Scala - Cirò Rosso Classico Superiore DOC 2018

Che poi uno non vorrebbe fare classifiche, confronti tra vini di diverse regioni. Che poi però ci caschiamo tutti e, assaggiato un vino, è un attimo a cercare il paragone, la comparazione per valori ‘assoluti’, così da trovare il ‘vincitore’ e l’eventuale distacco dei ‘contendenti’. Ci vorrebbe mezzo secondo a sentenziare che il Cirò è il Barolo/Brunello/Richebourg della Calabria, che il gaglioppo di quella terra è il suo nebbiolo/sangiovese/pinot noir. Ne sarei tentato, quello delle somiglianze è un gioco divertente, ma non è cosa. 

Lasciamo stare i paragoni insensati e prendiamolo da solo: il Cirò è un vino di tutto rispetto, soprattutto se proveniente da gaglioppo in purezza, barattando un po’ di intensità cromatica con anni di vita a schiena dritta. E mai come negli ultimi anni questa DOC si sta facendo largo fra gli scaffali delle enoteche. 

In zona è in corso da ormai una decina di anni la cosiddetta Cirò Revolution: diversi produttori si sono accordati sull’idea di Cirò rosso (e rosato, il vero traino della denominazione), in risposta al nuovo disciplinare che consente tagli anche con merlot e cabernet sauvignon. Uno il dettame principale, come gli dèi del luogo hanno sempre comandato: “per cortesia, usate solo il gaglioppo. Fidatevi che vi conviene. Sì, Sì, il colore scarico e tutto, ma date retta che va bene”.

 


In effetti il Cirò Classico Superiore 2018 di Scala (100% gaglioppo, solo cemento per un paio di anni) è bello scarico al colore, un rosso rubino trasparente bordato di granato. Tempo addietro un colore scarico e una texture trasparente pare non rendessero l’idea di vino di qualità all’omino della strada. Sarà che sono stato ‘battezzato’ in epoca recente, ma a me un colore del genere dice solo “c’ho pochi antociani, che ce posso fa’?”.

E bisogna fidarsi di questo vino debolmente tinto, perché è al naso che i cavalli di quest’uva gaglioppano (questa era davvero tremenda): spezie e frutta, terra e cenere, e tante belle cosine. Tra i mille sentori svettano amarene e chinotto (agrume, non bibita), foglie secche e humus, rabarbaro, cannella e cardamomo, note affumicate e di macchia mediterranea, chiusura di caffè in polvere. Il profumo invita all’annusata reiterata, con qualche sfumatura diversa colta ad ogni respiro.

Per chi fosse intimorito dal colore, per chi avesse avuto paura di trovare nella bordura granata tracce di mortalità, bevesse un sorso di questo Cirò: freschezza, parecchia; tannino, generoso. Il sorso è giovane e vitale (avrei voluto dire ‘imbizzarrito’, ma restavamo su un tema equino già sfidato prima), con una bella intensità e lunga persistenza. Soprattutto, è imbarazzante la facilità con cui questo Cirò si fa bere, anche a discapito dei 14% di alcol. 

Menzione d’onore per l’etichetta retro. Io la trovo bellissima poiché assurda e fuori contesto. La grafica rimanda agli anni ’60, a scatoloni di detersivo in polvere. Mai pensereste sia l’etichetta di un vino. E qui è il bello, la sfida alla logica e alle tradizioni, che vogliono etichette di vino sobrie, con caratteri sottili, con raffigurazioni stilizzate di casali contadini, di filari collinari, di stemmi nobiliari. Che poi, molto francamente, i rimandi all’araldica ci avrebbero anche smerigliato le… sinapsi.

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