante. Un rosato che reclama attenzione, che si impone al palato, che ha anche una discreta capacità di invecchiamento. Non li sottovalutate mai, i vini e, soprattutto, i vini rosati.

 

 

 

Produttori del Barbaresco – Barbaresco DOCG 2017

 

Il Barbaresco, uno dei capolavori enologici italiani. Un nome sontuoso, imponente, da condottiero germanico. Tre i comuni in cui è lecito battezzare Barbaresco il vino che vi si produce: Barbaresco, Neive e Treiso, più San Rocco Seno d’Elvio, frazione di Alba. Ha un vicino imponente, il Barolo, praticamente il fratello maggiore che spopola tra le donzelle su cui vorrebbe far colpo nostro Barbie; chiariamo però che si tratta di due fratelli categorizzabili come “bòno” e “bòno assai”, praticamente Liam e Chris Hemsworth: comunque si caschi, si casca gran bene. Terreno di origine Tortoniana, marne di Sant’Agata e parecchia arenaria a rendere il Barbaresco tendenzialmente più ‘facile’ e ‘di pronta beva’ rispetto al Barolo; ma tarate il tutto sulle caratteristiche dell’uva nebbiolo, che di facile non ha mai avuto nulla nella storia.

Per il Barbaresco dobbiamo giungere le mani e fare un inchino al cospetto di un uomo: tal Domizio Cavazza. Questo signore, dalla magnetica allitterazione anagrafica, era certo che in quel territorio potesse venire su un vino paragonabile al già blasonato Barolo (l’avete già pensata “il re dei vini, il vino dei re”?). 

L’uomo non era un langhetto DOC bensì un autoctono modenese, che decise di dedicare la sua vita al vino (mentre io ho scelto chimica… poche volte tutto è chiaro dall’inizio). Dopo gli studi in Francia portò i suoi talenti ad Alba e nel 1881 fondò la Regia Scuola Enologica. A 26 anni; e no, non mi presterò al giochetto “cosa facevi tu a 26 anni?”, voglio conservare una briciola di autostima. 

Dopo dieci anni affidò la Scuola Enologica di Alba ad altre mani, lasciando la teoria per la pratica. Nel 1894 due eventi: il Cavazza acquistò il castello di Barbaresco, con l’obiettivo di mettere le ampie cantine a disposizione della Cantina Sociale di Barbaresco, fondata proprio nel 1894: il secondo evento. 

Successe che i produttori del Barolo si opposero all’’allargamento dei confini’ fino ad est di Alba, la zona attuale del Barbaresco. Immagino che qualche barolista, alle recriminazioni, se ne sia uscito con “se a Barbaresco vogliono fare del vino, fondino una cantina sociale, vinifichino le uve e vediamo quante bottiglie vendono”. Allora il nostro Domizio riunì nove soci viticoltori, con l’obiettivo di produrre vini “di lusso e da pasto” a base di uva nebbiolo locale. Il Barbaresco nasceva ufficialmente e già da subito veniva considerato come vino “di lusso”, da non ritenere secondo al Barolo (in seguito un certo Gaja amplierà il concetto).

Purtroppo tutto ciò che nasce alla fine muore (e daje a ride…): nel 1913 Domizio Cavazza lascia l’esistenza terrena; nel 1920 tocca invece alla Cantina Sociale chiudere i battenti. Ma il seme era ormai piantato e non poteva essere più estirpato: dopo la devastazione della Seconda Guerra Mondiale l’eredità della Cantina Sociale venne ufficialmente raccolta dalla cooperativa Produttori del Barbaresco.

Nata nel 1958 per volontà di Don Fiorino Marengo, che non era un boss di una delle cinque famiglie newyorkesi, ma il parroco di Barbaresco. Don Fiorino radunò 19 viticoltori e fondò la cooperativa “per la qualifica e garanzia del Barbaresco”. Giunta ai giorni nostri, la cooperativa oggi conta su 50 soci per 110 ettari vitati a nebbiolo e circa 500000 bottiglie annue.

 


Passiamo dal generale al particulare, esaminando il Barbaresco 2017 che, guarda caso, è finito nel mio calice. E nel calice il colore è uno scintillante rosso rubino, con una minima concessione al granato appena sul bordo del liquido.

Naso d'impatto, prevalentemente terroso e speziato, su toni cupi, la frutta esce solo dopo qualche momento. Sottobosco, ruggine, chiodo di garofano e noce moscata dettano i tempi. Seguono prugne mature, amarene sotto spirito e mirtilli, violetta, sigaro e cuoio. E se già ora il profumo è di tutto rispetto, immagino cosa possa essere dopo alcuni anni di paziente e fedele attesa.

Bocca leggiadra e di carattere, che non fa mancare la dose di freschezza e tannino auspicata. Dopo le sensazioni iniziali emerge grande ricchezza di sapore, che resiste piacevolmente in bocca per molti secondi. Magari facessero tutte dei vini così le cooperative vinicole…

Antonio Camillo – Toscana IGT Ciliegiolo 2019

 

Il Ciliegiolo di Antonio Camillo comincia ad essere un must per chi si avventuri tra i vini maremmani. Quella zona è perfettamente a metà tra Mar Tirreno e Lago di Bolsena, con suoli che degradano dal vulcanico al sabbioso, all’argilloso. Sono zone in cui il turista ci arriva se ci parte da casa, o se si è perso e ne ha avuto piacere; non è mainstream, non campano solo di turismo, insomma non è il Chianti.

Pur non essendo annoverata nei registri nobiliari del vino italiano, la zona ben si presta a regalare alcoliche bevande tratte dalla fermentazione del succo d’uva. Antonio Camillo ci si è messo di buzzo buono a cercare e recuperare vecchie vigne, magari abbandonate, per vinificare quello che già era piantato lì. Non fantasticava di tagli bordolesi, legittimi tra l’altro (se uno vuole vinificare merlot, perché dovrebbe essere criticato); il concetto di Antonio Camillo era “qui da sempre coltivano ciliegiolo, sull’altro terreno sangiovese, dall’altra parte il procanico. Le uve sono legate al loro territorio, quindi devo rispettarle per avere il miglior vino possibile, che sia anch’esso legato al territorio”. Non a caso ‘Vini di territorio’ è, diciamo, il motto aziendale, anche se definirlo ‘motto’ è assai riduttivo. Il rispetto del territorio fa sì che anche un’uva più modesta come il ciliegiolo possa dare vini con un qualcosa di non banale, di stimolante.

 


Il Ciliegiolo di Camillo nasce da viti di una quarantina di anni di età, che vedono la luce fra i 200 e i 400 metri s.l.m. tra i comuni di Manciano e Capalbio, su terreni prevalentemente argillosi e ricchi di scheletro. Dopo la vendemmia il mosto fermenta in acciaio a contatto con le bucce per un paio di settimane, quindi il vino viene spedito a farsi le ossa per 6 mesi in alloggi di cemento. Altri 3 mesi di riposo in bottiglia e poi si va in giro per enoteche.

Il vino è di uno splendido rosso rubino, molto carico, trasparente. Profumo per nulla banale, piacevolmente sfaccettato, dove la prevedibile marasca è accompagnata da profumi vegetali di sottobosco e foglie bagnate, di liquirizia, pepe rosa e una leggera sfumatura di mentuccia.

Il sorso è succoso e sapido, con un tannino impercettibile. Il sapore è intenso e resta a lungo in bocca, con richiami finali di pepe e marasca. Grande bevibilità, un vino passepartout da tenere sempre caro in cantina.