Lungarotti – Torgiano Rosso Riserva DOCG “Rubesco Vigna Monticchio” 2011

Arriva sempre il momento in cui gli scrittori incappano in una grande difficoltà. Non parlerei di un ostacolo, piuttosto di un qualcosa che affascina ed emoziona, ma al contempo atterrisce e rende inermi. Si suppone che uno scrittore sappia scrivere bene e di tutto, eppure alcune cose emanano un fascino tanto potente da far vacillare anche il più abile dei parolieri. Cose che si adorano e a cui si puntava da talmente tanto tempo che, una volta raggiunte e vissute, scatenano un turbine vigoroso di sentimenti, tale da non consentire l’elaborazione di pensieri complessi. Il cuore salta un battito, il respiro si fa profondo, un sorriso accennato sulle labbra, negli occhi l’emozione del momento e, immediatamente dopo, un freddo, la sensazione di non saper tradurre in parole tanta emozione senza piombare nella banalità. 
Ecco, questo accade ai veri scrittori. Per me la faccenda è un po’ più complessa. Il vino in questione è leggendario e io, ad oggi, non sono neanche un sommelier (oltre a non essere uno scrittore). Per il senso di umiltà ed inadeguatezza che provo nei confronti di questo vino non sono nemmeno sicuro di voler entrare nei dettagli della sua realizzazione. Sarebbero dati oggettivi, ma c’è comunque il rischio di essere inesatti. Perché il ‘Vigna Monticchio’ merita grande rispetto e precisione, cose che io non credo di poter ancora assicurare. Fortunatamente posso sfruttare (e lo farò) chi è più bravo di me. Molto più bravo di me. Sto parlando di Jacopo Cossater e del suo pezzo pubblicato su Intravino giusto un anno fa. Un racconto completo e un eccellente omaggio a questo vino, la cui lettura varrebbe la pena anche solo per cultura personale. 

Giusto per metterci comunque in carreggiata con la minima e fredda cronaca: il ‘Rubesco Vigna Monticchio’ nasce a “Brufa, frazione di Torgiano che guarda a nord e che fa idealmente da spartiacque tra i territori di Perugia e di Foligno, due vallate che si incontrano proprio alle pendici della sua collina. Un appezzamento piuttosto esteso, di circa 15 ettari, esposto in modo abbastanza omogeneo verso il tramonto e compreso tra i 260 e i 290 metri sul livello del mare. Qui come in molte altre zone della provincia i terreni sono di origine lacustre, con notevole variabilità pedologica: frange argillose si alternano a zone più sabbiose specie nelle parti più basse del vigneto, un versante ricco di elementi calcarei e depositi di limo” [tratto dall’articolo di J. Cossater]. Dopo la vendemmia il mosto di sole uve Sangiovese (una volta era presente anche un saldo di Canaiolo) fermenta in acciaio, con macerazione sulle bucce per 15-20 giorni. Quindi viene trasferito in barrique, dove avviene la conversione malolattica e dove sosta un anno, per poi riposare beatamente alcuni anni in bottiglia prima di uscire sul mercato (l’annata attualmente in commercio è la 2015).

Io ho avuto la fortuna di accaparrarmi questa 2011 un anno fa, a Todi. Poi un anno di conservazione e l’attesa del raggiungimento di un livello maggiore di consapevolezza prima di aprirla. Sì, sono d’accordo con voi: chi non ha questa passione/adorazione/malattia del vino e legge che un cristiano attende un anno prima di aprire una bottiglia, perché deve prima “raggiungere un certo livello di consapevolezza”, non può che esserne turbato. Se non commenta nulla ha già compiuto un atto di misericordia, di cui le divinità terranno buon conto. Ad ogni modo, domenica scorsa l’attesa è finita. Nessun motivo particolare, nessuna celebrazione: semplicemente prendo la bottiglia, la guardo e la apro.
E ci siamo: ho nel calice un monumento della cultura enologica italiana, proveniente da una regione che adoro. L’ho aperto senza uno scopo celebrativo. Devo finire ancora il corso sommelier. Ce la farò a capire cosa ho appena stappato? Mi emozionerà o mi sembrerà semplicemente buono? Non c’è mica la possibilità che ne rimanga deluso, vero? E poi cosa ne scriverò? Hanno scritto miliardi di parole sul ‘Vigna Monticchio’, cosa potrò dire di nuovo? Meglio: cosa potrò dire di nuovo o che non suoni ridicolo? E quante maledette domande voglio ancora farmi? Basta, occhi chiusi e naso nel bicchiere.


Silenzio. È una sensazione ed è di silenzio. Sono due minuti che il vino è nel bicchiere, colorato di rosso rubino intenso appena bordato di granato. Ma c’è gran quiete. Ed ecco i fantasmi, i timori: “ah, tu non hai il naso per questi grandi vini”; “ah, tu non capisci niente”; “ah, lascia questi vini a chi ne capisce” (i fantasmi e i timori cominciano le loro frasi sempre con un solenne “ah”, diciamo come Giampiero Mughini, ma con il tono più alto di un’ottava; per questo sono fastidiosi). Però io ho fiducia e, soprattutto pazienza. E intanto raccolgo i primi sentori: viola, ematicità e sottobosco. Poi l’ossigeno va a svegliare i musicisti, i quali cominciano a suonare: cassis, amarena, una potente balsamicità mentolata, tabacco, cenere, cacao. Passano altri minuti ed è Jimi Hendrix a Monterey: il bouquet è emozionante. Marzapane, incenso, noce moscata, chiodo di garofano, mirto, china, radice di liquirizia, cioccolato fondente, vaniglia. Non è casuale, né tantomeno un atto studiato, che io sia andato più e più volte con il naso nel calice nel corso della serata. E comincio a capire quando un vino lo si definisce emozionante. 
Mancherebbe ancora l’assaggio. E che ve lo dico a fare: pieno, avvolgente, tannico il giusto, estremamente persistente. Anche qui l’effetto benefico della respirazione in vitro dà i suoi frutti, rendendo questo meraviglioso vino ancora più morbido ed elegante, con un finale di bocca che passa dal cacao amaro dei primi istanti al cioccolato fondente. 
L’incoscienza è la stella polare di questo blog. Con incoscienza ho potuto buttare giù in poche ore queste righe, cercando di tramutare in parole le emozioni provate grazie a questo vino magnifico. Spero, per quel minimo che è nelle mie capacità, di avergli reso il giusto merito.

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