La Staffa – Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore DOC 2018

Il Verdicchio risente ancora di un drammatico problema: chiamarsi Verdicchio. O meglio: chiamarsi Verdicchio ed essere ancora venduto lire nella bottiglia a forma di anfora. Meglio ancora: chiamarsi Verdicchio, essere ancora venduto nella bottiglia a forma di anfora e a due lire, come a dare l’idea del vinello fresco e con quel pizzico di residuo zuccherino che fa tanto pranzo estivo con tavolo, sedie e tovaglia di plastica, con il classico zio pingue e dai nobili natali che se ne beve due bocce da solo prima ancora di mettersi a tavola e te lo ritrovi due ore dopo, bocca aperta sul prato, con le formiche che gli passeggiano sulla schiena. D’accordo, io ho affrescato l’immagine con colori vivaci, ma il fatto è che il Verdicchio rappresenta ancora questo per l’uomo comune: un vinello leggero e fresco, un’anfora a buon mercato per dare un tocco di charme alla propria sciatteria quotidiana. Sì, sono molto animoso verso l’uomo comune, cui dico una semplice parola, con la voce di Sandro Pertini: vergogna!
Il Verdicchio è molto, molto di più. È un’uva magnifica, probabilmente la migliore uva bianca italiana. Lo so, a fare le classifiche si entra sempre nella tana degli orsi coperti di miele, ma per proprietà, caratteristiche e potenziale evolutivo del vino, il Verdicchio (o Trebbiano di Soave, o Trebbiano di Lugana/Turbiana, o Trebbiano Verde, ecc.) ha regalato e regala vini di particolare complessità e finezza a prescindere dall’area geografica, o dalla tecnica di vinificazione e affinamento adottata. 
E spendiamo una parola anche riguardo la bistrattata bottiglia a forma di anfora: è stata realmente un colpo di genio dell’architetto Antonio Maiocchi nel 1953 per l’azienda Fazi Battaglia. La bottiglia nel tempo è diventata sinonimo di Verdicchio, con tutto ciò che, purtroppo, fa seguito ad un successo commerciale in termini di imitazioni, ma resta comunque da ammirare come esempio del genio creativo italiano nel mondo del design.
Poi però il mondo va avanti e i rompiballe, come il sottoscritto, cominciano a richiedere vini di sempre maggiore complessità, soprattutto data la consapevolezza dell’ingente potenziale di quest’uva. In nostro soccorso arrivano sempre più aziende, e una fra queste è La Staffa.
Con 12 ettari nel territorio di Staffolo (AN) su terreni calcarei con buona quota di argilla, La Staffa viene sorretta dal giovane Riccardo Baldi. Classe 1990, Riccardo ha imposto uno stile aziendale su parametri biologici ed artigianali. Un esempio ne è il Verdicchio Dei Castelli di Jesi Classico Superiore in questione: decantazione statica del mosto, fermentazione spontanea in acciaio e cemento ed affinamento in vasche di cemento per 3 mesi. Una lavorazione del genere permette anche ad un Verdicchio ‘base’ e di pronta beva di esprimersi. Che poi ‘di pronta beva’ è del tutto arbitrario, scordatevi un Verdicchio in cantina per qualche anno e vi ripagherà lautamente. Io invece sono un cattivo investitore ed ho sperperato il patrimonio in un’unica tranche. Ecco come è andata.


Nel calice il vino emette concreti riflessi dorati nel suo giallo paglierino e si nota una bella consistenza, contro il comune pensiero riguardo i bianchi ‘base’ di essere vini leggeri ed evanescenti. Il Verdicchio è concreto e lo dichiara subito. 
Il naso è intenso e principalmente minerale, con una sensazione a metà tra la pietra focaia ed il sale marino. E in effetti, posizionati come sono i terreni della Staffa le viti di Verdicchio, con i piedi nel calcare e la testa accarezzata dalla brezza dell’Adriatico, hanno tutta l’intenzione di restituire queste due caratteristiche a chi ne vuol godere. Al fianco della mineralità fanno capolino la fragranza di lievito, dei sentori di erba tagliata, leggeri origano e salvia, tiglio, lime, pesca e frutto della passione. Non male anche qui, una complessità apprezzabile.
La bocca è anch’essa intensa, è secca, molto fresca ma con sapidità molto percepibile. Morbidezze non se ne avvertono, è un vino proteso verso le durezze, e non potrebbe essere altrimenti, data la natura del Verdicchio e la tecnica di vinificazione adottata. Questo vino vuole essere fresco, vuole far sentire l’acidità residua, ma comunque in maniera fine e non grossolana. Sempre per far notare quando un ‘base’ viene fatto bene. Il finale di bocca è particolare, ossia dopo la deglutizione la bocca resta asciutta, si avvertono lievi toni amaricanti che lasciano subito spazio ad una gran sapidità; infine la sapidità sfuma e dà campo libero al ritorno della salivazione, data dalla bella quota acida, a lasciare in bocca una piacevole sensazione agrumata. 
E bravo Riccardo Baldi. Lui a neanche 30 anni fa vini del genere, io a 35 fatico ancora a togliere la capsula della bottiglia in un unico movimento. Ci vuole tanta pazienza.

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