Casa Belfi – Vino Rosso Biologico Naturalmente Frizzante Rifermentato in Bottiglia.

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo l’etichetta di questo vino? Che l’ispirazione l’abbia fornita Lina Wertmüller. Insomma, un nome così è quanto di più lontano ci sia dalle atmosfere evocative che si manifestano non appena si nomina un qualche vino il cui nome finisca in “-aia”. Ma se una delle canzoni più belle dei Pearl Jam si intitola “Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town”, possiamo dedurre che la lunghezza di titoli o nomi non ha alcuna relazione con la qualità del prodotto.


Maurizio Donadi, il demiurgo di Casa Belfi, è un enologo, naturalista convinto, biodinamico nel cuore. Tuttavia non definirei il Rosso Frizzante che ho bevuto (e anche di gusto) un vino naturale al 100%. Vado a spiegarmi: la vigna è sì biodinamicizzata, la prima fermentazione è assolutamente spontanea e la seconda fermentazione, in bottiglia, è catalogabile come metodo ancestrale, in quanto i lieviti vengono aggiunti e mai più tolti, finendo al limite nel bicchiere dell’assetato di turno. Dunque, tutti questi indizi forniscono la prova che il vino si possa definire naturale. Ma? Ma tra la raccolta manuale delle uve e la prima fermentazione i grappoli passano anche per un contenitore saturo di CO2, dove restano suppergiù un mesetto a privarsi di buona parte dell’acido malico, arricchendosi al contempo di glicerolo e aromi secondari come ad esempio benzaldeide o cinnamato di etile. Sissignore, l’uva di questo vino subisce una macerazione carbonica. E ora tutto mi potete dire, ma non che questo processo sia naturale; ammesso sempre che tutte le trasformazioni cui l’uva è sottoposta dall’azione dell’uomo siano definibili ‘naturali’, ma qui entriamo in un campo minato, per cui chiudiamo il cancelletto e proseguiamo. 
L’azione della CO2 a sbriciolare un po’ di malico è comunque centratissima, poiché l’uva protagonista del vino è una di quelle che, se sguinzagliate senza dovuta catechesi, cattura palato e gengive del bevitore, restituendo alla bocca il solo osso. Altrimenti perché mai avrebbero dovuto i veneti chiamarla da sempre Raboso? Già solo il nome fa strizzare gli occhi. Un’uva dura, acida e tannica. Il soggiorno in atmosfera carbonica la restituisce un po’ più addomesticata e ricca di profumi, pronta per la seconda ancestrale fermentazione.



Parliamoci chiaro: il tappo a corona mi esalta e il colore del vino è spettacolare. È di un rosso vivissimo, un rosso ‘sangue arterioso’. Ovviamente prima di versarlo ho adeguatamente capovolto un paio di volte la bottiglia, così che un po’ dei lieviti vagassero per il liquido. Sono nella bottiglia, ergo li voglio nel bicchiere. E nel bicchiere il vino forma una poco fugace spuma rosa, prima di lasciare spazio alla vermiglia vivacità (sono pronto per la Settimana INCOM).
Un naso che svela la macerazione carbonica avvenuta, con potenti sentori fruttati di fragole, di lampone, di crosta di pane e anche un gran sentore vinoso. Alla frutta si aggiungono cannella e chiodo di garofano e, più che un sentore, una sensazione vera e propria di cantina. Un profumo che ho istintivamente definito genuino, contadino. 
Bocca fresca, pungente e cremosa, con un tannino che si apprezza maggiormente nel finale. Intensità e persistenza giuste per questo vino, né eccessive né evanescenti. I 10,5% di alcol fanno ipotizzare una vita piuttosto breve della bottiglia. Posso testimoniare in tal senso. 
Altra considerazione: nel calice è ottimo, ma nel vecchio bicchiere Duralex è addirittura perfetto. Come lo vedo perfetto in un pic-nic o una braciata all’aperto, messo in ammollo nel ruscello o, più rusticamente,  ‘a sponzo’ nella bagnarola con il cocomero. 
Non è certo un vino da meditazione. E vivaddio che non sia così. È un vino che non dà da pensare ma, nella sua pur presente complessità gustolfattiva, dà soprattutto allegria. 

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