Vignaioli in Grottaferrata (14/09/2020)

Sei. Sei, come i premi Oscar vinti da Forrest Gump; come le ruote della Tyrrell; come il numero di Bill Russell e di Youri Djorkaeff. Sei, come le cantine con sede a Grottaferrata. Sei cantine che hanno deciso di associarsi per promuovere questo territorio, non solamente il vino che vi si produce; un vino che sia fine e mezzo.

 


Voglio scommetterci: credo meno dello 0,05% di voi abbia mai bevuto un vino proveniente da Grottaferrata. Siete molto meno dei grammi di sodio nell’acqua Panna. Certo, siamo tutti portati ad emozionarci davanti ad un vino delle Langhe (e ti credo), oppure a predisporci positivamente se ci viene stappato un Fiano di Avellino, o un Bolgheri Rosso, o un Sauvignon Blanc friulano. Viceversa, l’approccio ad un vino dei Castelli Romani è sempre misurato, guardingo. Posso capirlo, il retaggio degli scorsi decenni è ancora duro a morire. Eppure le cose cambiano; sono cambiate. E, se è vero come è vero che dopo Narzole 1985 la Barbera ha raccolto i suoi cocci per farne, contro ogni previsione iniziale, una costruzione molto più prestigiosa di quella andata in frantumi sotto i fumi dell’alcol (metilico), allora c’è ragione di credere che anche i vini provenienti dall’areale del Frascati troveranno la considerazione che meritano.

 


Da queste parti, dove ho la fortuna di abitare, c’è tanta storia e c’è finalmente anche prospettiva. Qualche vignaiolo già lo faceva, qualcun altro si è lanciato nell’impresa in tempi recenti, fatto sta che adesso sui Castelli Romani si vuole fare viticoltura di qualità come mai nel passato. E quando i disciplinari non aiutano, privilegiando ancora un po’ troppo la quantità dell’uva, sono i singoli vignaioli a creare associazioni volte a promuoversi, a promuovere un vino di qualità, senza sterili rivalità. È in questo modo che nasce l’Associazione Vignaioli in Grottaferrata, fondata dalle sei cantine criptensi: Agricoltura Capodarco, Castel De Paolis, Emanuele Ranchella, Gabriele Magno, La Torretta e Villa Cavalletti.

La cerimonia di ufficializzazione dell’associazione del 14/09/2020, tenuta nel cortile della magnifica abbazia di S. Nilo di Grottaferrata (se non ci siete mai stati fustigatevi per bene, pentitevi di voi stessi ed andateci!), ha posto l’accento proprio su questo aspetto: valorizzazione del territorio. Sì, sono parole che abbiamo già sentito migliaia di volte (anche riguardo territori che da valorizzare avevano sì e no le sterpaglie), se non che qui il territorio ha potenzialità davvero inespresse, potenzialità che partono dalla viticoltura per arrivare al turismo e alla cultura. 

 

lazioface.altervosta.org

La genesi di questo territorio ha un solo responsabile: Vulcano Laziale. Il ‘piccolo’, nel corso della sua esistenza, ha mega-eruttato varie volte, ma di quelle eruzioni che poi vogliono l’applauso dei presenti a spettacolo finito; in questo modo sono stati generati i laghi di Nemi ed Albano ed altri vari bacini poi prosciugati, tra cui la criptense Valle Marciana. Sono 20000 anni che il cucciolo è a riposo, ma non è mica spento, e qualche sciame sismico sporadico funge da avvisaglia nel caso in cui ci si rilassi troppo.

 

Il terreno vulcanico dunque, una benedizione per il viticoltore. Passando attraverso migliaia di anni di diverse eruzioni questo risulta variamente caratterizzato, tanto che praticamente ogni comune dei Castelli Romani ha il proprio terreno caratteristico. Per avere un’idea è sufficiente prendere la via Anagnina da Roma, direzione Grottaferrata. Oltrepassate la salita delle catacombe ad Decimum (che già valgono una visita) ed osservate il terreno alla vostra sinistra, quello che sarebbe la base del Castello Savelli: strati e strati di ceneri, lapilli, tufo ed altri materiali di origine vulcanica. Sulla destra invece si apre la conca di Valle Marciana, un anfiteatro disseminato di vigne. Un panorama che merita la sosta, a rischio della propria incolumità, fino a quando non ci faranno una dannata ringhiera turistica che se fossimo nel Chianti o sulle Langhe ci sarebbero le maledette panchine davanti a quella ringhiera! Basta, mi calmo, sono calmo.

 


I sei banchi d’assaggio sono stati dislocati nel Cortile del Sangallo dell’abbazia (qui ci sarebbe stata bene la locuzione ‘splendida cornice’), consentendo a tutti di degustare i vini dei Vignaioli in Grottaferrata senza fare a spallate, stupendo artifizio in tempi di Covid-19. 

Ho degustato vini assai differenti per stile e provenienza, eppure tutti con il riconoscibile apporto del terreno di matrice vulcanica, massivamente presente all’interno del bouquet e del sorso. Vini di carattere, intensi e sapidi, ricchi di profumi, nulla a che vedere con l’immaginario del ‘vino dei Castelli’ da fraschetta. Senza troppi dettagli degustativi, altrimenti i pochi di voi che hanno resistito finora me li perdo come i tramonti di Neruda, vado con la mia hitlist chart della serata: di Castel De Paolis, l’azienda forse più conosciuta delle sei, è ottimo il dolce “Muffa Nobile” (di cui avevamo già parlato qui), una replica del Sauternes in veste romana. Agricoltura Capodarco mi ha stupito con il rosso “Xenia”, uve rosse, annata 2015; un pollice in su per il vino, ancora fresco e vibrante, due pollici per il messaggio. Villa Cavalletti, capitanata dalla presidente dell’associazione Tiziana Torelli, ha offerto in mescita un Roma DOC Rosso Riserva 2015 (Montepulciano 80% e Cesanese 20%) accattivante a dir poco. Di Gabriele Magno confermo l’elevato standard qualitativo dei suoi Frascati Superiore DOCG e Frascati Superiore Riserva DOCG, a mio parere tra i migliori della denominazione. Emanuele Ranchella ha deciso da pochi anni di imbottigliare solo due etichette, ma entrambe sono notevoli oggi come lo saranno tra qualche anno dopo un dosato riposo in bottiglia: il Roma DOC Bianco “Ad Decmum” (Malvasia Puntinata, Trebbiano Verde e Trebbiano Giallo) e il Trebbiano Verde in purezza “Virdis”. In cima alla classifica però ho messo La Torretta di Riccardo Magno: tre ettari di terreno coltivati in biodinamica e tre vini splendidi: il metodo ancestrale “Bolle di Grotta”, il bianco “Torretta”, affinato in anfora, e il bianco “Castagna”, elevato in botti da 10 hl di castagno, legno tradizionalmente usato sui Castelli Romani; vini intensamente profumati, puliti e ben complessi, sempre per ribadire che il vinello scialacquato dei Castelli è una porcheria che deve far parte del passato (e che non deve più essere comprata! Spendete un po’ di più e bevete un po’ di meno, che tanto non avete il fisico e se esagerate vi fa male la testa, ma ‘ndo’ annate).

 

Il ringraziamento finale va a Saula Giusto, coordinatrice dell’evento ed estensric…, estensor…, insomma che ha esteso l’invito a questa manifestazione anche a me.

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