Lo scandalo del vino al metanolo – parte I

 

Marzo 1986, Lombardia, un qualsiasi comune della Brianza. Fuori c’è un freddo porco e a sera giusto la minestra messa a tavola può dare conforto a chi vive con poche lire, accompagnata dal vecchio e caro bottiglione di vino. Magari una Barbera di Vincenzo Odore, ditta di Incisa Scapaccino (AT). Due litri in cambio di poche migliaia di lire. Vino dozzinale, che Carlo e Maria (nomi puramente inventati) bevono una sera di quel marzo 1986. La vita è quello che è, il vino nemmeno è buono ma ha l’alcol, che lenisce le pene di chi non sa scuotersi da solo. I bicchieri di Barbera sono due, sono tre, quattro a testa. A letto si va presto, che domani sarà un’altra giornata balorda. Eh, non si ha idea di quanto.

L’indomani Maria si sveglia, apre gli occhi. Non vede niente. Buio. Nero. Ma a Carlo va peggio: gli occhi li ha chiusi e non li aprirà più. Arriva prima l’ambulanza, seguono i carabinieri. Essendo tutto in ordine, zero tracce di violenza, l’indagine principale la si effettua in cucina. Si pensa ad avvelenamento, ma da cosa? Resti di minestra nella pentola, piatti vuoti nel lavello, frigo e dispensa scarsi ma in ordine. Un boccione da due litri quasi vuoto sul tavolo. Immobile, innocuo.

 

Fonte: associazioneacu.org

La scena si replica in altre case, sparse tra Piemonte, Lombardia e Liguria; sulle tavole sempre lo stesso boccione, sempre della stessa ditta. Facile fare 2+2 ed andare a vedere cosa c’è in quelle maledette bottiglie. Si scoprirà qualcosa che va oltre la causa di 23 morti e decine di lesionati in maniera irreversibile. Si scoprirà che avidità e incoscienza vanno di pari passo. E si scoprirà che, contro ogni logica umana, in una bottiglia di vino può starci un terremoto, un tornado, che fa piazza pulita e definisce un punto zero da cui ricominciare. 


Chi è avvezzo già ha capito dalle prime due parole del racconto introduttivo (una parola e un numero) di cosa si sta parlando. Per chi non lo fosse, e nonostante l’aiuto dato dal titolo non ha ancora ben capito, vi metto subito in carreggiata: il racconto di prima non è altro che l’inizio un po’ romanzato del più grande scandalo del vino italiano (forse più di ‘scandalo’ calza meglio il termine ‘tragedia’, date le morti e i danni provocati a persone vere, come me e voi): lo scandalo del vino al metanolo.

 

Fonte: Wikipedia


Collegando i numerosi casi di intossicazione e di morti sospette, avvenute nelle tre regioni nominate in una manciata di giorni di quel marzo 1986, si giunse presto ad individuarne la causa: assunzione di metanolo. Ora, non è che il metanolo lo si compri al supermercato, oppure di straforo dal tabaccaio. E poi per farne cosa, che in cucina non deve entrarci neanche per sbaglio?

Perché il metanolo, enogastronomicamente parlando, è un gran bastardo. È un sottoprodotto naturale della fermentazione del mosto d’uva e in caso di assunzione viene trasformato dagli enzimi digestivi del corpo umano in formaldeide ed acido formico, due molecoline che è preferibile tenere quanto più possibile alla larga dall’organismo, data la loro estrema tossicità. E nel vino noi ce lo troveremo sempre, ma molto al di sotto della soglia letale di assunzione: i limiti sono fissati in circa 0,25 ml per 100 ml di vino rosso e 0,20 ml per 100 ml di vino bianco. La soglia letale è invece individuata tra i 0,3 g e 1 g per kg di peso corporeo: in soldoni, per un ometto di 80 kg basterebbero già 30 ml di metanolo per andare a stringere la mano a San Pietro. Questa è la soglia letale, ma assumendo comunque dosi minori di metanolo i regali che ci si concede vanno dai dolori sparsi ai danni neuronali e renali, alla cecità e infine morte. 

 

Quelle morti nella primavera dell’86 diedero il via ad un terremoto di proporzioni omeriche: sequestri di bottiglie di vino nei supermercati, analisi di laboratorio a campione sui vini di tutta Italia, camion cisterna bloccati e sigillati, ettolitri di vino “ritoccato” riversati nel fiume Tanaro, la Germania che stoppa i tir con i vini italiani alla dogana per giorni, un crollo dell’export del 25% rispetto l’anno precedente. Una reputazione enologica da ricostruire ex novo

Nell’immediato, quegli eventi portarono ad una visita degli inquirenti alla ditta Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino, per chiedere loro da dove fosse nato il visionario progetto di avvelenare buona parte del nord Italia. 

Risposta degli Odore: “ma mica è colpa nostra. Noi il vino lo imbottigliamo solo”.

“E da chi vi rifornite?”

“Dai Ciravegna, a Narzole”.


[continua]

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