Cantina Ribelà. Vini naturali dei Castelli Romani.

Piove. Sono settimane che piove. È sotto questa pioggia che ci ritroviamo domenica 16 novembre con gli amici di Incontri Di Vite (pagina Facebook), ospiti di Chiara Bianchi e Daniele Presutti, i fondatori di Cantina Ribelà. La loro storia è in qualche modo condivisa con molti altri vignaioli di ultima generazione: nessun contatto diretto con la lavorazione della terra, studi universitari ed un impiego cittadino; ad un certo punto scatta la scintilla che innesca l’incendio: si abbandona la città e si ritorna in campagna a vinificare. 


Parlando della vita lasciata alle spalle, Daniele ha lavorato come architetto, mentre Chiara possiede una laurea in filosofia, un diploma da sommelier e dieci anni di esperienza nella ristorazione. Un giorno, forse uno più plumbeo degli altri, decidono di cambiare vita, di ritornare alla natura, di trovare lì le soddisfazioni che la città stenta a dare. Quanti di noi ogni tanto se ne escono con “ora basta, mollo tutto e cambio vita”? Ecco, loro lo hanno fatto. Se ne sono stati un annetto ad Assisi, sul Subasio, a collaborare con un’azienda biodinamica per farsi le ossa. Prendono contatto con la fatica quotidiana della viticoltura (giornate interessanti le potature a gennaio, in mezzo alla neve e al vento gelido). L’impatto è provante, eppure questi due ragazzi ne escono ancora più stimolati a proseguire con questa vita.


Chiara e Daniele vorrebbero stare vicino Roma, così battono palmo a palmo i Castelli Romani in cerca del terreno ideale. Lo trovano: la valletta denominata “Pentima dei frati”, a Monteporzio Catone. I figli del vecchio proprietario non hanno modo di gestirla. Chiara e Daniele nel 2014 rilevano terreno e viti bianche, viti che oggi hanno dai 40 ai 60 anni, impiantano le viti rosse, costruiscono la cantina nel 2017 e la casa nel 2018. Alla cantina servirebbe un nome: scelgono Ribelà. Dal dialetto Monteporziano: ‘Ribelare’ vuol dire ‘ricoprire con la terra le radici della pianta’. Il logo della cantina è una mongolfiera. La spiegazione è molto poetica: la mongolfiera consente di alzarti in volo ma allo stesso tempo non ti permette di fare come vuoi, è il vento che decide dove tu possa andare. Una bella metafora del lavoro dell’uomo nella natura. Tra viti vecchie e nuove, Chiara e Daniele decidono di puntare sulla tradizione locale: Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino, Bellone, Cesanese e Sangiovese. 


La scelta dell’allenamento nell’azienda biodinamica umbra non è stato casuale. Chiara e Daniele danno un senso molto più profondo al loro lavoro: non vogliono soltanto sfruttare la terra ma attuare una sorta di scambio, fare in modo che il guadagno sia bilaterale. A noi il vino, alla terra più vita possibile. È pacifico il rifiuto di qualsiasi composto chimico di sintesi per bombare le piante, anche rame e zolfo sono esclusi o comunque contingentati. Gli unici trattamenti in vigna sono operati con preparati biodinamici, cornosilicio e cornoletame. Per il resto viene data piena fiducia alla terra, questa terra magnifica che il Vulcano Laziale ha messo a disposizione e che non è mai stata pienamente valorizzata. Domanda: “ok voi trattate la terra in biodinamica. E tutti i trattamenti che il vecchio proprietario ha fatto in vigna? Eh? Eh?” Risposta: “innanzitutto calma. E poi, i figli del proprietario hanno reso disponibile il suo diario della vigna. Zero trattamenti. Anche perché accanto alla vigna c’erano l’orto ed alberi da frutto. E lui non voleva rendere immangiabili frutta ed ortaggi”. Quando ogni tanto la casualità dà una bella mano agli audaci. 


La cantina è ordinata e ben pulita, con una vasca in cemento per l’affinamento futuro dei rossi appena arrivata, una botte troncoconica in castagno e tre botti classiche in ciliegio e castagno locale, fabbricate da un bottaio del posto. Completano il parco serbatoi alcuni silos in acciaio e un paio in vetroresina. Ah, dimenticavo il set di damigiane per l’affinamento del rosato. Fermentazioni spontanee, nessuna filtrazione, nessuna chiarifica, solforosa totale attorno ai 20 mg/l. E ciò che ha detto Daniele mi trova pienamente d’accordo: “se fai vini cosiddetti naturali ed escono palesemente difettati, non puoi dire che il vino va bene così che il difetto è un valore aggiunto della naturalità, quindi diventa magicamente un pregio del vino. Hai fatto semplicemente un vino difettato”. Pulizia ed attenzione costante permettono ai vini di Cantina Ribelà di non avere difetti. Il gusto è sempre questione soggettiva, ma di difetti in questi vini non ne troverete.


E visto che stiamo parlando dell’organolettica del vino, parliamo dei quattro vini degustati durante la visita. Lo so, è un compito gravoso, ma non mi sottrarrò.


Lazio IGT Frizzante “Ribolie” 2018. Un rifermentato in bottiglia da uve Malvasia del Lazio, Trebbiano Toscano, Trebbiano Verde, Bombino e Bellone. Il vino è ovviamente torbido per la presenza di lieviti, come indicato anche dal gioco di parole nel nome. Lieviti che si notano anche al naso, creando uno sfondo odoroso su cui si inseriscono cenni notevoli di frutta a polpa gialla in maturazione, come ananas, limone, mela, fiori di acacia, una notevole vena minerale, di pietra focaia. La bocca è cremosa e l’impatto è secco, con la mineralità del suolo che si manifesta nell’incredibile sapidità di questo vino, caratterizzandone la persistenza gusto-olfattiva. 


Lazio IGT “Ribelà Bianco” 2018. Malvasia, Trebbiano e Bombino in parti uguali, senza macerazione sulle bucce, affinamento in acciaio. Giallo dorato nel calice, i primi cenni olfattivi li ho definiti, con grandissima padronanza lessicale, ‘strani’. Vado a spiegarmi (sì, pare facile): solitamente vini provenienti da fermentazioni spontanee danno luogo a  profumi inusuali, più o meno solforati. La cosa può essere dovuta a semplice bisogno d’aria, a solfitazione spinta o a guai capitati in fase di fermentazione. Nel mio caso non si può assolutamente parlare di ‘puzza di vino naturale’; infatti con un minimo di aria fresca il signorino ha cambiato completamente pattern olfattivo, facendo emergere una notevole mimosa, cenni di cera d’api, la solita mineralità nera, pesche e susine gialle, cenni fini di salvia e rosmarino. Il sorso è ben sapido e aromatico, con persistenza sensibile e grande corrispondenza tra naso e aromi di bocca.


Lazio IGT Bianco Macerato “Saittole” 2017. Malvasia 60% e Trebbiano 40%, 3 giorni di macerazione. Signori, che gran vino. Gradevolissimo color ambra nel bicchiere (lo potremo anche definire ‘orange wine’ se fossimo dei gggiovani uòzzamerica yessorrait!), il naso è complesso ed assai attraente: solita pietra focaia, notevoli i profumi di frutta esotica, come mango, papaya e frutto della passione, pompelmo, una lievissima foglia di pomodoro, camomilla e tanta ginestra, miele, addirittura sottili cenni di pepe e terra secca. La bocca è elegantissima, molto aromatica e molto persistente, con una quasi impercettibile trama tannica. Un gran vino veramente.


Lazio IGT “Ribelà Rosso” 2019. Cesanese 80% e Sangiovese 20%, campione di botte.
Un mese e mezzo di età, è ancora un pupetto in fasce. Ed infatti i profumi sono ancora in piena fase evolutiva. Dominano un sentore vinoso e di fermentazione. Ciò nonostante si percepiscono molto chiaramente profumi di ciliegia, di humus, di pepe, di erba tagliata. La bocca è ancora ‘verdina’ ma già si fa notare un’importante persistenza.


Il pensiero finale resta quello che ho avuto modo di dire a Chiara e Daniele (che ancora ringrazio per aver pazientemente sopportato le impressioni non richieste di uno strano tizio barbuto): l’obiettivo principale di un viticoltore dovrebbe essere dare vita ad un vino prima di tutto buono da bere e che riporti nel bicchiere le particolarità di uno specifico terroir. Se il viticoltore ci riesce senza avvelenare il pianeta, non può che essere degno di ulteriore stima. Da chimico sosterrò fino alla morte che non è la chimica ad essere malvagia (anzi, la chimica ha fatto e continuerà a far progredire il mondo. Tutto è chimica, ricordatevelo sempre), malvagi sono gli abusi dei prodotti chimici, soprattutto se inutili, e chi li perpetra. Persone come Chiara e Daniele dimostrano che è possibilissimo produrre vini buoni e sani senza l’ausilio di prodotti chimici di sintesi. Certo, servono capacità, pazienza e anche buona sorte, ma se i risultati sono vini come questi si può essere orgogliosi del proprio lavoro. Anche se Chiara e Daniele non si sentono affatto arrivati, hanno voglia di continuare a sondare le grandi potenzialità di questo terroir magnifico e di affinare ulteriormente la loro tecnica. Chiaro che sarò presente per seguire la loro traiettoria ascendente.

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