Alberto Quacquarini – Vernaccia di Serrapetrona DOCG

Nel gergo della NBA si definisce ‘Underdog’ il giocatore o la squadra che non gode della copertura mediatica che, per i valori mostrati sul campo, meriterebbe. Si potrebbe semplicemente tradurre in italiano con ‘sottovalutato’, ma il concetto del basket americano è più calzante perchè spesso capita che gli underdog si facciano notare con clamore, arrivando anche a vincere il titolo NBA (Dallas Mavericks 2011, Detroit Pistons 2004). 
Il parallelo con la Vernaccia di Serrapetrona DOCG è centrato: un paesello in provincia di Macerata di 1000 abitanti scarsi, una settantina di ettari vitati, pochissimi viticoltori; non esattamente le premesse per emergere nel panorama enologico italiano. Eppure questo è un vino che una volta provato non si può più dimenticare. È uno spumante unico nel suo genere, non in Italia ma nel mondo. Il metodo di produzione sembra ideato più da gente che abbia perso una scommessa che da prudenti enologi: minimo 85% di uve Vernaccia Nera provenienti dal territorio attorno a Serrapetrona [e va bene]; di queste uve al massimo il 60% può essere vinificato tradizionalmente [e ok] e minimo il 40% (e solo di uveVernaccia Nera) deve essere lasciato appassire e vinificato separatamente [ah!]. Il mosto di uve appassite può fermentare separatamente oppure essere unito al vino nuovo, in sostanza avviene una seconda fermentazione. E le bollicine? Avanti con la terza fermentazione, solitamente Metodo Martinotti-Charmat, per valorizzare i dolci profumi della Vernaccia Nera. Insomma, ci troviamo di fronte ad uno spumante magnifico, ancora ignorato dalla maggior parte dei consumatori ma di assoluto valore.


La Vernaccia di Serrapetrona di Alberto Quacquarini, come riportato in retroetichetta, prevede l’appassimento del 60% delle uve, quindi la loro pigiatura e la fermentazione del mosto nel vino nuovo. Infine la terza fermentazione avviene in autoclave, un Martinotti-Charmat lungo. Di un rosso granato molto compatto, la prima sensazione olfattiva, immediatamente dopo la stappatura, è di salamoia. Ok, non il più invitante dei profumi, ma date al vino un minuto. Un po’ di ossigeno contribuisce al rilascio di tutta la complessità olfattiva che un vino del genere può dare: profonde note di frutta rossa matura, prugne e more, quasi frutta candita; profumo di qualsiasi tipologia di spezia (pepe nero? Ce n’è. Noce moscata? Certo che sì. Cannella, cumino, chiodi di garofano, anice stellato? Chiari e limpidi); anche profumi più cupi, tipici di uve rosse appassite, come pelle conciata, tabacco da pipa. Un naso davvero profondo. E il gusto non è da meno, con un ingresso fresco moderatamente pungente, con una dote minima di tannino, pienamente bilanciata da un residuo zuccherino che strizza l’occhio all’amabile. Persistenza assai duratura.
Un vino che tutti almeno una volta nella vita dovrebbero bere, quantomeno per cultura personale. Che poi una volta sola non basti, quello è un altro discorso.

Degustazione Fattoria di Fèlsina / Palazzo Prossedi, Hotel Villa Mercede, Frascati (17/10/2019)

Cosa accomuna una storica cantina del Chiantigiano ed una di recente istituzione posizionata all’estremità meridionale dei Monti Lepini? In linea teorica nulla, i più arditi potrebbero ipotizzare il Sangiovese. Sì, ma c’è dell’altro. Un cognome soprattutto: Mazzocolin. Giuseppe è il nume tutelare di Fattoria di Fèlsina; sua figlia Caterina è dal 2017 consulente di Arianna De Rosa, la proprietaria di Palazzo Prossedi. In occasione della serata, organizzata dalla Fondazione Italiana Sommelier Lazio Est e presentata da Elvia Gregorace e dal presidente di sezione Alessandro Tozzi, è stata ripercorsa la storia di queste due cantine.
Storia particolare quella di Palazzo Prossedi (sito: palazzoprossedi.it). Arianna De Rosa non nasce viticoltrice. Lo diventa a tempo pieno nel 1998, quando prende in custodia le viti del nonno e sceglie di affinare in modo ‘moderno’ il vino e di imbottigliarlo. L’azienda piano piano cresce, non senza difficoltà. Alcune sono facilmente intuibili: la valle dell’Amaseno e i Monti Lepini non sono zone famose per il vino di qualità. Da quelle parti si vive una vita dura, fatta di allevamento ed agricoltura, dove la viticoltura è prevalentemente ad uso domestico e a farla da padrone è l’ulivo. Doveste mai fare una lista delle zone più ricche o prosperose d’Italia, la valle dell’Amaseno non rientrerebbe mai tra le prime 200. Emergere in un contesto simile è quindi già cosa dura. Metteteci anche che Arianna è una donna, un’evenienza che nel XXI secolo sembra ancora, vergognosamente, un problema per qualcuno. Questi ’qualcuno’ che, periodicamente e per dispetto, danneggiavano le sue viti, con grande danno economico arrecato ad un’azienda neonata. Mi ha colpito il viso di Arianna nel racconto di queste cattiverie: un sorriso costante. A dire “sì ma alla fine chi se ne frega, io sono andata avanti lo stesso”. Ad avere la metà del suo carattere… Caterina Mazzocolin capita in quelle zone pochi anni fa. Conosce Arianna, gira per le vigne, con l’enologo Dario Puccini assaggiano tutti i vini prodotti e scatta in lei una scintilla. “This is the place” disse Brigham Young arrivato nello Utah; più o meno la stessa cosa deve aver pensato Caterina, da come parla di questa sfida. Perché mettere Prossedi sulla mappa del vino non può essere nient’altro che una bella sfida.
Ma capacità e caparbietà devono essere doti di famiglia per i Mazzocolin. Ne è prova il successivo racconto di Giuseppe Mazzocolin. Andatura compassata, occhi azzurri, sottili e sereni, quando comincia a parlare Giuseppe è vulcanico, letteralmente. Uomo di profonda cultura e di visioni ampie e appassionate. Il racconto ha solo sfiorato i vini di Fèlsina; a Giuseppe premeva più raccontare l’importanza del comparto olivicolo per l’economia italiana, la necessità di piena consapevolezza dei nostri punti di forza agricoli da parte di tutti noi, il tornare a vivere la campagna, la previsione della futura risalita del Lazio ai vertici dell’enologia italiana (e volesse iddio!), l’importanza della valorizzazione e dell’espressione del territorio, che si parli di vino o di olio. È stata l’eruzione del St. Helens: una nube piroclastica di racconti, impressioni e speranze per il futuro di questo stivaletto pazzariello che popoliamo.
Dopo il risalto dato agli oli, naturale che la degustazione partisse proprio dall’assaggio delle 4 cultivar di Fattoria di Fèlsina (Pendolino, Leccino, Moraiolo e Raggiolo). Ora, io mi arrangio anche a parlare di vino, ma di olio non ho assolutamente titolo per dire alcunchè. Dunque bypasserò trotterellando questo argomento, mi perdonerete.
Vino, dunque. 
La degustazione comincia con i vini di Palazzo Prossedi, tutti Lazio IGT. Calcio d’inizio a carico dell’Altaica 2018, un bianco da uve Drupeggio o Canaiolo Bianco. E già la scelta di quest’uva dà modo di pensare: il Canaiolo Bianco è una varietà quasi scomparsa. Arianna lo ha ritrovato nella vecchia vigna del nonno, piantata nel 1950 assieme ad altri vitigni, ed ha deciso di vendemmiarlo per bene. Il vino risultante è un bianco importante, con un naso ben complesso, che regala note di tiglio, di miele d’acacia, di artemisia e una decisa mineralità iodata, con una leggera nota boisè a corredo, non imputabile all’uso di legno dato che l’Altaica fa solo acciaio e vetro. Una lunga persistenza in bocca e una discreta sapidità.
A seguire il Nero della Corte 2015, 100% Barbera. Naso di spezie, china, humus, che si apre poi su frutta rossa (amarene e tamarindo), sullo sfondo una leggera nota mentolata. Una bocca ovviamente fresca, una freschezza che rimanda all’arancia sanguinella, con tannino equilibrato.
Lo Sterparo 2013 è composto da 40% Sangiovese, 40% Barbera e 20% Merlot, il vecchio vigneto del nonno di Arianna. Il naso di questo vino, il quale sosta un paio di anni in barrique di primo e secondo passaggio, è oggi evoluto, si apprezzano tutte le note di terziarizzazione: cenere, incenso, cuoio, scatola di sigari, pepe bianco, noce moscata e chiodi di garofano. Ancora si percepisce una bella balsamicità. In bocca il palato viene dolcemente accarezzato dal vino, e questo nonostante il tannino ancora vibrante. Molto persistente, chiude su aroma di cacao e liquirizia.
Chiude Palazzo Prossedi con il Colle della Corte 2009, blend di 35% Montepulciano, 35% Merlot e 30% Barbera. Sfortuna ha voluto che il mio fosse l’ultimo calice della bottiglia, per cui assieme al vino mi è arrivata una gustosa ‘manicciata’ (termine tecnico) di tannini polimerizzati. Ma riconosco che ci sono sempre guai peggiori. Il naso è di terra bagnata e frutta rossa in confettura, noce moscata, un leggero chiodo di garofano e cuoio. Bocca ancora fresca e tannica nonostante i 10 anni di età, molto morbida e ricca di sapore.
Per quanto riguarda Fèlsina, sono state proposte due micro-verticali di due vini, entrambi Toscana IGT. Annate: 2016-2011; vini: Maestro Raro e Fontalloro.
Il Maestro Raro è Cabernet Sauvignon in purezza, l’impianto è del 1984. La 2016 è ancora giovincella, lo testimonia il naso di frutta rossa croccante, con la nota vegetale del Cabernet presente ma moderata, come moderata è la sensazione di créme de cassis (confesso: mai assaggiata! In questo caso relata refero), mentre si percepiscono bene cenni di legno e di spezie. La bocca è fresca e tannica, equilibrata nonostante la gioventù. La 2011 invece porta con sé un profumo più minerale, terragno e soffuso. L’ematicità si sente bene, il vegetale è notevolmente affievolito, emergono note di pepe e di frutta matura. L’ingresso in bocca è molto delicato ma si lasciano apprezzare ancora le durezze, segno che il vino ancora può ben maturare.
Il Fontalloro invece è un monumento del vino italiano, un 100% Sangiovese meraviglioso. Uno dei primi Supertuscan, nato dalla fiducia riposta nel Sangiovese e nel rifiuto di seguire il disciplinare del Chianti Classico dell’epoca, che costringeva a mitigare il Sangiovese con saldi di Canaiolo, Colorino, Malvasia Bianca Lunga ed in seguito di Trebbiano. Oggi sappiamo che l’azzardo di ‘declassarsi’ ad IGT ha pagato i dividendi più alti in Toscana, regalandoci tra gli altri questo vino sontuoso. 
L’annata 2016 regala un naso ampio. Ma ampio davvero. C’è la rosa, il cumino, la terra umida, i frutti a bacca rossa, l’arancia rossa, le spezie scure, la nota ematica… c’è tutto! Bocca equilibratissima, tannino abbondante ma la freschezza del vino lo bilancia egregiamente. La persistenza è lunga e tenue. L’annata 2011 ha un profumo ancora molto intenso, dove cominciano ad apprezzarsi fra le altre note evolutive di pelle conciata, di frutta matura, tabacco, spezie dolci e concentrato di pomodoro. In bocca è vivissimo, è fresco e ancora piuttosto tannico, un manto di velluto. Sono assolutamente innamorato del Fontalloro.

Oddero – Langhe Nebbiolo DOC 2017

E alla fine giunse il momento di aprire anche l’ultima bottiglia riportata dal Piemonte un mese fa. E che bottiglia: Langhe Nebbiolo DOC di Oddero. Gli esperti già conoscono Oddero ed i suoi Barolo (10 Menzioni Geografiche Aggiuntive. O ‘cru’ se vogliamo essere più prosaici), per i meno avvezzi dico solo che è un’azienda fondamentale per il vino langarolo, con sede a La Morra (CN). Non voglio addentrarmi troppo nella descrizione dell’azienda, sarebbe solo un riassunto di ciò che già si trova in rete. Qualora riuscissi mai ad andare, sarò ben felice di parlarvene (si accettano donazioni a scopo viaggio per cantine. Solo per motivi divulgativi e di studio, si capisce).
Anche perché basta il Langhe Nebbiolo stesso a descrivere l’azienda: una vino educato, pulito, molto 
buono. Rosso rubino trasparente, con unghia appena granata, ha un naso didattico (come dicono quelli bravi): violetta macerata, sensibile nota ematica, delicato sottobosco con sentori di lamponi e fragole; cenni di cardamomo, china, cuoio e cacao. Il sorso è fresco e asciutto, con un tannino ancora scalpitante ma comunque vellutato. È un vino che, con il giusto piatto, scende giù a vagoni. Ovviamente l’avvertenza è sempre quella di bere responsabilmente, e di non ridursi a parlare in hindi con l’agilità di una caldarrosta solo perché il vino è un immorale seduttore.

Casale Vallechiesa – Frascati Superiore DOCG “Heredio” 2018.

Stavolta ho giocato in casa. Questa volta il rischio è stato pressoché nullo. Sì perché nel tempo ho avuto più volte modo di apprezzare il Frascati Superiore ‘Heredio’ di Casale Vallechiesa, non rimanendone mai deluso.
Il Frascati, nonostante tutto, sarà sempre parte della storia del vino italiano: è compreso tra le prime 4 DOC ufficiali d’Italia, entrate in vigore nel 01/11/1966, assieme a Vernaccia di San Gimignano, Est! Est!! Est!!! di Montefiascone e Ischia (Bianco, Rosso e Superiore). Ancora prima, era talmente amato dai regnanti d’Inghilterra da entrare stabilmente nella loro cantina a partire dal 1923.
Fonte: consorziofrascati.it
“Ma allora perché hai detto ‘nonostante tutto’?” Giusta osservazione, con queste premesse dovrebbe essere annoverato tra i migliori bianchi italiani.
“Sarà mica successo qualcosa di poco edificante?” In realtà sono state varie le cause del declino.
“La smetti di parlare con te stesso? È un artificio retorico vecchissimo. E oltretutto spaventi la gente”. Giusto. La smetto.
I problemi del Frascati sono stati la poca lungimiranza e Roma: negli scorsi secoli la capitale richiedeva fiumi di vino ai comuni limitrofi. Per tale motivo arrivavano quotidianamente botti e botti di vino dei Castelli, tendenzialmente bianco, e di Cesanese da Olevano Romano e comuni limitrofi. Non ci si è mai rivolti ai viticoltori per avere del vino di qualità eccellente, ragion per cui chi vinificava badava alla quantità, alla sostanza, non a ridurre le rese dell’uva per produrre meno ettolitri ma di maggior qualità. Il contadino più produceva e più mangiava, e vagli a dare torto. Negli ultimi decenni, fortunatamente, il gusto si è sempre più evoluto e la ricerca della qualità nel vino è cresciuta di pari passo. Sfortunatamente è qui che si è andata ad incastrare la poca lungimiranza di tanti viticoltori laziali (aiutati anche dal legislatore, con le assurde rese tutt’oggi concesse alle DOC), i quali hanno continuato a pigiare camionate di uva, perdendo però progressivamente il riscontro del mercato nazionale e di quello di Roma, che per il vino di qualità si rivolgeva ad altre regioni. Alle osterie o alle fraschette il vino dei Castelli poteva anche andare bene, ma chi aveva intenzione di bere una bottiglia buona a tutto pensava fuorché a un vino laziale. Oggi molti produttori stanno fortemente puntando sulla qualità del vino, valorizzando finalmente il territorio e le sue uve, però la strada è ancora lunga. Anche solo il numero di  premi destinati dalle guide ai vini laziali, ancora troppo piccolo, ne dà chiara testimonianza.
Questa storiella tanto allegra, che al confronto le Forche Caudine sono state una scaramuccia tra bimbi, non vuole e non deve essere vista come la morte del vino laziale. Al contrario, solo avendo ben chiari gli errori del passato si puó andare avanti, consapevoli della potenza della nostra regione. Voglio ripeterlo: nel Lazio moltissimi produttori lavorano bene e producono vini ottimi, meritevoli di maggiore considerazione nazionale. Tra questi figura senz’altro Casale Vallechiesa, storica azienda di Frascati. Il territorio, ormai lo sapete, è vulcanicissimo; il che si traduce in una mineralità indiscussa protagonista del vino in questione. La bravura sta nel non mandare sprecato questo ben di Dio di terreno, e quelli di Casale Vallechiesa sono bravi. L’’Heredio’ (70% Malvasia Puntinata, 15% Greco, 15% Bombino) al naso rimanda a netti sentori di pietra focaia, corredati da intensi sentori floreali e fruttati, di tiglio e gelsomino, di pesca matura e pera. Si affacciano anche timo, maggiorana, una punta di cannella e fieno. In bocca, dopo l’elegante impatto iniziale, insiste la nota sapida. Persistenza assai duratura e dalla nota ammandorlata caratteristica della Malvasia. Un vino eccellente.

P.S.: per fare la figura degli intellettuali a cena con gli amici, potete dire che l’heredium è un’antica misura romana che corrispondeva a due iugeri. E che sono due iugeri? Mezzo ettaro. E un heredium spettava per diritto ad ogni colono romano, leggenda vuole che la tradizione sia cominciata con Romolo, che donò un heredium a ciascuno dei suoi compagni di avventura.
Se invece questa storia vi annoia dite che “heredium” è il comando che Albus Silente pronuncia per chiudere contemporaneamente tutte le finestre di Hogwarts quando fanno la disinfestazione delle zanzare.

Degustazione Nals Margreid, Hotel Rome Cavalieri, Roma (07/10/2019)


Peccato delittuoso è mancare a una degustazione di vini altoatesini. La nomea dei sudtirolesi è nota: gente quadrata, seria, ordinata, che lavora duro e bene. Il quadro che ne esce li vede dipinti come dei freddi robot che non lasciano spazio alle emozioni. Sbagliato, e posso dirlo con cognizione di causa, avendo passato lì un terzo delle mie estati. Gli altoatesini sono gente di cuore, di tecnica, di fatica e di misura. Vi aspettate estroversione? Avete puntato sul cavallo sbagliato. Riporre fiducia in loro è altresì un investimento sicuro. Una testimonianza di ciò, smettendola finalmente con la sociologia spicciola, è proprio il vino. L’Alto Adige esprime una costanza qualitativa da standing ovation, chiunque vinifichi lo fa come Dio comanda. La loro testa gli permette di portare a livelli di eccellenza un modello che nel resto d’Italia è spesso visto in negativo per la qualità del vino: la cantina sociale. In Alto Adige chi conferisce le uve a queste cantine è stimolato a dare loro la migliore uva possibile. Certamente il tornaconto economico ha importanza (in generale l’uva non viene pagata sulla base della quantità ma della qualità, °Babo, ecc.), ma fa gioco anche la soddisfazione di aver lavorato bene e di aver realizzato vini magnifici.
I 138 conferitori che lavorano con la Cantina Nals Margreid sono dislocati su 160 ettari di terreni lungo la direttrice che, seguendo il corso dell’Adige, da Nals/Nalles, proprio sotto le Dolomiti, va fino a Margreid/Magrè, 40 km più a sud. Di ogni singola zona è stata selezionata l’uva ritenuta migliore, quella che avrebbe trasferito meglio di altre il terroir nel bicchiere. Questo grazie all’eccezionale variabilità geologica che caratterizza l’intera area, con terreni morenici e ciottolosi, quarzo, dolomie, tufo, porfido. Come dite? Vi aspettate una decisa mineralità? Ma che idee bislacche vi vengono in mente.
L’azienda e i vini in degustazione sono stati presentati dal direttore commerciale della cantina, Gottfried Pollinger, e gli onori di casa sono stati fatti da Giovanni Lai, sommelier della Fondazione Italiana Sommelier e, a tempo perso, direttore commerciale Italia per Biondi Santi. Di seguito i vini in degustazione, tutti Alto Adige DOC:
1. Alto Adige Pinot Grigio “Punggl” 2018, vigneti in zona Margreid/Magrè. Segno particolare: una mineralità imperante. Mineralità nera, di pietra focaia, che caratterizza un vino dal naso comunque complesso e molto intenso, con sentori di frutta tropicale (mango, papaya e leggero litchi), una balsamicità mentolata e sentori di lievito. Lunga persistenza in bocca, vino più sapido che fresco. Nota a margine: alla fine della degustazione ho rimesso il naso nel calice: dopo un’ora e mezza il profumo era, incredibilmente, ancora tutto lì. Affinamento in botte grande da 50 hl.
2. Alto Adige Pinot Bianco “Sirmian” 2017, 5 Grappoli Bibenda 2019. Rispetto al “Punggl” questo Pinot Bianco è un po’ più timidino olfattivamente parlando. Le note primarie sono di frutta a polpa gialla, di pesca ed ananas soprattutto, poi emergono note di ginestra, di lime, di gesso e una punta di coriandolo. In bocca invece è un po’ più incisivo, dal punto di vista del sapore, rispetto al naso, con un lungo e gradevole ritorno retrolfattivo fruttato. Freschezza e sapidità sono splendidamente in equilibrio con la morbidezza. Anche qui affinamento in botte grande da 50 hl.
3. Alto Adige Chardonnay “Magred” 2018, vigneti che condividono la via di casa con il Pinot Grigio. Naso principalmente minerale, di pietra focaia, che si apre su frutta croccante, pera e pompelmo; sullo sfondo note leggere ma costanti tipiche dello Chardonnay, di nocciola tostata e burro fuso. Bocca gentile, freschezza e sapidità sono mitigate ed in equilibrio fra loro, molto persistente, con un ritorno ‘dolcino’ (non è perfetto come termine, ma è calzante). Botte grande anche per lui.
4. Alto Adige Sauvignon “Stein” 2018, vigneti in zona Nals/Nalles, terreni a 1000 m di altitudine e terreno composto da porfido e calcare. Il naso è molto intenso e ‘didattico’ per un Sauvignon Blanc, con i classici foglia di pomodoro (per i florovivaisti, bosso; per i meno ligi all’etichetta, pipì di gatto), mango, papaya e frutto della passione. Si aggiungono la solita mineralità ed una nota mentolata. La bocca ha un incipit potente, che tuttavia si affievolisce con rapidità (di sicuro rispetto ai tre precedenti) lasciando una nota ammandorlata nel finale e grande sapidità. Acciaio.
5. Alto Adige Gewürztraminer “Leiten” 2018, vigneti nella zona di Tramin/Termeno, più tipico di così. Il naso è molto elegante e, come prevedibile, ricco. Acqua di rose come se piovesse e litchi dominano inizialmente. Sullo sfondo si percepiscono note cenni di grafite, timo e buccia di limone. La bocca è molto intensa, sapida e con un ritorno retrolfattivo che rimanda pienamente al bouquet. Acciaio.
6. Alto Adige Lagrein Rosé 2018, vigneti nella zona di Gries, zona storica per questo vitigno. Di un bel rosa ramato, il naso è minerale e fruttato di fragoline e frutti di bosco, con cenni di humus e cardamomo. In bocca è fresco, sapido, equilibrato e con un finale di liquirizia.
7. Alto Adige Schiava “Galea” 2018, vigneti in zona St. Magdalena. Di un bellissimo e cristallino color rosso rubino nel calice, regala profumi splendidi e freschi, di frutti di bosco e legna e cenere bagnate, di violetta, di sandalo e delicatamente speziato. La bocca è molto speziata e di grande persistenza, con un tannino presente ma soffuso. Vino estremamente fine in ogni aspetto e, per farci dell’altro male, di una bevibilità drammatica.
8. Alto Adige Lagrein “Sand” 2018, vigneti nella zona di Gries. Lagrein color rosso porpora compatto, segno che è ancora un giovincello. Eppure il naso è già complesso e intenso, con note ematiche, appena vinoso, con mora, prugna ed amarena in grande spolvero, uno speziato cupo (noce moscata e cardamomo), con tamarindo e un leggerissimo cuoio. Essendo giovane sarebbe lecito aspettarsi una bocca ancora un po’ scapestrata, invece è molto educato, con freschezza presente ma non eccessiva, dalla lunga persistenza e dal tannino gentile. Anche per questo vino la bevibilità si misura in galloni.
9. Alto Adige Pinot Nero Riserva “Jura” 2016, vigneti in zona Eppan/Appiano. Il rosso rubino comincia qui a volgere delicatamente verso toni granato. Naso affascinante, c’è tutto: fragola e amarena in confettura, sottobosco umido, tabacco, legno, cuoio, cannella, traccia ematica, piccola nota di cocco, cioccolata, vaniglia, noce moscata, etc. L’ingresso in bocca è deciso, connotato da un tannino che, seppure vellutato, ha ancora bisogno di evolvere. La persistenza è molto lunga, con continui richiami di frutta e spezie. Affinamento in barrique.
10. Alto Adige Moscato Giallo Passito “Baronesse” 2017. Spettacolare, punto. Saranno stati i 9 vini precedenti bevuti, sarà la mia predilezione per la categoria, fatto sta che su questo Moscato Giallo passito la razionalità si è seduta ad in un angolo alzando le spalle e sospirando “eh vabbè, bisogna saper perdere”. Splendido giallo oro brillante nel calice, naso meraviglioso: litchi ed albicocca candita, miele e cera d’api, vaniglia e mimosa, balsamicità e ampie note eteree. Bocca assolutamente rotonda, con grande componente glicerica e abbondante residuo zuccherino (180 g/l). Ciò potrebbe portare a pensare che sia un vino stucchevole, se non fosse che la grande morbidezza è equilibrata da un altrettanto grande acidità (9,5 g/l). Queste due componenti, dai valori assai elevati, si equilibrano in maniera perfetta in bocca. La realizzazione del vino prevede un appassimento naturale di 6 mesi delle uve su graticci. Da 1 tonnellata di uva si ricavano soli 150 l di mosto, che con la fermentazione e l’affinamento in acciaio diventeranno questo vino. Un vino stupendo.
 

Vietti – Dolcetto d’Alba DOC “Tre Vigne” 2017

Strana bestiola il Dolcetto. Già il nome ti trae in inganno. Perché tu leggi Dolcetto e pensi a un vino fruttatissimo (e ci sta) e, appunto, dolce o quantomeno amabile. Eh, parliamone. 
Il Dolcetto deve il proprio nome alla scarsa acidità degli acini, che conduce giocoforza ad una più percepibile dolcezza. Questa è la versione più accreditata, l’altra versione è la derivazione dal piemontese ‘dosset’, nome che sta ad indicare i piccoli dossi dove il vitigno prospera felice e spensierato. Affiancato dal Barbera, presenzia quotidianamente sulle tavole dei piemontesi.
Di Vietti non ho il giusto titolo per scriverne, lo hanno già fatto in tantissimi e molto più compitamente di come potrei mai fare io. Didascalicamente (ma come diamine sto scrivendo oggi?), è una delle maggiori case vinicole del Piemonte, collocata dove è nato il Barolo, a Castiglione Falletto, e produce una gamma di Barolo (Brunate, Lazzarito, Ravera) magistrali, che se Dio vuole un giorno riuscirò ad assaggiare. Per adesso accontentiamoci del loro Dolcetto d’Alba.
Nel calice il vino si presenta di un rosso rubino concreto, con qualche residua sfumatura color porpora. Un naso ovviamente molto fruttato ma con ulteriori caratteristiche. Mi ha colpito soprattutto l’eleganza: non c’era nulla di violento, i profumi erano tutti settati sulla stessa intensità. L’inizio è di tanta frutta, fiori e terra secca. Si avvertono prugne mature, amarene, more, bacche di sambuco e glicine. Quindi emergono le spezie, con chiodi di garofano e noce moscata. Notevole la traccia ematica e i sentori di rabarbaro, mirto e sottili cenni di origano e di marzapane. In bocca è pieno, tannico e corposo, richiama il fruttato ma impone una decisa caratterizzazione amara, che alla deglutizione sfuma su sensazioni di cacao amaro. 
Gusto personale: tendo a preferire altri vini dalla componente amara meno pronunciata. Diciamo che col Dolcetto ci chiacchiero pure ma non ci uscirei mai a cena sul serio.
Considerazione oggettiva: questo vino è davvero fatto magistralmente. Stai a vedere che, se tanto mi dà tanto, dovrò accumulare risorse per uno dei Barolo di Vietti…