Nifo Sarrapochiello – Falanghina del Sannio DOC Vendemmia Tardiva “Alenta” 2016

Avrei voluto scrivere un incipit in chiave più bizzarra, eppure non riesco a dribblare l’argomento coronavirus (o Covid-19 per i più tecnici). Dal mio ultimo articolo della scorsa settimana la situazione è degenerata e il virus, a guisa di un Carlo V, volge alla maschia colonizzazione del mondo intero. Purtroppo il periodo di crisi si prospetta ancora duraturo e sta mettendo alla prova le tante generazioni che una crisi vera (come, ad esempio, una guerra mondiale, una dittatura, l’intero Paese in macerie, perfino gli anni di piombo e l’austerity degli anni ’70) non l’hanno mai sperimentata. 
Potrebbe stridere, in uno scenario simile, parlare allegramente di vino o altre amenità, ma in qualche modo bisogna custodire porzioni di normalità. Che poi quanto fa piacere quella carezza che a cena ti dà un bicchiere di vino, alla fine di queste belle giornatelle. Un bicchiere eh, regolatevi. Che se esagerate è un attimo che il vino dalle carezze passa a prendervi a schiaffi andanti e tornanti. Proprio per una di queste sere ho aperto la Falanghina del Sannio Vendemmia Tardiva “Alenta” di Nifo Sarrapochiello.
Molto di rado l’avverbio ‘tardi’ ha connotazione positiva. Il più delle volte viene collegato a comportamenti distratti, o magari pigri, comunque non positivi, non costruttivi. Un esempio? Per il Tokaji dobbiamo dire grazie ai turchi, che decisero di guerreggiare con l’Ungheria proprio un quarto d’ora prima che i contadini vendemmiassero. Quando questi poterono tornare (molto tardi) alle loro vigne, trovarono i grappoli tutti belli avvizziti ed ammuffiti. Quei pochi folli che dissero “vabbè, persa per persa io quest’uva la vinifico” si ritrovarono nelle damigiane un vino spaventosamente buono. Ma nulla era stato previsto, tutto era frutto di una casualità dovuta a un ritardo. Ecco, in qualche caso un qualcosa di negativo si può trasformare in qualcosa di enormemente positivo.


L’intuizione di Lorenzo Nifo di vinificare Falanghina da vendemmia tardiva è decisiva. La Falanghina è accomunabile al Grechetto, al Trebbiano Toscano, cioè ad uve ‘poverelle’, uve che non sparano fuochi d’artificio organolettici. Sono lì, tranquille, connotate da ribalda freschezza e da aromi morigerati. Concedere alla Falanghina quel poco di appassimento dà modo di amplificare tali aromi nel vino. Il risultato è un vino sorprendente e molto complesso, splendidamente dorato e brillante, bello ‘ciccioso’ nel calice (i puristi leggano: ‘molto consistente’).
Il profumo, dicevamo, gli aromi: fragore, crepitio (cosa non si fa per dire ‘esplodono nel bicchiere’). Salgono tutti insieme, rapidi come uno Shinkansen: mimosa, camomilla, zenzero e cedro canditi, kumquat, mango, miele, pietra calcarea, tanti semi di coriandolo, tanto zafferano, leggeri sentori di resina e di gomma. Complesso? Ampio? Esagero io con i descrittori? Non saprei, so solo che ad ogni sorso ho ficcato con piacere il mio importante naso nel calice, ritrovandoli tutti, sempre e comunque.
Sorso come ci si aspetterebbe da un aspetto e un naso del genere: pieno, corposo, morbido, molto intenso e  persistente. Il breve passaggio in barrique aiuta la Falanghina nel raggiungimento di questa complessità senza andare a snaturarla. Eleganza e potenza, un vino sorprendente e che viene via dall’enoteca a 15 €. Applausi.

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