La degustazione di Parigi del 1976 (seconda parte)

Dunque, dove eravamo rimasti? Eravamo, anzi siamo  al pomeriggio del 24 maggio 1976, a Parigi. Siamo nell’Intercontinental Hotel ed è in corso la degustazione celebrativa del bicentenario della rivoluzione americana. I nove giudici più Steven Spurrier e Patricia Gastaud-Gallagher sono seduti al tavolo e si vedono finalmente servire i dieci vini bianchi, sei Chardonnay californiani e quattro borgognoni. 

Ecco, questo è il momento esatto in cui l’antico castello, costruito sul dogma dell’irraggiungibilità dei vini francesi, comincia a sgretolarsi. Il paradosso è che, come tutte le sciagure più grandi, avviene in un clima festoso e ridanciano. Perché, come immagino sappiate, i francesi sono dei campioni nel fare, per l’appunto, i francesi. Il caso ha voluto però che in sala fosse presente anche un giornalista americano; e gli americani, se vogliono (e lo vogliono. Oh, se lo vogliono) riescono ad essere più francesi dei francesi. Di conseguenza il buon George Taber, dato lo scarso apporto emozionale che una degustazione di vini fornisce allo spettatore, appunta diligente qualsiasi commento dei giudici, segnando anche il vino destinatario del commento, che hai visto mai che… 

Photo by Bella Spurrier

Difatti i commenti arrivano. Due perle svettano alte: “Questo è sicuramente californiano: non ha naso”, dice un giudice riferendosi a un Batard Montrachet del 1973, un Grand Cru che gli almanacchi localizzano in Borgogna; e il migliore: “Oh, siamo tornati in Francia”, pronunciato con patriottica sicumera; peccato che il vino fosse uno Chardonnay californiano del 1972. Ovviamente, essendo una degustazione alla cieca, i giudici non potevano sapere le cantonate che stavano prendendo (e questo vi sia di lezione: non fate gli smargiassi durante le degustazioni alla cieca). Essi sentenziavano forti del retaggio culturale che i vini migliori non potevano che essere francesi, ma senza alcun dubbio, ma figurati, ma ti pare, oh, sbuff


Finita la batteria dei bianchi fu la volta dei vini rossi. Ma prima di cominciare Steven Spurrier annunciò i risultati della prima degustazione. La media dei voti dei nove giudici (Spurrier e la Gallagher non entrarono nei conteggi) avevano decretato un vincitore: Chateau Montelena 1973. “Mai sentito questo Chateau. Ma di che zona della Borgogna è?”. Napa. California. 

Sì signori, un vino americano aveva messo in fila tre Premier Cru e un Grand Cru di Borgogna.

Fonte: Wikipedia

Time out. A Parigi il clima è infame. Non come quello craxiano di Tangentopoli, ma ci andiamo vicino. Dato che non c’è neanche mezza collina a far da barriera, qualsiasi perturbazione penetra indisturbata. Voi girate per le vie di Parigi con il sole e, ad un tratto, il cielo si copre e butta giù un’acqua torrenziale. Senza preavviso, senza galanteria: apre il rubinetto e ti fa la doccia.

Ecco, il clima in quella sala dell’Intercontinental Hotel, dopo la proclamazione del primo vincitore, me lo immagino così. Cupo. Grigio. La cordialità e l’allegria di prima sono andate scemando. Si poteva captare la slavina che cominciava a scendere giù dal pendio. E forse l’aveva percepita anche Taber. Magari non si intendeva di vini, ma il sottile disagio fra i giudici lo captava bene. Ricorda come questi, durante la batteria dei rossi, fossero assai meno briosi e ben determinati a far sì che questa volta trionfasse un rosso francese. Perché va bene essere amici, fratelli e quant’altro, ma non potevano permettere che gli americani, praticamente inesistenti sulla mappa del vino redatta dai francesi, mettessero in fila vini così blasonati. Non si poteva perdere 2-0 in casa propria, una squadra di all-star contro degli sconosciuti. Un solo problema: anche i dieci vini rossi erano serviti alla cieca; valli a trovare tu i quattro moschettieri francesi lì in mezzo.

Un necessario reminder: tutto questo non era nato come competizione Francia – USA, ma era soltanto una degustazione conoscitiva dei vini californiani, organizzata per festeggiare il bicentenario della rivoluzione americana. 

Un’amichevole stava diventando la finale dei mondiali.

Photo by Bella Spurrier

Fine del time out, i vini rossi vengono serviti, i giudici sono più concentrati e tesi. Sono anche più severi: Odette Kahn giudicò tre vini, che aveva certamente intuito fossero di provenienza oltreoceanica, con un 5 e due 2, cioè poco più che bevibili; l’acqua di risciacquo delle barriques. La Kahn poi, a fine serata, chiederà anche indietro le sue votazioni, che per piacere non venissero considerate, non venendo accontentata: aveva chiaramente visto l’impatto della slavina sul vino francese e mondiale (accezione all’epoca intercambiabile), propagato dalla presenza dell’unico giornalista sulla scena del crimine che, ahiloro, era americano. E che non si era perso un singolo sguardo di quel pomeriggio.


Immagino abbiate già intuito l’esito della degustazione dei vini rossi, ma per completezza ve lo riporto: Stag’s Leap Wine Cellars, from Napa, California, risulta il vincitore lasciando dietro di sé di un nonnulla Château Mouton-Rotschild e più staccati Château Montrose e Château Haut-Brion. Gli americani fanno due su due. Davide ha battuto Golia.

Fonte: Wi.Nes of Nesli

George Taber, il primo ad intuire la portata dell’evento, sfrutta il privilegio di essere l’unico giornalista presente telefonando prima di tutto ai vignaioli vincitori, che come è giusto urlano di gioia per un avvenimento nemmeno vagamente ipotizzabile. In seguito insiste parecchio con il Time per vedersi pubblicato il pezzo: saranno quattro paragrafetti infilati nel numero del 7 giugno. Quattro paragrafi che daranno fiducia ad un esercito di viticoltori da tutto il mondo, che “se ce l’ha fatta un Cabernet californiano, allora posso anche io dire la mia con il mio Cabernet argentino / cileno / australiano/ ecc.”. Infine monetizza il tutto scrivendoci pure un libro (che non ho letto), Judgement of Paris, che funge da soggetto per un film, Bottle Shock (che non ho visto, e che pare romanzi fin troppo questa storia).


E gli altri? Come abbiamo visto, qualcuno dei giudici già intuiva che la portata dell’evento non si sarebbe limitata a “Hai visto ‘sti vini americani? Mannaggia aho… Parliamo di cose serie, dove andiamo a cenare?”. Me li immagino uscire dall’Intercontinental Hotel con il capo, non voglio dire basso, ma comunque con più suolo che cielo negli occhi. 

Quando la notizia si diffuse a molti di loro venne chiesto di rassegnare le dimissioni, in quanto accusati di incompetenza o di aver ridicolizzato la Francia agli occhi del mondo; perfetto è stato Paolo Conte: “e i francesi che s’incazzano / e ancora non ce la perdonano”. Aubert de Villaine disse a Steven Spurrier che il tasting di Parigi fu un “calcio nelle… gonadi della Francia”. Comprensibile ma piuttosto esagerato: dalla degustazione non ne è uscita sconfitta la Francia, quanto piuttosto ha ottenuto pari dignità il resto del mondo. 

Fonte: Wikipedia

Ah già, il buon Steven Spurrier. Che fine ha fatto colui che agli occhi dei francesi ha allestito loro una sfarzosa trappola, dove questi sono entrati danzando a passo di can-can? Diciamo che tra il 1976 e ’77 non ha avuto vita facilissima fra gli addetti ai lavori. Quando era nei paraggi le cantine chiudevano i loro portoni come neanche ai tempi dell’invasione nazista. “No, si deve essere sbagliato, qui nessuno di noi fa vino”. “E le viti piantate qui fuori?”. “Legna per la stufa. Vada via, maledizione!”. Poi gli animi pian piano si calmarono e lui poté crescere e prosperare, fino a diventare uno stimato wine consultant e contributore per Decanter. (*)

Fonte: Esther Mobley, Twitter account

Patricia Gastaud-Gallagher non riuscì a beneficiare della stessa fama, ancora oggi molte volte il suo nome viene omesso quando questa storia viene raccontata. Non ci si scordi che fu lei ad assaggiare per prima quei vini e ad avere l’idea della degustazione commemorativa. L’esito della degustazione la rattristò parecchio, poiché la sua intenzione non era affatto ingannare e mortificare le personalità invitate. Purtroppo non riuscì a prevedere quanto potere potesse avere il quarto potere (chiedo perdono a chi scrive decentemente per le orrende ripetizioni). La Gallagher restò comunque a Parigi, dove tuttora vive, e continuò ad occuparsi di vino, fino a diventare direttrice della sezione dedicata al vino della scuola Le Cordon Bleu.

Fonte: Time Magazine

I giudici, nonostante l’”onta” del loro operato, non patirono tribolazioni. Nessuno si buttò nella Senna con una pièce al collo, nessuno si dimise dalla propria carica per occuparsi di entomologia forense, nessuno espiò la propria colpa masticando ogni giorno 20 chicchi di Tannat. Alla fine le acque si chetarono e la degustazione rimase solo un ricordo spiacevole. Resta il fatto che il loro nome sarà per sempre legato a questo evento: il momento che segnò l’emancipazione del mondo vitivinicolo dalla sottomissione e dalla sudditanza psicologica verso l’enologia francese. Oppure, magari senza epica retorica, il giorno in cui il vino regalò una sorpresa per essere stato giudicato solo in base alle sue qualità.



(*) Siccome un finale comico lo meritavate, dopo tutto questo leggere, eccovelo servito: nel 1988 i francesi premiarono Steven Spurrier. Sì. Le Personalite de l’Annee (Oenology). La motivazione? Pronti? “Per i servigi resi al vino francese”.

Sipario.

1 commento:

  1. che bella lettura e che storia!!!!
    non la conoscevo ma ne avevo intuito il senso....che tra l'altro è quello che dico e insegno anche io...
    saluti

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