Poggio Bbaranèllo – Lazio Bianco Frizzante IGT “507” 2019



Dal vocabolario Treccani, ‘ancestrale’: che appartiene o si riferisce agli antenati, trasmesso dagli antenati; avito, atavico. Dunque, quando attribuiamo a qualcosa l’aggettivo ‘ancestrale’, stiamo legando quella cosa a tradizioni vecchie di secoli e secoli. È più forte di ‘antico’, ha un ché di misterioso ed evocativo, istantaneamente dona un’aura filosofeggiante a chi lo pronuncia (se nella stessa frase riuscite ad utilizzare ‘ancestrale’ e ‘olistico’ siete da campionato mondiale).

Tutto questo preambolo per dire che il vino testé degustato è un metodo ancestrale, la terza via della spumantizzazione. Gli edotti sanno che esistono metodo classico (o champenoise) e metodo Martinotti-Charmat; il metodo ancestrale è cugino del metodo classico, se vogliamo attribuire parentele a casaccio.

Proviamo a spiegarlo a un bambino (che poi però non potrà berlo. Vabbè, giusto un assaggino): l’uva viene vendemmiata, pigiata e fatta fermentare. A un certo punto il cantiniere urla “CAMBIOOO” e ordina l’imbottigliamento del mosto non ancora totalmente fermentato, con i lieviti e tutto il resto. La fermentazione riprende dentro la bottiglia e la CO2 che si forma è forzata a rimanere in compagnia del liquido. Raggiunta una determinata concentrazione la COsmette di starsene sulle sue e comincia a disciogliersi nel vino. Il processo si ferma solo quando tutti gli zuccheri sono stati convertiti in alcol dai lieviti. A questo punto due vie: effettuare la sboccatura o mantenere tutti i lieviti in bottiglia. 

Silvia e Lisa di Poggio Bbaranéllo hanno optato per la prima strada (ve le ricordate? Siamo andati a trovarle qualche settimana fa), scelta che unita all’uso di champagnotte trasparenti ha condotto a delle invitanti bottiglie, che splendono come le maglie del Brasile. L’uva designata per questo vino è il trebbiano toscano, che viene vinificato in bianco e poi, a un certo punto della fermentazione, Silvia urla “CAMBIOOO” e segue il procedimento descritto poc’anzi. Ora, io non so se Silvia o Lisa mentre fanno il vino urlino veramente come un gestore di balera, ma perché rovinare una bella storia con la verità?

 

Veniamo a noi e al “507”. Il nome, lo avevamo già detto in passato, è il numero delle bottiglie prodotte nella prima edizione di questo metodo ancestrale laziale. 

La 2019 è di un giallo paglierino carico, luminoso e limpido, segno che la sboccatura si è portata via praticamente tutti i lieviti (ce n’é giusto una traccia sul fondo della bottiglia, nessuna particella visibile in sospensione).

Lo stappo, lui si affaccia esuberante dal collo della bottiglia. Lo verso nel calice e, passata l’iniziale spuma, nel calice si forma un discreto perlage, che didatticamente parlando non andrebbe giudicato in un vino frizzante, ma io sono un dannato ribelle.

Il naso di questo vino è pulitissimo, prevalgono note fruttate di uva spina, pompelmo ed arancia, poi fiore d’arancio, profumo di biscotti, salvia, maggiorana e pietra focaia.

In bocca il vino è succoso, fresco, ha buona sapidità ed intensità e persistenza notevoli. Il finale è caratterizzato da un sentore ammandorlato e un leggerissimo amarore. Il pregio maggiore di questo vino?  Un sorso chiama l’altro, la beva è dannatamente agevole.

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