Ca’ Nova - Colline Novaresi Nebbiolo DOC “Bocciolo” 2018

“Dove eravamo rimasti?” si domandava il buon Enzo Tortora. Latito da troppo tempo, lo so, ma ho la giustificazione professore. Questo breve lasso di tempo ha visto gli italiani giustamente privati di molte libertà, a causa di un virulento e tenace figlio di mignotta. In contemporanea io, con immaginabile euforia, portavo a compimento il trasloco dalla vecchia casa alla nuova. Tutto in scatole, poi in macchina, tanti viaggi, varie scale. Ah, nel frattempo il 18 marzo è nata anche mia figlia. Ed è bella come non avrei mai potuto immaginare. E non voglio dilungarmi scrivendo banalità, solo per far leggere quanto sia emozionato e ricolmo di amore, potete intuirlo da soli. Voglio solo dire che, insomma, sono stato piuttosto indaffarato.
La mia sete però è ben lungi dal placarsi e la voglia di parlare di vino è più forte che mai. Così, spinto da questo motivo molto romantico, ancorché risibile per la mia paziente consorte, ho rimpinguato la cantina con 12 nuove bottiglie (grazie Enoteca Trimani per il 20% di sconto e spedizione gratuita). E il primo vino stappato nella nuova magione è stato il Colline Novaresi Nebbiolo DOC “Bocciolo” 2018 di Ca’ Nova.
Nord del Piemonte, zona (a torto) meno blasonata rispetto alle Langhe. Zona più impervia, di montagna, con una grande variabilità geologica, che va dal granito al porfido alle sabbie vulcaniche, terreni molto acidi e ricchi di ferro. Le escursioni termiche sono notevoli, motivo per cui i Nebbioli dell’alto Piemonte sono così straordinariamente profumati. Sono vini che non accarezzano il palato, anzi vi entrano menando fendenti come uno samurai. Il terreno, la temperatura, sono uve che hanno tribolato. Cosa volete, che passino sulla lingua morbidi come cachemire? Sono come Sonny Liston, loro. Se si muovono vanno giù duri. Ed è magnifico. Perché, esulando dall’ aver incrociato un avversario leggendario (nel caso di Liston, Muhammad Ali; nel caso dei Nebbioli dell’alto Piemonte, Barolo e Barbaresco), ma quanto straordinariamente bello era il corpo di Sonny Liston? Una roccia, eppure finemente modellata, levigata ovunque tranne sulla schiena, segnata dalle frustate ricevute da bambino (nostalgia dello schiavismo forse, certo non da parte sua).



Il Nebbiolo delle Colline Novaresi “Bocciolo” di Ca’ Nova è un vino di pronta beva, piuttosto gentile e beverino, sempre tenendo in mente di che uva si parla. Ma ciò non venga letto come sinonimo di semplicità, di bevuta distratta, di passatempo. Il Nebbiolo non può essere mai un passatempo e questo vino non fa eccezione. Leggero, delicato, nel calice è completamente trasparente, un rosso rubino acceso che si intuisce appena mattonato sul bordo.
Il naso è molto affascinante, altro che semplicità e pronta beva. Si colgono sfumature diversissime, che vanno dai fiori rossi al lampone e al ribes; un leggero sottobosco unito a spezie scure, tra le quali dominano liquirizia e pepe nero. Notevoli cenni di cuoio, accompagnati da tenui sentori di mirto, sfalci, tabacco e da intenso ematico. Un naso complesso e attraente. 
In bocca il vino scorre felice, caratterizzato perlopiù da una freschezza invogliante. Non ha persistenza eterna, né grandissima intensità, e lo trovo un pregio. È un vino quotidiano, non deve catturare tutti i neuroni disponibili, deve essere bevuto, non contemplato. Non vuole imporre la propria presenza, eppure la sua assenza verrebbe notata con malinconia. Avercene di vini ‘semplici’ così.


Nifo Sarrapochiello – Falanghina del Sannio DOC Vendemmia Tardiva “Alenta” 2016

Avrei voluto scrivere un incipit in chiave più bizzarra, eppure non riesco a dribblare l’argomento coronavirus (o Covid-19 per i più tecnici). Dal mio ultimo articolo della scorsa settimana la situazione è degenerata e il virus, a guisa di un Carlo V, volge alla maschia colonizzazione del mondo intero. Purtroppo il periodo di crisi si prospetta ancora duraturo e sta mettendo alla prova le tante generazioni che una crisi vera (come, ad esempio, una guerra mondiale, una dittatura, l’intero Paese in macerie, perfino gli anni di piombo e l’austerity degli anni ’70) non l’hanno mai sperimentata. 
Potrebbe stridere, in uno scenario simile, parlare allegramente di vino o altre amenità, ma in qualche modo bisogna custodire porzioni di normalità. Che poi quanto fa piacere quella carezza che a cena ti dà un bicchiere di vino, alla fine di queste belle giornatelle. Un bicchiere eh, regolatevi. Che se esagerate è un attimo che il vino dalle carezze passa a prendervi a schiaffi andanti e tornanti. Proprio per una di queste sere ho aperto la Falanghina del Sannio Vendemmia Tardiva “Alenta” di Nifo Sarrapochiello.
Molto di rado l’avverbio ‘tardi’ ha connotazione positiva. Il più delle volte viene collegato a comportamenti distratti, o magari pigri, comunque non positivi, non costruttivi. Un esempio? Per il Tokaji dobbiamo dire grazie ai turchi, che decisero di guerreggiare con l’Ungheria proprio un quarto d’ora prima che i contadini vendemmiassero. Quando questi poterono tornare (molto tardi) alle loro vigne, trovarono i grappoli tutti belli avvizziti ed ammuffiti. Quei pochi folli che dissero “vabbè, persa per persa io quest’uva la vinifico” si ritrovarono nelle damigiane un vino spaventosamente buono. Ma nulla era stato previsto, tutto era frutto di una casualità dovuta a un ritardo. Ecco, in qualche caso un qualcosa di negativo si può trasformare in qualcosa di enormemente positivo.


L’intuizione di Lorenzo Nifo di vinificare Falanghina da vendemmia tardiva è decisiva. La Falanghina è accomunabile al Grechetto, al Trebbiano Toscano, cioè ad uve ‘poverelle’, uve che non sparano fuochi d’artificio organolettici. Sono lì, tranquille, connotate da ribalda freschezza e da aromi morigerati. Concedere alla Falanghina quel poco di appassimento dà modo di amplificare tali aromi nel vino. Il risultato è un vino sorprendente e molto complesso, splendidamente dorato e brillante, bello ‘ciccioso’ nel calice (i puristi leggano: ‘molto consistente’).
Il profumo, dicevamo, gli aromi: fragore, crepitio (cosa non si fa per dire ‘esplodono nel bicchiere’). Salgono tutti insieme, rapidi come uno Shinkansen: mimosa, camomilla, zenzero e cedro canditi, kumquat, mango, miele, pietra calcarea, tanti semi di coriandolo, tanto zafferano, leggeri sentori di resina e di gomma. Complesso? Ampio? Esagero io con i descrittori? Non saprei, so solo che ad ogni sorso ho ficcato con piacere il mio importante naso nel calice, ritrovandoli tutti, sempre e comunque.
Sorso come ci si aspetterebbe da un aspetto e un naso del genere: pieno, corposo, morbido, molto intenso e  persistente. Il breve passaggio in barrique aiuta la Falanghina nel raggiungimento di questa complessità senza andare a snaturarla. Eleganza e potenza, un vino sorprendente e che viene via dall’enoteca a 15 €. Applausi.

Damiano Ciolli – Olevano Romano Cesanese DOC “Cirsium” 2016

Settimana interessante quella appena trascorsa. Il Coronavirus ha ufficialmente schierato i carrarmatini per la conquista del mondo; in risposta a ciò le persone hanno reagito con criterio, saccheggiando i supermercati e guardandosi l’un l’altro peggio di prima; la vita sociale globale ha subìto una brusca frenata e gli eventi pubblici vengono volta per volta annullati o rinviati (notizia fresca fresca il rinvio del Vinitaly al 14-17 giugno, invece del 19-22 aprile previsto originariamente). In questo periodo funesto si inserisce il mio conseguimento del diploma di Sommelier, grazie al quale il processo di crescita di lunghe piume variopinte sulla zona sacrale del rachide del sottoscritto ha conosciuto un rapido incremento. 
E dunque, per il primo articolo da esperto qualificato del settore (calma, bimbo) ho deciso di rimanere vicino casa, andando a stappare un vino che è il presente e il futuro del Lazio: il Cirsium di Damiano Ciolli, 100% Cesanese da Olevano Romano. Un vino che negli anni ha visto crescere la propria fama, merito della testardaggine di Damiano e della sua compagna ed enologa Letizia Rocchi. Tutto parte attorno al 2000, quando Damiano comincia a lavorare i 6 ettari di famiglia, vitati prevalentemente a Cesanese. E se bisogna faticare, che almeno ne valga la pena: si punta alla qualità, all’eleganza, alla pienezza del gusto. 
I primi tempi sono difficili: sono in pochi a notare questo giovane produttore laziale, proveniente da una zona vinicola nota (all’epoca) per l’abbondanza dei vini e le loro poche pretese. Poi, piano piano, il nome di Damiano Ciolli si fa largo nel mondo del vino, e via via fa da traino all’areale di Olevano Romano e ad una schiera di viticoltori straordinari.
Oggi il Cirsium è un vino di riferimento, con la 2015 che si può fregiare dell’etichetta “Vino Slow” di Slow Food e dei 5 grappoli di Bibenda, primo Cesanese di Olevano a conquistarli. Uve raccolte manualmente e a perfetta maturazione da 1 ettaro di terreno di origine vulcanica a 500 m s.l.m., piantato tutto a Cesanese di Affile  nel 1953 dal nonno di Damiano, Guido. Poi, come si legge dal sito di Damiano Ciolli: “Le uve vengono fermentate in acciaio a temperatura non superiore a 25 °C per preservare gli aromi caratteristici del Cesanese. La macerazione dura circa 15 giorni. Dopodiché il vino viene travasato in botti di rovere francese, dove riposa sui suoi depositi fini per circa 18 mesi. Nel corso dell’affinamento vengono svolti batonnages regolari. Dopo l’imbottigliamento Cirsium affina nella nostra cantina per almeno 2 anni”. Ed è proprio dalla cantina di Damiano che la scorsa estate ho prelevato questo Cirsium 2016. Era tardi ed avevo poco tempo a disposizione, ciò nonostante Damiano è stato comunque gentilissimo ad aprirmi la porta della cantina e a parlarmi del suo Cesanese per qualche minuto. Presto passerò nuovamente a trovarlo, e stavolta mi tratterrò di più, avviso già da ora.


Vino di un rosso rubino vivo quasi trasparente. A livello olfattivo, il profumo del Cirsium non andrebbe valutato appena versato. Ha bisogno di qualche minuto di ossigeno per riprendersi dal parto, per togliersi il suo soprabito spigoloso. Solo allora riesce letteralmente ad esplodere nel calice tutta la sua gamma di profumi: geranio, more ed amarene, ematicità, humus, pepe, balsamicità, mirto e rabarbaro. Altre note che arricchiscono il tutto sono china, liquirizia ed un sentore di grafite. C’è un unico grande filo conduttore per questo Cesanese: la terra. Ogni singola nota riporta a sensazioni di natura, di macchia, di terra vera e propria. È di una coerenza impressionante.
In bocca il vino cattura immediatamente tutte le papille gustative presenti. Freschezza e tannino sono ancora scalpitanti, un elisir di lunga vita; persistenza notevole e chiusura a ricordare la radice di liquirizia. Il Cirsium è un vino che, credo, il buon Mario Soldati avrebbe definito ‘schietto e sincero’ e di cui avrebbe senz’altro fatto scorta.