De verbis vini.

No, non è il titolo di un’opera di Marco Porcio Catone o un’enciclica di papa Pio IX, quanto una mia placida riflessione sulle parole utilizzate per descrivere il vino. Perché sono consapevole che, agli occhi di una persona normale, l’eloquio descrittivo di noi enofili appare piuttosto bizzarro. E, come disse con veemenza Nanni Moretti, le parole sono importanti. Lo spunto è arrivato direttamente dalla mia grande docente del corso Sommelier FIS, Sara Tosti, via Instagram ieri mattina. 
Io non posso fare altro che ringraziarla, perché mi ha regalato un argomento ampio e assai stimolante, che mi consente di riflettere un po’ sulle parole che usiamo per descrivere il vino, sulla loro effettiva capacità comunicativa verso chi non è un appassionato e, come sempre, sul ridicolo in cui scadono alcuni ‘professionisti del settore’ quando commentano vini con parole epiche e credendoci sul serio.

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Cominciamo dunque con il primo dei sensi che entra in gioco davanti a un calice di vino: la vista. In linea di massima qui tutto sembra procedere regolarmente. Il vino può essere descritto come limpido, brillante o torbido; può essere consistente, denso, viscoso (citofonare ‘Sherry Pedro Ximénez’); se ne può descrivere anche il perlage in maniera intuitiva. E, ovviamente, se ne apprezza il colore, che può andare dal bianco carta al rosso mattone. Qui l’unica nota di colore (ah ah…) riguarda i rosati, dove alcuni spaziano anche oltre le eno-sacre scritture, con risultati rivedibili (ramato, buccia di cipolla, salmone, petalo di rosa Tea, tramonto sul Grande Raccordo Anulare uscita aeroporto di Fiumicino, ecc.).

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Proseguiamo con i descrittori olfattivi, la parte che tanto fa ridere grandi e piccini. Premessa: il vino non è mai solo succo d’uva fermentato. Esso suscita sempre sensazioni particolari, che per facilità di comprensione paragoniamo a cose esperibili da tutti. Il profumo di una pesca, di una rosa o di una scatola di sigari è alla portata di tutti, basta annusare; parlare di tali profumi in un vino significa darne un’idea più ‘concreta’ possibile a qualcuno che stia solo ascoltando o leggendo, magari stuzzicandone la fantasia e creandogli delle aspettative. Ne consegue una precisazione doverosa per gli scettici (come sono e fui): le sensazioni odorose che descriviamo esistono realmente nel vino. Non sono frutto di fantasie lisergiche di gente vestita da pinguino con un bersaglio di metallo al collo: la presenza di molecole ‘odorose’ all’interno dei vini è stata accertata tramite gascromatografia (orgoglio da chimico analitico!) ed ogni vino ha i suoi profumi caratteristici. 
Tutto ok quindi? Non proprio. Perché anche nel campo degli enofili, come in qualsiasi altro ambiente (ma tra gli enofili un po’ di più), ci sono i fenomeni. Quelli che non possono descrivere l’odore di un vino attraverso paragoni elementari. No, loro devono esagerare. Non gli basta dire ‘sottobosco’, devono dire ‘fulgida brina primaverile adagiata su equiseti e muschi che si arrampicano strenui fra terrose radici di larice dell’entroterra ligure’. Capite che, sentendo roba simile, nessuno si sognerebbe mai di approfondire il tema. Né tantomeno di berlo quel vino. Lo scopo di chi racconta il vino è di renderlo attraente, di incuriosire anche il meno interessato. Un po’ di teatro ogni tanto ci può stare per dare vivacità al racconto, ma sempre con l’obbligo di non renderlo mai fine a sé stesso o, peggio, grottesco. Se descrivo un vino parlando di un vasetto appena aperto di confettura di more o di pepe macinato di fresco, e motivo l’esistenza di tali sensazioni, sto informando ed incuriosendo chi mi sente/legge. Se cito il macis grattato su una papaya colta dall’albero due giorni prima e immersa nel latte di cocco trasportata a dorso di mulo in salita, sto solo pavoneggiandomi a tal punto da diventare ridicolo. E amen.

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Interessante è anche la descrizione del gusto del vino. Partiamo dal presupposto fondamentale per il vino: deve essere buono. Ci sono sì i gusti personali, ma alla base di tutto deve esserci la piacevolezza, la voglia di berne un altro sorso. Ogni vino ha una propria struttura e caratteristiche che lo rendono unico. L’esame può rivelarne alcune, come la freschezza o la sapidità, la morbidezza o il calore, l’astringenza o la dolcezza. L’esperienza porta alla loro corretta catalogazione (esempio: all’inizio i rossi sembrano tutti tannici. Poi arriva il Sagrantino e mette una bella bandierina a scacchi sul traguardo del termine ‘tannico’). Anche qui i descrittori sono piuttosto pacifici… nel 99% dei casi. Perché il tannino può essere graffiante, ruvido, sabbioso, vellutato, setoso, verde, ecc. Ah, se un vino bianco è molto fresco come lo definireste? Verticale, è ovvio! Io ogni volta che leggo che un vino è verticale, mi immagino che dal liquido nella bocca si materializzi una lancia di cristallo acuminata che mi trafigga il palato. Immagine truculenta, ma è la mia testa. Abbiate pietà.

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Infine la descrizione globale del vino, il momento dove l’estroso può scatenarsi sul serio. Ad un livello normale qui si definisce se il vino sia di corpo medio o pieno, se le sue caratteristiche organolettiche siano in equilibrio fra loro, se sia piacevole e se possa avere buone prospettive di invecchiamento. Poi, quando il demone dell’estro creativo si impossessa dell’enofilo, la situazione trascende. O si è Sandro Sangiorgi, con quella sconfinata cultura e quella magnifica capacità di linguaggio, oppure il famoso uomo della strada di cui sopra volta le spalle e torna a bere il San Crispino in brick. Dire a un neofita che un vino è austero, materico, fiacco, grasso, opulento, senza un adeguata spiegazione a supporto, non lo aiuta a farsi un’idea più precisa del vino in questione e l’esito è solo il suo allontanamento.
Soprattutto, l’antropomorfizzazione del vino è quanto di più rischioso possa esistere. Dare a un vino caratteristiche umane avvicina al fuoco la miccia della boiata. Perché uno poi deve spiegare, e deve anche essere parecchio convincente, perché mai abbia definito un vino triste, struggente (questo mi fa ammazzare dalle risate ogni volta), tenebroso, languido, ribaldo, fiero, bizzoso, tracotante, ecc. Ma cos’è, dannazione, un vino o un cavalier cortese?
 
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I migliori però li ho lasciati per ultimo: vino maschile e vino femminile. La categorizzazione dei gusti secondo sessualità è qualcosa di veramente vecchio e polveroso, ma c’è chi resiste e persiste nell’uso di questi aggettivi. Viene definito maschio un vino deciso, maleducato, che entra senza chiedere permesso e si impossessa del cavo orale, che impone la sua presenza dominando con vigore tutti gli organi di senso. Uno stronzo, in pratica. Viceversa un vino viene definito femmineo quando è leggero, delicato, magari abboccato o amabile, con tanti fiori, tanta frutta, molta morbidezza. Insomma, la bella addormentata. Vi serve anche la mia opinione o basta l’oggettività della cosa a suggerire che, nel 2020, il paragone di natura sessuale faccia parte di un retaggio culturale a dir poco anacronistico? L’italiano ha una quantità immane di aggettivi, utilizziamo quelli più adatti o evocativi, lasciando da una parte quelli palesemente inutili. 

Questo è il mio pensiero sulle parole del vino, buttato giù di getto e di pancia. L’argomento meriterebbe molto più spazio, sarebbe meritorio anche di un libro a sé. Forse un domani mi ci metterò, magari sfruttando l’aiuto di un vino del genere: “un mare di frutto e di polpa profusi con potenza alcolica sontuosamente massiva. Favoloso il suo equilibrio palatale, con la polpa glicerinosa della sua maestosa uva, che morbida ammanta equilibrando la sua poderosa acida spina e il suo tannino pastoso e tramoso. Limpidissima la livrea olfattiva: frutto inossidato e spezie vanigliosamente suadenti di gran pulizia e calibratissima proporzione. Un vino d'insistenza e persistenza balsamicamente cremosa”. [Luca Maroni, Schenk Italia, Amarone 2016]

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