Confronto tra 3 Chardonnay italiani: nord vs centro vs sud

La suggestione, più che il suggerimento, è arrivata da Giuseppe e Alla Fazari su Instagram: parlare di Chardonnay italiani, di nord, centro e sud. Suggestione dicevo perché, razionalmente, ancora non mi straccio le vesti per uno Chardonnay. Eppure l’idea di confrontare tre vini a diverse latitudini, che abbiano in comune solo quest’uva, mi attrae da matti. Come al solito lo scritto sciagurato può essere dietro l’angolo, ma mi piace provarci. Di conseguenza, eccomi tornare dall’enoteca con tre esemplari di Chardonnay italiani (due in realtà; uno era già in cantina). Ma prima parliamo giusto un secondo di quest’uva (“Nooo, uffa. La lezioncina no”. Ok, allora niente lezioncina. “Ma che davvero”? Ma certame… no. Scherzavo).

 

Wikipedia

Lo Chardonnay ha origini francesi. Borgognone, per essere precisi, con locazione accertata delle prime viti riconosciute come tali nell’abbazia di Pointigny, in piena zona Chablis. Il nome invece trae origine dal villaggio di Chardonnay, situato circa 250 km più a sud dell’abbazia, nel Mâconnais. Su come ci sia arrivato in Francia lascio parlare chi è competente in materia, come al solito le teorie sono molteplici. Per orgoglio personale voglio immaginare la storiella che siano stati i Romani, con le loro belle barbatelle sempre appresso, ad arrivare in Borgogna, piantare queste viti bianche e dire “e mo’ stai qua”. Fatto certo è che questa varietà, da quell’angolino freddo di Francia se ne è andata a spasso per il globo terracqueo come neanche un pilota di linea sotto incentivi aziendali. 

 

Ad oggi, è il vitigno impiantato nel maggior numero di Paesi e per ettari coltivati è dietro solo a Cabernet Sauvignon e Merlot. “Sarà perché è facile da coltivare”. Eh, mica tanto: certo, cresce con vigoria e, se lasciato fare, sforna grappoli a secchiate; ma è una varietà precoce, per cui rischia le gelate primaverili, e in climi freddi può andare incontro a coulure (ossia il fiore non evolve in un grappolo) e millerandage (ossia non tutti i chicchi del grappolo maturano allo stesso tempo, ragion per cui al momento della pigiatura gli acini meno maturi possono dare al vino un sapore ‘verde’). Non basta, anche la maturazione è precoce e pure parecchio rapida: l’uva perde velocemente la propria acidità, con conseguente appiattimento gustativo del vino risultante qualora l’avessimo vendemmiata con quel quarto d’ora di ritardo.

Insomma, neanche poco rognosetto il tipo. C’è da chiedersi come mai sia piantato in tutti i paesi produttori di vino. Beh, innanzitutto è perfetto per i vini spumanti, e ti pare poco. E in secondo luogo riesce a dare vini sempre versatili e gradevoli, anche se provenienti da coltivazioni intensive. Figuriamoci cosa riesce a dare quando le rese sono tenute sotto controllo e viene trattato con rispetto e devozione: dei vini che sono il paradigma dell’eleganza in campo enologico. 

 

Bibenda.it

Sì, ma in Italia? Le origini sulla sua coltivazione sono nebulose. Di sicuro c’è che fino al 1978 per il legislatore lo Chardonnay in Italia non esisteva, o perlomeno non era possibile metterne il nome in etichetta, pena l’accusa di frode. “Ma no, viticoltore Tizio, non dica sciocchezze. Non può essere Chardonnay quello che ha in campo. È senz’altro Pinot Bianco, mi dia retta”. Beh, se me lo dice lei. Il problema è che, come è ovvio, di Chardonnay in Italia ne sono stati piantati ettari ed ettari ben prima del fatidico anno dei mondiali in Argentina: ad esempio in Trentino per la spumantizzazione, così come in Friuli ed anche in Toscana, dove verso la metà dell’800 Vittorio degli Albizi mise a dimora viti francesi in quel di Pomino e realizzò quello che nel 1878, all’esposizione internazionale di Parigi, venne premiato come lo “Chablis di Pomino”. 

Oggi (anzi, oggidì) non c’è regione italiana che non riporti sui registri decine di ettari piantati a Chardonnay, che vengono vinificati in acciaio, in barrique o champenoisizzati.

 


E veniamo al succo del discorso: i tre vini scelti. Gli esemplari che ho stappato, rigorosamente affinati nel solo acciaio, per minimizzare le variabili organolettiche, provengono da tre distinte zone dello stivale (o del Bel Paese):

1) La Tunella – Friuli Colli Orientali Chardonnay DOC 2019: le viti si trovano in Friuli, a 5 km dal confine con la Slovenia, il che vuol dire una cosa soltanto: ponca. Da queste parti l’uva affonda le radici in questo straordinario impasto di marne calcaree ed arenaria, uno dei terreni migliori sulla terra per fare viticoltura. Il clima è continentale, con piovosità distribuita quasi equamente su tutti i mesi dell’anno. 

2) Paolo e Noemia D’Amico – Lazio Bianco IGT “Calanchi di Vaiano” 2017 (lo so, è di due anni più grande, ma questo avevo; siate gentili): i vigneti sono situati al confine tra Lazio ed Umbria, nei pressi dei calanchi di Sociano, su un terreno dove aree di origine vulcanica si alternano ad argille e sabbie, necessarie per la formazione dei calanchi. Il clima è temperato caldo, con piogge rilevanti giusto nei mesi di ottobre e novembre.

3) Mandrarossa – Sicilia Chardonnay DOC “Laguna Secca” 2019: l’areale produttivo si trova nella zona di Menfi, Sicilia sud-occidentale, su terreni misti di sabbia e calcari marnosi a poca distanza dal mare. “Laguna secca” sta ad indicare la presenza di antiche lagune che, asciugandosi, hanno consegnato un territorio piuttosto fertile. Serve dire che fa caldo, ma caldo caldo, lì giù? No, non credo.

 


Già nel calice si evidenzia la netta differenza tra l’uva di provenienza alpina con le altre due. Lo Chardonnay friulano è di un giallo molto chiaro, quasi bianco carta, mentre quello laziale e il siciliano sono di una piena tonalità paglierina. 

Sotto il profilo olfattivo lo Chardonnay de La Tunella viaggia veloce e leggero come uno Shinkansen. I suoi profumi sono al contempo intensi e delicati. Note di tiglio, mela verde, pesca bianca, lime, un accenno di foglia di coriandolo e di salvia, mineralità che ricorda un giorno di pioggia, accompagnato a un sentore di crosta di pane, dovuto ai 6 mesi di affinamento sur lie. Anche il profumo di burro fresco tipico del vitigno è presente.

Il Calanchi di Vaiano è più solido, più deciso al naso, dati anche i due anni in più sulle spalle rispetto agli altri due partner. Qui i profumi si riscaldano un po’, la pesca è gialla, cui si aggiungono mango e nespole, del gelsomino, la classica nota burrosa, pepe bianco, un sentore lievemente affumicato e una leggera nocciola che con il passare degli anni comincia a fare capolino. Un profumo di impatto decisamente maggiore rispetto al fratello friulano.

Il profumo dello Chardonnay siciliano rassomiglia più al suo omologo laziale nonostante sia più giovane, con sentori che qui si riscaldano ulteriormente, portando la pesca gialla di cui sopra a piena maturazione, spalleggiata da albicocca ed ananas. Intensa mineralità salmastra, cenni di erbe mediterranee, mimosa, zafferano e pepe rosa, oltre all’immancabile nota burrosa, qui più calda (gli abbiamo dato una scaldata a questo burro). 

 


Se al naso i tre Chardonnay esprimevano tutti un pattern olfattivo molto piacevole e tutto sommato complesso, è al gusto che si avverte la differenza di calibro. 

Lo Chardonnay del Friuli entra in bocca con una punta di dolcezza residua, l’ingresso è gentile nonostante abbia dei tre la maggiore quota di acidità fissa. Sapidità presente ma in secondo piano rispetto alla grande freschezza, che comunque non domina incontrastata, data la discreta morbidezza avvertibile (certamente dovuta al residuo zuccherino). Sapore intenso e persistente, chiusura su toni agrumati.

L’ingresso del vino laziale è anch’esso, al pari del suo profumo, più corposo, con una sapidità dominante su una freschezza qui meno in risalto. Sapore piuttosto intenso, con persistenza durevole e chiusura lievemente amaricante. 

È a questo punto che lo Chardonnay di Mandrarossa paga pegno. Paga poiché il confronto nell’immediato con gli altri due vini evidenzia come, a livello gustativo, sia un abbondante passo indietro in termini di intensità e di persistenza. Anche in questo caso è la freschezza a dominare, pur non essendo soverchiante, e si apprezza una leggera morbidezza ed una dosata sapidità. Chiude rapidamente su  una sensazione di ‘agrume salato’, non ho saputo renderla meglio, abbiate cuore.


In conclusione questo confronto (che non è stata una gara, sia messo a verbale) ha evidenziato come in qualche modo uno stesso vitigno, vinificato nello stesso modo, da diverse parti d’Italia, riesca a riflettere questa variazione di latitudine all’interno del vino e, allo stesso tempo, riesca a mantenere altre caratteristiche che lo rendono riconoscibile. 

No, il vino non è solo succo fermentato d’uva. 

E sono sinceramente dispiaciuto per chi non ci arriva.

1 commento:

  1. Molto bene Luciano, sicuramente in Sicilia si trova di meglio. La Tunella credo abbia un paio di marce in più, mentre Paolo e Noemia sono una splendida realtà con ottimi vini. Grazie anche per avermi menzionato ������

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