La
storia dello Sciornaia, il vino che non esiste, era già stata
raccontata su Instagram tempo fa, in epoca pre-blog. Sfrutto
l’occasione del mio viaggio nelle terre dello Sciornaia per
raccontare nuovamente (e senza il maledetto limite dei 2200
caratteri) la sua storia. Ne vale davvero la pena,
soprattutto per l’idea che ha portato a questo vino. Comodi? Perchè
è lunghetta eh. Bene, partiamo.
San
Giovanni delle Contee è una frazione del comune di Sorano, provincia
di Grosseto. È posto su un blocco di tufo, regalo del vicino vulcano
oggi inattivo, conosciuto come Lago di Bolsena. Attorno a San
Giovanni il terreno tufaceo si interseca con l’argilla delle crete
a nord-est e il calcare del Monte Penna ad ovest, con il Monte Amiata
ad osservare da nord. Dunque un’invidiabile variabilità geologica.
E ce ne fosse uno, uno solo di questi terreni dove la vite cresca
male.
San
Giovanni è il classico paesino del centro Italia: 194 abitanti,
nello scontro diretto il cimitero è in vantaggio in tripla cifra.
Una manciata di case rovesciata su quattro strade, la chiesa a
vegliarle dal punto più alto. Arriviamo un sabato mattina di fine
agosto, ad accoglierci odore di bosco e di ragù bianco. Tommaso
arriva subito dopo. Tommaso Ciuffoletti, figlio di Zeffiro (nei paesi
come San Giovanni la migliore fonte di informazioni è la
genealogia), è un entusiasta, lo si percepisce bene. L’entusiasmo
è il suo carburante, è mosso da curiosità e da voglia di fare. Ci
porta a vedere la famosa Cantina del Rospo, dove lo Sciornaia nasce e
si affina. Una cantina scavata nel tufo, con andamento discendente,
con nicchie ai lati dove sono riposte le damigiane di vetro ed una
‘stanza’ per l’affinamento delle bottiglie pronte. Qualcuno
dirà “Cantina del Rospo? Mai sentita”. La risposta è perfetta:
questa cantina non esiste. Lo Sciornaia non esiste. Perché lo
Sciornaia, prima ancora che un vino, è un concetto. È un progetto
sociale. Sto filosofeggiando troppo? Lo capisco, vado ad
approfondire.
Cominciano quindi a tirar via le erbacce, a mettere a posto i pali, a potare le vigne. A San Giovanni la cosa viene accolta con bonarie risa ed i tre vengono definiti ‘Sciorni’, matti. In Sud America quando ti danno un soprannome ti hanno fatto un regalo niente male, e questo è il primo che il paese fa ai tre ragazzi. Il secondo regalo se lo fa il paese stesso: la novità di questi tre sciorni finisce per animare gli abitanti, tanto che ognuno li aiuta come può. Un signore gli concede l’uso della cantina, che diventerà la Cantina del Rospo per l’amichevole presenza di un vero rospo abitante del cunicolo, altri prestano loro le attrezzature e la manodopera per la vendemmia.
Alla
fine il vino viene fatto e seriamente: tutti lieviti autoctoni,
nessun filtraggio, per l’imbottigliamento si riutilizzano le
bottiglie già ‘bevute’: trovatemi un vino più agricolo tra
quelli in commercio. Serve un nome: “noi siamo tre sciorni e questo
è il nostro vino. Chiamiamolo ‘Sciornaia’”, il regalo di cui
parlavo prima. Si lancia anche un chiaro guanto di sfida agli altri
‘-aia’ regionali (Ornellaia, Solaia, Sassicaia, etc.).
Vista
la prima luce, ora bisogna diffondere il liquido verbo e il concetto
che porta con sé. Il buon Ciuffoletti ne parla a mezzo telematico e
varie bottiglie lasciano i confini comunali, provinciali, regionali.
Una bottiglia, Poste Italiane permettendo, raggiunge i Castelli
Romani, dove viene rispettosamente accolta da un bel fessacchiotto,
grande appassionato di vino. Costui adora l’incartamento, legge la
romantica retroetichetta e si appassiona, poi beve il vino e si
innamora del tutto. Sì perché finora non è stato detto ma il vino,
porca miseria se è buono! Ne ho la riconferma davanti alla Cantina
del Rospo, dove in tre ne finiamo una bottiglia parlando del paesino,
di storia, di calcio, di politica, e di vino. Lo Sciornaia 2018 è di
un bellissimo rubino cristallino. Il naso è principalmente vinoso,
poi si apre su note di ciliegia e lampone, rosa e geranio e finisce
tra incenso e spezie dolci. La bocca è fresca e la beva è
agilissima, difficile posare il bicchiere.
Una
delle vigne dello Sciornaia è la Vigna dello Stridolone, così
nominata per la vicinanza con il fiume Stridolone, un corso d’acqua
il cui letto è disseminato di ciottoli. Solitamente il suo flusso è
torrentizio, una sorta di Piave in scala ridotta, ma quando l’acqua
lo invade la sua forza fa collidere tra loro i massi del letto che,
appunto, producono stridore. La vigna è subito al di qua del fiume,
sei filari da un centinaio di metri ciascuno, tutto Sangiovese, con
viti di Trebbiano qua e là a giocare a nascondino. Tommaso ci porta
a visitarla: la vigna è bellissima nel suo ‘disordine’, le viti
sono anzianotte e fanno ciò che vogliono, diramandosi senza seguire
alcun playbook.
Vigna dello Stridolone |
Uve nel pieno dell’invaiatura, bisogna solo evitare
che diventino nutrimento per i cinghiali. La cosa viene caldamente
suggerita a Tommaso dai dirimpettai, una coppia di giovani ottantenni
intenti a circondare con il filo elettrificato la loro vigna. E
quando dico ‘giovani ottantenni’ non voglio prenderli in giro:
lavoravano in vigna sotto il sole di agosto ed erano sorridenti; io
non avrò mai la loro energia.
Torniamo
infine in paese a prendere la macchina, dopo una giornata immersi in
questo angolo di Toscana. Ma prima di salutare Tommaso siamo
ulteriormente testimoni della bontà della loro sciornata: Tommaso
saluta i sangiovannesi lungo il cammino e, con nutrito orgoglio, dice
loro che io e Fabio siamo venuti da Roma a San Giovanni delle Contee
proprio per lo Sciornaia. E tutti reagivano con grandi risate, che
però non erano di scherno o dileggio: come a dire “questi due sono
venuti da Roma a San Giovanni apposta per qualcosa che facciamo tutti
noi qui a San Giovanni”. E negli occhi di quelle persone si vedeva
una scintilla felice.
Ok,
forse mi sono fatto prendere un bel po’ la mano nella scrittura, se
qualcuno ha letto fino a questo punto è un eroe e lo ringrazio. Ciò che ho scritto resta comunque vero e verificabile. Basta contattare
Tommaso. Lui non vede l’ora di ricevervi a San Giovanni delle
Contee, tanto più che si avvicina il momento della vendemmia e
qualche paio di braccia in più fa sempre comodo. Il fatto è che una
storia così bella e romantica dà tutto un altro senso ad una
semplice bottiglia di vino, il fulcro della mia curiosità iniziale.
Anzi, il vino potrebbe anche passare in terzo piano, se non fosse
così assurdamente buono anche lui.