Domaine des Marrans – Fleurie AOC 2015


Beaujolais. Per i non studiati è un nome intrigante, di quelli che non puoi tradurre dal francese (cosa che non si applica a Borgogna, Alsazia o Loira) e dunque ha fascino. Mai vista dal vivo una bottiglia, ma “sai che storia se ne portassi una a una cena?”. Poi qualcuno magari ha voglia di studiare, segue un qualsiasi corso sul vino, ed incontra di nuovo il Beaujolais. E però qui cambia la prospettiva. Si apprende che il Beaujolais è solo una parte della Borgogna. E che è la parte meno ‘nobile’. E che è famoso per il vino novello. E che la considerazione del Beaujolais nel panorama borgognone è più o meno quella goduta dall’Italia al Trattato di Versailles del 1919. I meno coraggiosi qui riporranno le loro pive nel sacco ed andranno avanti narrando degli splendori della Côte de Nuits e delle sue differenze con la Côte de Beaune (possibilmente senza aver mai bevuto un Borgogna), spedendo il poro Beaujolais nel dimenticatoio.

Io due o tre difetti me li attribuirei anche, ma certamente non pre-giudico i vini. Non battezzo un vino dopo aver letto la denominazione, senza neanche provare ad assaggiarlo. Non sono facile al condizionamento: versiamo il vino nel bicchiere, assaggiamo e poi magari se ne parla. E con questo spirito ho accolto il consiglio di Sara Boriosi su questo Fleurie, uno dei cru del Beaujolais. 

Il terreno del Beaujolais è prevalentemente acido, caratterizzato dalla notevole presenza di granito rosa, dall’ottima capacità drenante. Le viti per la maggior parte sono potate a gobelet, il nostro alberello. Il vitigno simbolo della zona è il Gamay, un’uva che adora i terreni acidi, acida e con un discreto tannino, di sicuro penalizzata dalla presenza del despotico vicino di casa, il Pinot Noir, ma che ha un suo motivo d’essere. 

Una cosa su cui sono pronto a scommettere è che i beaujoliani (non so se si dice, ma fa niente) siano in fissa con la CO2. Se vi domandate cosa c’entra la carbonica oltre al già citato Beaujolais Noveau, vi accontento subito: nella zona è molto in voga la macerazione semi-carbonica. Spiegata in maniera bruta: si rovescia l’uva in un contenitore, grappoli interi non diraspati, e lo si chiude ermeticamente; il peso dell’uva fa fuoriuscire un po’ di succo dagli acini; questo succo entra a contatto con i lieviti delle bucce e comincia a fermentare; la fermentazione, classica, produce CO2; il contenitore comincia piano piano a saturarsi di CO2, la quale allarga le maglie delle bucce e permette ai lieviti di godere del succo all’interno degli acini e fermentare a sua volta. In sostanza si alternano fermentazione classica e macerazione carbonica, con tutto il bagaglio olfattivo e la notevole estrazione di colore dalle bucce che quest’ultima fermentazione genera. Il tutto viene protratto per qualche giorno, poi il vino prosegue con una macerazione classica, con due/tre settimane di contatto vino/bucce. Il Gamay ha una spiccata acidità e un briciolo di macerazione carbonica contribuisce ad ammorbidirne la componente acida (l’acido malico viene utilizzato dalle cellule dell’uva per continuare la produzione di energia in ambiente anaerobico). E con questo finisco la lezione di chimica e passo al vino, prima che partano i fischi di disapprovazione.

 


Il Fleurie 2015 di Domaine des Marrans nel calice è un inchiostro, una china. Un rosso rubino molto profondo, non nel senso della compattezza del liquido ma proprio nell’intensità della tonalità. 

Il naso è molto interessante: ciliegia sotto spirito, fragole mature e frutti di bosco, rosa canina e violetta, carne cruda, tante spezie dolci (chiodo di garofano, noce moscata, una leggera vaniglia), decisa nota tostata di caffè, scatola di sigari, cuoio, una bella balsamicità mentolata, sul finale si affacciano polvere da sparo e sottobosco fungino (sì, ho scritto sugli appunti sottobosco fungino). Un naso molto complesso.

Ecco, la bocca è un discorso a parte. Assaggiato appena stappato l’impressione è stata incerta: un sorso durissimo, ho percepito molto tannino e acidità, poca morbidezza e poco allungo. L’ho lasciato nel calice buono buono e ci sono tornato dopo un’oretta: un’altra cosa. La morbidezza finalmente si percepisce, il tannino e l’acidità sono moderati, il vino acquista molto in termini di slancio e succosità, con la persistenza che si fa apprezzare e che chiude su toni di frutti rossi.

Mi sono chiesto come mai il primissimo sorso fosse così duro. Per quanto ne sappia io, tannini ed acidi fissi non scompaiono ossigenando il vino, o meglio i tannini sono sì antiossidanti ma non possono eclissarsi dopo un’ora di calice, mica abito in una camera iperbarica. Fatto sta che, domandando domandando, la bottiglia è bella che finita, confermando che il Beaujolais sarà pure il cuginetto sfigato della Borgogna, ma scende agile come Lindsey Vonn.

Nessun commento:

Posta un commento